CAPITOLO 47

Tracy uscì dall’ascensore e attraversò il garage custodito diretta al furgone, per lasciarvi lo scatolone con le sue cose. Aveva intenzione di andare nella Stanza del Cowboy per parlare con chiunque si trovasse lì. Doveva loro una spiegazione. Quel bunker di cemento all’inizio aveva loro messo i brividi, ma come aveva detto Faz, alla fine era diventato un po’ casa loro. Se non altro, era un segno che lei e Kins avevano scelto bene la squadra, uomini e donne disposti a impegnarsi e a fare i sacrifici necessari per catturare un assassino. Avrebbe sentito la loro mancanza. Le dispiaceva non lavorare più con loro. E le sarebbe mancata terribilmente la frenesia della caccia.

Il frastuono delle auto sulla superstrada I-5, che passava accanto al garage, copriva quasi il tubare dei piccioni nelle nicchie di cemento sopra di lei, e ogni cosa aveva una sfumatura arancione, sotto le luci fioche. Mentre si avvicinava al furgone, Tracy si accorse di non essere sola. Il solletichio gelido con cui il suo istinto di conservazione le aveva fatto fremere i peli sulla nuca scese lungo la spina dorsale, mentre lei apriva la portiera e sistemava lo scatolone sul sedile anteriore.

Passi alle sue spalle.

Tirò fuori la Glock e si voltò di scatto, la pistola puntata, centrata sul bersaglio.

Nolasco sgranò gli occhi e barcollò all’indietro, perse l’equilibrio e andò a finire contro un’auto posteggiata. «Che cazzo ti prende?» Sembrava che non riuscisse a respirare. Quando Tracy non rispose, aggiunse: «Tiri sempre fuori la pistola prima di aver valutato la situazione?».

«Avevo valutato la situazione» rispose Tracy senza abbassare l’arma. «Altrimenti lei sarebbe disteso a terra con un foro di proiettile nella fronte e due nel petto.»

Nolasco alzò una mano. «Ti spiace abbassare la pistola?»

Tracy la tenne sollevata ancora per un istante, poi la abbassò, ma non la rimise nella fondina. Nolasco aveva lo sguardo vitreo e solo in quel momento Tracy notò l’odore di alcol, mascherato a stento da un profumo di menta. Se Nolasco stava masticando una gomma, doveva averla deglutita. «Che cosa vuole?» chiese.

«Volevo solo sapere perché l’hai fatto.»

«Ho già spiegato il perché.»

«Sappiamo tutti e due che il motivo non era quello» disse Nolasco. «Pensavi che ti avrei permesso di mettermi in imbarazzo?»

«Il suo ego è così fragile che cerca ancora di riprendersi da quello che è successo vent’anni fa?» disse Tracy. «Lo trovo molto triste.»

«E che cosa pensavi di fare, tirando fuori il fascicolo di un mio caso risolto?»

«Cercavo di catturare un assassino.»

Nolasco sogghignò. «Stronzate. Cercavi di mettermi in imbarazzo. Ora sai come è andata a finire.» Si voltò e si diresse verso la sua auto.

«Chi le ha detto di Gerhardt?» chiese Tracy.

«Non ha importanza.»

Tracy alzò la voce. «Non la preoccupa il fatto che un uomo innocente possa essere in prigione e che l’assassino delle ballerine sia ancora là fuori?»

Nolasco raggiunse la Corvette e si voltò verso di lei. «Pura fantasia. Gerhardt era il nostro uomo. L’abbiamo capito subito.»

«Per questo avete convinto JoAnne Anderson di averlo visto?»

«Lo aveva visto eccome.»

«Allora perché ha mentito là dentro? Perché ha detto di aver parlato con i testimoni, quando non l’ha fatto?»

«Domani ho una giornata importante» disse Nolasco con un sorriso. «Devo spiegare ai giornali le ragioni per cui sei stata sollevata dal tuo incarico nella task force. Anche tu farai meglio a farti una bella notte di sonno. Immagino che avranno parecchie domande da porti, loro e quelli della disciplinare.»

 

La Tahoe di Dan era parcheggiata nel punto dove nelle quattro notti precedenti si era trovata l’auto di pattuglia. Un’altra mossa di Nolasco, probabilmente. Tracy non faceva più parte della task force, quindi non le serviva più la scorta. Posteggiò il furgone in garage, scese e prese la scatola con i suoi oggetti personali.

Dan le tenne la porta aperta e l’espressione di Tracy dovette essere eloquente. «Cosa è successo?» le chiese. «Che c’è che non va?»

Tracy lo oltrepassò e posò lo scatolone sul ripiano della cucina. Roger balzò su per salutarla e lei gli accarezzò la schiena e lo sentì fare le fusa.

