CAPITOLO 58
Tracy sbatté la mano sul volante quando si rese conto, ancora prima di vedere il logo sulla griglia, che l’auto non era una Lexus. Premette l’acceleratore e si lanciò verso l’incrocio e stava per attraversarlo quando vide un grosso cartello giallo che indicava una strada senza uscita. La guardò meglio. C’era un solo lampione. Le case si trovavano su un solo lato della strada. Sull’altro c’era una recinzione, di quelle con le assi di legno fissate alla rete per evitare gli sguardi dei passanti. Tracy avanzò, sbirciò fra le assi e vide la parete di stucco del retro di un centro commerciale e i cassonetti blu strapieni di scatoloni.
E la Lexus.
Aveva trovato l’auto.
Lui doveva essere nei paraggi; non si sarebbe arrischiato a camminare molto, non a quell’ora.
Tracy fece inversione, tornò all’incrocio e svoltò a sinistra verso Aurora. Il motel più vicino era all’angolo. Entrò nel parcheggio, saltò giù dal furgone e corse nell’ufficio. La clavicola, che non era ancora del tutto guarita, le fece male per lo sforzo.
L’impiegato era dietro il bancone che guardava la televisione. Un tizio obeso, che si alzò a fatica dalla sedia. «Ha bisogno?»
Tracy mostrò il distintivo. «Nell’ultima ora è venuta una donna sola per chiedere una stanza?»
Il tizio si sistemò la visiera di un berretto rosso con la pubblicità di un’officina meccanica. «No.»
«Quella donna è in pericolo di vita. Se è venuta, devo saperlo.»
«Non è venuto nessuno» disse lui, l’aria improvvisamente preoccupata. «Una famiglia si è registrata subito dopo mezzanotte, ma per il resto è stata una serata tranquilla. Com’è la ragazza?»
Tracy non lo sapeva. Stava già guardando oltre le porte a vetri, verso il motel dall’altra parte della strada. «Grazie» disse e uscì.
Girò il furgone nel parcheggio e si lanciò attraverso la strada. Un’auto nella corsia diretta a nord suonò il clacson quando se la ritrovò davanti, e la ruota anteriore sinistra del furgone rimbalzò sul marciapiede. Tracy corresse la rotta ed entrò nel parcheggio del motel. Un cartello indicava che l’ufficio si trovava sul retro.
Al bancone c’era una donna corpulenta a cui mancava un dente. Tracy le mostrò il distintivo. «Sto cercando una donna che potrebbe essere entrata da sola circa un’ora fa. Potrebbe aver chiesto una stanza verso il fondo, che fosse tranquilla, aveva bisogno di privacy.»
«Sì. Una tizia è arrivata più o meno tre quarti d’ora fa.» L’impiegata parlava con un accento dell’Europa dell’Est.
«Quale stanza?»
«La 27.»
«Devo entrarci.»
La donna prese la chiave, una tessera di plastica, appesa a un gancio con un cordino. «Venga, la accompagno.»
Tracy la seguì fuori dall’ufficio. La donna si muoveva agilmente per la sua stazza. Salirono le scale esterne e svoltarono a sinistra sulla balconata del secondo piano. Tracy guardava i numeri sulle porte: 24, 25, 26. Quando arrivarono alla 27 la donna bussò, probabilmente per la forza dell’abitudine, un attimo prima che lei potesse impedirglielo.
Tracy prese la tessera e la infilò nella fessura. Si accese una lucina rossa. Tornò a infilare la tessera e riprovò. Di nuovo, la luce era rossa.
«Piano. Piano.» L’impiegata prese la chiave e la infilò. Il sensore divenne verde.
«Si metta dietro la parete» le ordinò Tracy. Con il braccio buono, spalancò la porta, poi prese la pistola.
C’era una donna seduta sul letto, il lenzuolo fin sotto il mento, gli occhi sgranati. Sul letto accanto a lei c’erano una sacca e un assortimento di giocattoli sessuali. «Dov’è?»
La donna indicò il bagno.
Tracy si fece da parte e allungò la mano verso la maniglia della porta. Era chiusa a chiave. Bussò una volta. Il colpo riecheggiò.
«Polizia. Apra la porta.»
