Capitolo 8
James
Mi aspetto gas lacrimogeni attraverso le bocchette dell’aria, un commando della Guardia nazionale in assetto antisommossa, spari, sangue e poi la morte o la prigione.
Ma non succede nulla di tutto ciò.
I detenuti rimasti, diciassette in tutto, si radunano nella lavanderia. Probabilmente pensano che Pedro, l’unica persona che potrà farli uscire, si trovi lì, e che quella stanza con un’unica porta sia più facile da difendere dell’intera prigione.
La radio nella mano di Carl si mette a gracchiare e la voce del comandante della Guardia nazionale riecheggia nella lavanderia.
«Abbiamo accettato le vostre condizioni. Vogliamo proporvi una tregua».
Nella stanza si leva un coro di evviva e alcuni detenuti si danno un cinque lanciandomi occhiate torve.
«Io non vengo», dice Pedro. Gli hanno legato le mani dietro la schiena con il nastro adesivo e si sta dibattendo per liberarsi.
«Certo che verrai», gli risponde Carl sorridendo. «Nel caso tu non l’abbia notato, negozieremo con gli sbirri fuori dalla prigione, non dentro». Fa un cenno a uno dei suoi compagni. «Imbavagliatelo», gli ordina.
L’uomo arrotola una federa e gliela ficca in bocca fissandola con altro nastro adesivo.
Carl accende di nuovo la radio. «Questa sì che è una bella notizia! Ma adesso parliamo di cose serie. Vogliamo che ci assicuriate che il nostro piccolo stato libero di Edgefield non sarà invaso. E con questo intendo dire che vogliamo fucili e bombe. E una zona neutrale di un centinaio di metri attorno al perimetro del carcere».
«Le armi sono fuori discussione».
«Allora lo è anche il nostro accordo. Niente armi, niente Pedro Álvarez. Vivo, in ogni caso».
Una lunga pausa. E poi: «Restate in attesa».
L’attesa sembra durare un’ora. «Okay, potete prendere le vostre armi», risponde finalmente il comandante della Guardia nazionale.
«Bene. Ma non vogliamo vecchi sparafagioli arrugginiti. Sto parlando di armi semiautomatiche. E ci servono anche molte munizioni. Una per ognuno dei miei…». Si ferma per contarli. «Diciassette uomini. E vogliamo che ci restituiate tutti i prigionieri che avete catturato durante il blitz. Con armi anche per loro». Alza la voce, spazientito, e aggiunge: «E un fucile di riserva per ognuno, due bombe a mano a testa e sette lanciagranate».
Il negoziatore della Guardia nazionale accetta a denti stretti. Alcuni detenuti si avventurano fuori dalla lavanderia per controllare se ci sono uomini appostati o trappole esplosive. Dopo che hanno verificato che la prigione è vuota, usciamo tutti, con Pedro e io che facciamo da scudo agli altri.
Nel cortile le guardie stazionano dietro una barricata. Alle loro spalle ci sono gli altri detenuti. Davanti alla barricata hanno lasciato per noi una mezza dozzina di casse.
«Voglio una dimostrazione delle armi!», grida Carl.
Un uomo della Guardia nazionale con una mostrina sulla spalla si stacca dagli altri, apre una cassa, tira fuori un fucile dall’aria antiquata e spara un colpo in aria.
«Svuota quella cassa. Prendi un fucile. Anzi, due», urla Carl. «E fammi vedere di nuovo».
Carl è furbo, non c’è che dire.
La guardia si volta per avere conferma. Un uomo con un’aquila d’argento sul casco gli fa un cenno d’assenso. La guardia avanza e prende un fucile. Carl gli urla di usare quello accanto. Sì, Carl è decisamente furbo. La guardia spara in aria. Il fucile funziona. E così anche il successivo.
Hanno deciso di armare tutta la prigione? È un incubo.
Lo scambio inizia e io li guardo attonito. Un detenuto fa avanzare Pedro puntandogli un coltello alla schiena e poi si ferma per aspettare che la Guardia nazionale liberi gli altri prigionieri. I loro compagni si precipitano a prendere le casse e ritornano da Carl. Ma il tipo che trattiene Pedro non lo libera.
«Lasciatelo andare!», urla alla radio il comandante della Guardia nazionale.
«Lo faremo», risponde Carl. Ma non dà l’ordine.
Il sudore mi bagna i palmi delle mani. Lasciatelo andare.
Non vorranno mica…
Quando i prigionieri liberati si uniscono al gruppo di Carl, rovesciano le casse e distribuiscono le armi, sollevandole sopra le teste e urlando come se avessero appena vinto il Super Bowl. Poi puntano i fucili contro la Guardia nazionale schierata davanti a loro.
Carl accosta la radio alla bocca. «Va bene, liberate il nostro ospite».
Quando vedo Pedro avanzare, mi lascio sfuggire un sospiro di sollievo. Prima di arrivare alla barricata, si ferma e si volta. Scruta la folla dei prigionieri finché non incrocia i miei occhi. Immagino cosa sta pensando: se in questo momento si farà valere e chiederà la mia liberazione, forse potrà farcela.
Scuoto la testa. Sono armati, adesso. Sarebbe un bagno di sangue.
Prima che Pedro possa aprire bocca, le guardie lo circondano e lo trascinano dietro la loro linea. Con la stessa rapidità, i prigionieri indietreggiano con le armi puntate contro la Guardia nazionale. Mi spingono indietro con loro verso il cancello e io penso che a questo punto il mio destino è segnato.
Quando rientriamo nella prigione, mi chiudono in una cella. È un passo indietro in termini di sistemazione; prima stavo in un cubicolo a bassa sicurezza, una sorta di dormitorio, insieme ad altri due detenuti. Ma per il momento sono ancora vivo. È questo che conta.
Mi sdraio sulla branda di sotto. Il tipo con il coltello che mi aveva minacciato nella lavanderia esce dalla cella impugnando in una mano una pistola e nell’altra una tazza di vino fatto in casa. Mi fissa senza dire nulla, come se fossi un animale in uno zoo.
Sono tentato di ringraziarlo per essere passato a trovarmi, ma dubito che coglierebbe l’ironia. Meglio non stuzzicare i miei carcerieri.
Fisso la branda sopra di me. Per uno strano scherzo del destino sono l’ultimo prigioniero dell’Istituto correttivo federale di Edgefield, un posto dal quale avrei potuto facilmente evadere. I miei compagni mi uccideranno, e se non lo faranno loro, ci penserà il Lungo Inverno.
Ma forse ci sono lati della natura umana che mi sono ancora oscuri.