«Tracy, che succede? Cosa c’è nella scatola?»

«Non hai visto il notiziario?»

«Sono stato rinchiuso in un magazzino per due ore.»

Tracy aprì il frigo e tirò fuori una scatoletta aperta di cibo per gatti. «Nolasco ha scoperto di Gerhardt e ha passato l’informazione a Vanpelt.»

Dan sbiancò. Tracy gli passò davanti e prese un piatto dal mobiletto.

«È andata tanto male?»

«Sono reduce da una riunione con i pezzi grossi. Sono fuori dalla task force. Mi hanno assegnata al lavoro d’ufficio finché la disciplinare non avrà condotto un’inchiesta.»

«E questo cosa significa?»

Tracy versò una cucchiaiata di cibo nel piatto e tenne a bada Roger finché non ebbe svuotato la scatoletta. «Significa che molto probabilmente mi licenzieranno.»

Lasciò cadere il cucchiaio nel lavandino e la scatoletta nella spazzatura e raggiunse le porte a vetri scorrevoli, ma non uscì in terrazza quando si accorse che aveva cominciato a piovere. Dan le arrivò alle spalle e la circondò con le braccia.

«Stai bene?»

Tracy guardò il panorama. Era bellissimo, senza dubbio, ma aveva trascorso così tante sere a guardarlo da sola. «Una volta mi hai chiesto se potrei essere di nuovo felice a Cedar Grove.» Dan non rispose e lei proseguì. «Era la vita che desideravo un tempo. Credo che potrei desiderarla di nuovo.»

«Tracy, non c’è niente che mi renderebbe più felice di sapere che pensi davvero quello che stai dicendo…»

«Lo penso davvero.» Si voltò verso di lui.

Dan sorrise, ma era un sorriso triste. «Questa è la tua vita, adesso. È questo che ti rende felice. E sei brava nel tuo lavoro. Lo ami.»

«Ero anche una brava insegnante di chimica e facevo qualcosa di utile.»

«Perché non ti prendi qualche giorno…?»

«Mi sono presa vent’anni, Dan. Non bastano?»

«Dici davvero?» Dan sembrava cauto.

Tracy gli passò le braccia intorno alla vita e lo baciò con trasporto. «Sì, dico davvero.»

Roger balzò sul tavolo della sala da pranzo e miagolò rivolto verso di loro.

«Ne hai parlato con lui?» chiese Dan. «Perché non credo che farà i salti di gioia.»

«Si abituerà» rispose Tracy. «Quanto ti ci è voluto quando sei tornato a vivere lì?»

Dan ci rifletté per un istante e le fece scorrere le mani lungo la schiena. «Meno di quanto pensassi. Ero via da un sacco di tempo, come te, ma in realtà non mi sembrava tanto diverso. Secondo me ci portiamo sempre dentro la nostra città natale. Cedar Grove fa parte del nostro DNA

«Vorrei solo che Sarah fosse ancora lì» disse Tracy. «Mi manca ancora, Dan. Continuo a pensare a lei ogni giorno. E non credo che smetterò mai di farlo.»

 

Tracy regolò la temperatura dell’acqua a un calore quasi insopportabile e si infilò sotto la doccia, lasciando che il getto le pungesse la pelle. I muscoli iniziarono a poco a poco a rilassarsi e lei sentì sciogliersi la tensione nel collo e nelle spalle. Si sentiva indebolita, forse perfino stravolta, così posò la testa contro le piastrelle e lasciò che l’acqua la calmasse.

Dopo venti minuti, chiuse l’acqua, si avvolse in un asciugamano giallo banana e avanzò sul marmo della stanza da letto. Roger era spaparanzato sul piumino e Tracy si prese qualche istante per coccolarlo un po’, grattargli il collo, la testa e le orecchie. Il gatto si girò sulla schiena, le zampe sollevate in segno di sottomissione, mentre faceva piano le fusa e si lasciava accarezzare la pancia.

«Per fortuna sei indipendente» disse lei. «Hai una padrona terribile.»

Le luci nel cortile sul retro si accesero.

Scocciata, Tracy si strinse addosso l’asciugamano e si avvicinò alla porta a vetri. Si era sollevato il vento e la pioggia cadeva di traverso, fra le due lame di luce. Il prato era deserto.

Dan attraversò la stanza e la raggiunse. «Le luci continuano ad accendersi?»

«A quanto pare sì» rispose lei sbirciando il giardino deserto.

«Ho regolato i sensori al minimo.»

«Quando?»

«L’altro giorno, prima di uscire.»

Questo spiegava come avesse fatto Roger a restare chiuso al piano di sotto.

«Forse dovrei spegnerle e basta. Vivi in una fortezza.»