Non sentì alcun movimento, così indietreggiò e sferrò un calcio alla maniglia, poi si spostò dietro la parete mentre la porta si schiantava verso l’interno. Non vi furono spari. Solo un uomo che gridava: «Va bene! Va bene. Va bene».
Tracy ruotò verso la porta e prese la mira. L’uomo era rannicchiato nella vasca, nudo, le mani sollevate come un bambino che supplica di non essere picchiato.
«Mi spiace. Mi spiace.»
Non era il Cowboy.
Aveva rifatto il letto, lisciato ogni grinza sul copriletto, aveva piegato i vestiti con cura e li aveva messi in un angolo. Poi si era seduto a guardare i cartoni.
Prima fai il tuo dovere e poi potrai guardare i cartoni.
Controllò l’orologio e diede un colpetto al pacchetto per far uscire una sigaretta.
«Fumi? È un’abitudine schifosa. Ma a volte ha il suo perché.»
Un’altra bella battuta. Avrebbe dovuto scriverle, così non rischiava di dimenticarle.
Raina gemette, ma dal bavaglio uscì un suono incomprensibile. Senza il Rohypnol era più all’erta, più vigile. Adesso che era stata sottomessa e incaprettata, la cosa aveva i suoi vantaggi. Era come improvvisare durante uno spettacolo dal vivo e fino a quel momento l’eccitazione era stata incredibile.
Accese la sigaretta, si chinò in avanti e appoggiò la punta contro la pianta dei piedi, che era rivolta verso l’alto. Lei sussultò e si irrigidì, tendendo il cappio. Quando la corda si strinse, sgranò gli occhi. Dio, adorava quando sgranavano gli occhi. Era come guardare dritto nell’anima di una persona e scoprire com’era fatta davvero, senza finzioni, senza trucchi e costumi di scena; nuda e disadorna. Una puttana.
Lei gemette mentre la pelle fumava e si arrossava. I muscoli delle gambe scattarono. Intuì che questa volta sarebbe stato veloce. Forse perfino troppo. Non voleva che lo fosse. Forse la sigaretta non serviva. Prese la corda che le correva lungo la spina dorsale e la tirò verso la testa, per allentarla. «Shh» disse. «Rilassati. Rilassati. Respira. Ecco. Meglio? Adesso guarda lo spettacolo. È uno dei miei preferiti. Non puoi perdertelo.»
Dalla stanza Tracy uscì sulla balconata. Da lì aveva una visuale migliore di Aurora, nelle due direzioni. Il motel più vicino era a nord, a metà dell’isolato, in diagonale rispetto al punto in cui si trovava lei. Le scale tremarono e la ringhiera di metallo sferragliò mentre scendeva rapida, vagamente consapevole dei volti che la fissavano da dietro le tende. Non perse tempo a salire sul furgone e corse verso la strada. Sul marciapiede, esitò per valutare il traffico, poi attraversò di corsa, mancando un furgone per un pelo. L’autista la guardò come se fosse impazzita. Nell’ultima corsia, una macchina strombazzò e inchiodò. «Ehi, dolcezza» gridò un tizio. «Dove vai?» Tracy girò intorno al cofano.
Arrivò al marciapiede opposto, un braccio che pulsava, l’altro stretto contro il corpo per contenere il dolore. Seguì le indicazioni per l’ufficio e tirò la porta di vetro. Quella sbatacchiò ma non si aprì. Tracy imprecò e picchiò con forza sul vetro. Poi notò un citofono sulla destra e un biglietto scritto a mano, delle dimensioni di una cartolina.
DOPO L’UNA DI NOTTE USARE IL CITOFONO
Schiacciò il pulsante del citofono e posò le mani sul vetro fumé per sbirciare dentro. Un tizio scalzo in maglietta uscì da dietro una parete, abbottonandosi i pantaloncini corti. Tracy premette il distintivo sul vetro.
Il tizio corse ad aprire.
Ancora senza fiato, Tracy disse: «Sto cercando una donna. Dovrebbe essere arrivata da sola circa un’ora, un’ora e mezzo fa, e aver chiesto una stanza per un’ora o due».
«Ehi, io la conosco, lei è la detective che è stata in TV. Dava la caccia a quel serial killer, il Cowboy.»
«È venuta una donna nell’ultima ora?»
«Credevo l’avessero preso, quel tizio.»