«No» disse Tracy. «Non mi danno fastidio.» In realtà, le piacevano le luci. Era come avere un cane che abbaiava, un sistema d’allarme preventivo.

Dan la abbracciò. «Ti senti meglio?»

«Molto.»

«Bene. Hai fame?»

«Direi proprio di sì» rispose lei, stupita.

Dan sorrise. «Allora meglio che me ne vada, perché vederti in quell’asciugamano è molto più invitante delle fettuccine Alfredo al pollo.» Ripresero a baciarsi. Lui si tirò indietro. «Non riesco a credere a quello che sto per dire, ma esco subito.»

Non appena Dan se fu andato, Tracy prese una maglietta dalla cassettiera e stava per infilarla quando le venne un’idea. Ancora avvolta nell’asciugamano, andò sulla porta della stanza. «Come procede la cena?»

«Ci siamo quasi.» Dan era davanti all’isola e faceva scivolare le fettuccine in una pentola d’acqua bollente, sotto una nube di vapore.

«Speravo di poter avere quel bicchiere di vino rosso che mi avevi promesso.»

Dan prese la bottiglia, versò un bicchiere e la guardò attraverso le lenti appannate. Tracy era appoggiata contro lo stipite della porta, la gamba piegata a scoprire la coscia. Lui si tolse gli occhiali. «Non è giusto» le disse. «Ho appena buttato le fettuccine.»

«Significa che abbiamo dodici minuti, giusto?»

Dan prese la confezione della pasta e la voltò per leggere le istruzioni sul retro. «Nove, mi sa.»

Tracy abbassò la gamba e si raddrizzò. «Davvero?»

Dan rise, si buttò alle spalle la confezione vuota e si sfilò la maglietta mentre attraversava rapido la sala da pranzo e la abbracciava.

«Fa’ l’amore con me, Dan.»

Lui la baciò con foga sulla bocca, poi dolcemente sul collo e sulle spalle, le mani che cercavano l’asciugamano per farlo cadere lentamente a terra. Tracy si lasciò trascinare dalle sue carezze, che la calmavano come l’acqua calda della doccia. Aveva le braccia e le gambe deboli e le girava la testa. Riuscì ad aiutarlo a togliersi i pantaloni, ma non arrivarono al letto. Dan la sollevò contro la parete e Tracy gli strinse le gambe intorno alla vita.

 

Avevano ancora il respiro affannato quando Dan voltò la testa per controllare l’orologio sul comodino. «Non avrei mai pensato che un giorno sarei stato orgoglioso di affermare di aver fatto l’amore nel tempo necessario a cuocere le fettuccine.»

«E con tre minuti di anticipo» disse lei.

Scoppiarono a ridere. «Meglio che mi dia da fare, se non vuoi mangiare la pasta scotta» disse Dan. Raccolse i vestiti, si infilò i boxer e la maglietta, le diede un altro bacio e uscì dalla stanza.

Dopo una seconda rapida doccia, Tracy infilò un paio di pantaloni della tuta e si spazzolò i capelli. Vi fu uno scroscio di pioggia, così forte che sembrava di sentire il rombo delle auto sulla superstrada. Le luci in cortile si accesero.

Si avvicinò alla portafinestra. Questa volta il giardino non era deserto. Sotto il riflettore c’era una sagoma a capo coperto, ma la pioggia che le scendeva intorno a cascata e un’ombra le impedivano di scorgerne il viso. Poi le luci si spensero.

Le pulsazioni accelerate, Tracy attraversò rapida la stanza, afferrò la Glock e corse verso le scale del soggiorno.

Dan alzò gli occhi mentre lei usciva dalla stanza. «Vuoi quel bicchiere…?»

Tracy sfrecciò giù per le scale.

«Tracy?»

Lei aprì la serratura di sicurezza e spalancò la porta.

«Che succede?» gridò Dan.

Tracy attraversò di corsa il piano inferiore, al buio, fino alla porta che dava sul giardino, fece scattare anche quella serratura e si fiondò fuori sotto la pioggia battente, la Glock tesa, la testa che schizzava a destra e a sinistra, gli occhi che scrutavano nel buio. I riflettori si accesero di scatto, a illuminare il giardino deserto. Tracy mosse la pistola da sinistra a destra e seguì il perimetro di luce mentre si spostava verso il folto degli arbusti. I piedi scalzi affondavano nel prato zuppo. La pioggia le impediva di mettere a fuoco. Scosse la testa per scacciarla.

«Dove sei?» chiese. «Dove cazzo sei?»

«Tracy?» gridò Dan dalla porta aperta. «Tracy?»

Al margine degli arbusti, lei cercò qualche ramo spezzato, un punto che rivelasse il passaggio di qualcuno, impronte nel terreno fradicio.

Dan all’improvviso le fu accanto e la parlò sopra il frastuono della pioggia. «Che cosa fai?»

«Era qui.»

«Che cosa? Chi?»

Lei continuò a cercare, girando in senso orario intorno al bordo del prato, la pistola puntata contro gli arbusti. «C’era qualcuno in giardino. Ha fatto scattare le luci.»

«Ne sei sicura?»

«Sì, ne sono sicura. L’ho visto proprio lì, in piedi, che mi fissava.»

«Andiamo dentro. Possiamo chiamare…»

Lei si voltò di scatto. «Chi, Dan? Chi dovrei chiamare? Sono io la polizia, d’accordo? Sono io la polizia, cazzo, e quel bastardo era nel bel mezzo del mio giardino! Del mio giardino!»

Si voltò di nuovo verso i cespugli e notò qualcosa. Si avvicinò, i rami le pungevano la pelle attraverso la tuta e le graffiavano le braccia nude. Raccolse un pezzo di carta fradicio e ne notò molti altri, sparsi per terra e impigliati fra i rami.

«Che cos’è?» chiese Dan.

«Non lo so.»

Tracy avanzò ancora, attenta a non calpestare un’impronta o a non rovinare qualche altra possibile prova, quindi raccolse i pezzi di carta. Mentre li metteva insieme, iniziò a farsi un’idea di quello che erano.

Una fotografia.

 

Tracy sistemò i frammenti di carta sul tavolo della sala da pranzo, spostandoli in continuazione come se cercasse di comporre un puzzle. Aveva i pantaloni e la maglietta zuppi, che gocciolavano sul tappeto, e i capelli arruffati. Dan entrò nella stanza e le passò un asciugamano. Lei si asciugò il viso, muovendo freneticamente i pezzetti di carta. A poco a poco l’immagine prese forma.

Provò una fitta allo stomaco e si scostò dal tavolo.

«Sei tu» disse Dan.

Era un suo primo piano scattato con il teleobiettivo. Il volto di Tracy era incorniciato dal cappuccio del giaccone, che la riparava dalla nevicata.

«Dove è stata scattata?» chiese Dan.

Tracy ricordava quel momento. Si trovava sul portico della clinica veterinaria di Pine Flat, mentre Dan assisteva Rex. Stava parlando al cellulare e guardava un’auto parcheggiata oltre un campo coperto dalla neve. Più tardi aveva notato un’auto anche all’hotel. Continuava a nevicare fitto, ma questa volta il parabrezza era stato ripulito da poco.

«Pine Flat» disse. «La clinica veterinaria.»

«Che cosa?»

Tracy si voltò verso l’ingresso, dove aveva lasciato la borsa, e prese il cellulare.

Dan la seguì. «Pine Flat? Era più di un mese fa. Sei settimane.»

«Potrebbe aver lasciato un’impronta nel fango. Un brandello di vestiti o i capelli potrebbero essersi impigliati fra i cespugli. Qualunque cosa.» Chiamò la centrale operativa, fornì il proprio nome e numero di distintivo e chiese che le passassero la scientifica.

«Intendi il giorno in cui avevano sparato a Rex?» chiese Dan, come se facesse ancora fatica a mettere insieme i pezzi. Rex era stato colpito a un fianco da un fucile a pallettoni e avevano dovuto portarlo di corsa alla clinica veterinaria.

«Avevo visto un’auto» rispose Tracy. «Credevo fosse stata abbandonata nella tormenta di neve, fino a quando non mi sono accorta che il parabrezza era pulito. La vidi di nuovo più tardi, la sera, parcheggiata fuori dal motel.»

«Perché non me l’hai detto?»

«Non ero sicura che fosse importante. Credevo fosse un giornalista.»

Tracy alzò una mano, ma Dan parlò lo stesso. «Quindi è lui. È lo stesso tizio. Quello che ha lasciato il cappio. Ti segue da settimane?» Andò alla porta a vetri e guardò giù verso il giardino.

Dopo aver riattaccato con la scientifica, Tracy lo raggiunse. «Indossava una mimetica, credo. Non ne sono sicura, ma penso che avesse uno di quei cappelli a tesa larga. Pioveva troppo forte e l’ombra gli nascondeva il viso. Poi le luci si sono spente.»

Si allontanò dalla finestra e si lasciò cadere su una delle sedie della sala da pranzo. All’improvviso fu percorsa da un brivido. Iniziò a tremare.

Dan le prese l’asciugamano e glielo avvolse intorno alle spalle. Si diresse verso la stanza da letto. «Devi toglierti quei vestiti bagnati» disse, ma Tracy non era sicura che fossero i vestiti bagnati il motivo per cui tremava.