«Mi ascolti. C’è una donna in pericolo di vita e devo trovarla. Ha affittato una stanza a una donna…?»
«Sì, sì. È venuta una donna» disse lui, agitato. «Più o meno un’ora fa. Bassina. Bionda.»
«Quale stanza?»
«Non… non mi ricordo la stanza, devo… devo controllare.»
«Lo faccia.» Tracy lo seguì dietro un bancone strapieno di fogli, post-it e parti di giornale. L’uomo frugò in quel caos. «Che stanza?» lo incalzò.
«Non… Non…» Si voltò e sfogliò altri mucchi di carta sul bancone dietro di lui. «Eccolo. Eccolo. 17. È alla 17.»
Le gambe della donna avevano iniziato a tremare. I muscoli sembravano corde di violino tese sotto la pelle lucida di sudore, mentre si sforzava di mantenere la posizione ed evitare che il cappio si stringesse.
Non mancava molto.
«Guarda questa» disse lui. «L’uccello è un piccolo di falco, quindi anche se non è nemmeno un decimo del gallo, il gallo è lo stesso la sua preda. È l’istinto. Non può farci niente. È programmato per uccidere il gallo perché… perché è così che vanno le cose.»
Abbassò la punta della sigaretta sulla pianta del piede coperta di bolle e la affondò con decisione in un punto già bruciato. La donna si irrigidì e gemette, il verso soffocato dal bavaglio. Raddrizzò le gambe e questa volta il corpo fu preso dagli spasmi. Lui affondò ancora di più le braci ardenti e gli spasmi divennero più violenti. Un gorgoglio le risalì in gola e una scia sottile di sangue le gocciolò lungo il collo da sotto la corda.
Non sarebbe arrivata fino alla fine del cartone.
«Vuoi sapere come va a finire?» le chiese.
Tracy corse fuori non appena ebbe tolto la chiave di mano all’impiegato. Era di quelle vecchio stile, con i denti. Percorse con lo sguardo le porte intorno all’edificio e si fermò all’ultima, rintanata in una nicchia sotto un cartello con la scritta USCITA. Eccola.
Era solo vagamente consapevole dell’impiegato che la seguiva mentre attraversava di corsa il parcheggio. Dall’interno della stanza, il bagliore del televisore guizzava dietro la tenda chiusa. Tracy premette l’orecchio contro la porta e sentì la musica, inserì piano la chiave, girò la maniglia e fece pressione. La porta non si aprì. Doveva aver messo la sicura all’interno. Tracy estrasse la Glock e indietreggiò. Prese la mira, fece fuoco e aprì la porta con un calcio.
Lui era seduto con la schiena contro la parete e un coltello seghettato di quindici centimetri premuto alla gola della ragazza. Lei era incaprettata, sul punto di strangolarsi.
Tracy prese la mira. «Lascia cadere il coltello, Nabil.»
Il responsabile del Pink Palace sorrise. «Se io lascio cadere il coltello, tu mi spari.»
Tracy spostò gli occhi verso l’impiegato, fuori dalla porta, e il tizio si mise a correre verso l’ufficio.
«Lasciala andare, Nabil.»
«Non posso» rispose lui. «Lo spettacolo non è ancora finito. Bisogna sempre arrivare fino in fondo.»
Tracy lanciò un’occhiata al televisore: un cartone di Bugs Bunny. Guardò la ragazza. Il petto si sollevava e si abbassava rapido. Dalla bocca, dietro il bavaglio impregnato di saliva, usciva un sibilo.
«Almeno toglile il bavaglio e lasciala respirare.»
«Come hai fatto a trovarmi, detective? Come facevi a saperlo?»
Non c’era traccia di preoccupazione o panico in Kotar. La voce era piatta, tranquilla. Tirò la corda, allentandola. Il respiro della ragazza rallentò.
«Un agente ti aveva fermato. Gli avevi detto che stavi affiggendo i volantini per un gatto smarrito.»
Kotar sorrise. «Angus il gatto. Aveva detto che aveva una figlia, che le si sarebbe spezzato il cuore se avesse perso il gatto. Si è preso perfino un volantino. Che cosa ha fatto, ha chiamato il numero?»
«È andato all’indirizzo.»
Kotar ridacchiò. «Un buon samaritano. Cavoli. Chi se lo immaginava. Com’è che le storie come questa non finiscono mai sui giornali e in televisione? Sembra che tutti non facciano che criticare il vostro lavoro, non sei stufa?»
«Sì, sono stufa» rispose Tracy, perché sapeva che doveva fare in modo che Kotar continuasse a parlare, e che restasse calmo. Aveva la sensazione che fosse importante fargli credere che quello fosse il suo spettacolo. La Glock ancora fissa sul bersaglio, gli chiese: «Posso sedermi?».
«Non sul letto» rispose lui. «L’ho appena rifatto. Usa la sedia.»
Tracy prese la sedia davanti alla scrivania e la sistemò sulla soglia, in modo che potessero vederla dal parcheggio. Fuori, continuava a piovere.
«È dura, sai» disse Kotar. «Tu reciti la tua parte e i critici vogliono soltanto farti a pezzi. Quella troia bionda di Channel 8 te l’ha giurata, di sicuro.»
«Sembra proprio di sì, vero?»
Tracy contrasse la spalla e fece una smorfia per il dolore.
«Ho letto» disse Kotar. «La spalla?»
«La clavicola.»
«Deve far male.»
«Più di quanto si direbbe, per essere un osso così piccolo.» La ragazza la guardò con occhi supplichevoli. «Perché non la lasci andare, Nabil?»
«Non posso. Non posso fermarmi.»
«Ti sei già fermato, in passato.»
«Come fai a saperlo?»
«Perché hai ucciso Beth Stinson quasi dieci anni fa.»
Kotar sorrise. «Sei brava. Sei proprio brava.»
«Sto pensando di mollare» disse Tracy e si chiese perché accidenti i rinforzi ci mettessero tanto ad arrivare, sempre che quell’uomo avesse chiamato il 911. Cercava un’occasione per fare fuoco.
«Perché vuoi mollare?»
«Sono stufa di tutte quelle stronzate, Nabil. Di tutti i giochi di potere.»
«Lo so come ci si sente. Ho smesso di recitare per lo stesso motivo. Che cosa faresti?»
«L’insegnante.»
«L’avevo letto. Cos’era, biologia?»
La ragazza iniziò a soffocarsi ed emise suoni strozzati. Kotar sembrò scocciato per l’interruzione e tirò di nuovo la corda, allentandola. La donna riprese fiato.
«Chimica.»
«Non dovresti mollare. Altrimenti vincono gli stronzi.»
«Forse» disse lei. «E tu? Che cosa faresti, se non fossi il responsabile di un club?»
«Facile. Sarei un attore.»
«Davvero? Cinema?»
«Come ultima scelta. Reciterei di nuovo in teatro. È la mia passione.»
«Eri bravo?»
«Sì. Entravo proprio nel personaggio, sai? I registi dicevano che ero perfettamente credibile.»
«Qual era il tuo ruolo preferito?»
«Facile anche questo. McMurphy. Qualcuno volò sul nido del cuculo.»
«Una bella parte.»
«Già, credevo che sarebbe stata quella che avrebbe lanciato la mia carriera.»
«E che cosa è successo?» La ragazza sembrava più calma.
«Mi hanno fregato. Succede. Los Angeles è un cesso. È tutto un imbroglio. Non fai i soldi finché non sfondi. E adesso di sera lavoro. Bisogna pagare le bollette, giusto?»
«Giusto.» Tracy guardò fuori dalla porta, ma ancora non vide i rinforzi. Si ricordò che Amanda Santos le aveva detto che alcuni assassini recitavano una scena nella loro testa e si chiese se quella, per Kotar, era la sua scena madre. «Adesso devi prendere un’altra decisione, Nabil.»
«Ah sì? Quale?»
«Come vuoi essere ricordato?»
«Stai cercando di tenermi buono, detective, o stai stuzzicando il mio enorme ego? È quello che dicono nei libri sui serial killer. Li hai letti? Abbiamo un ego enorme.»
«Non so niente di quella roba, Nabil. Non ho molto tempo per leggere. Io la vedo da un punto di vista più pratico. Vuoi uscire di qui con la possibilità di raccontare la tua storia, e magari diventare famoso, come Bundy?»
Kotar sorrise e guardò la televisione. «Che ne dici se ti rispondo quando finisce? Non manca molto ormai.»