CAPITOLO 49

Il mattino dopo, esausta e mentalmente stremata, Tracy andò al Centro di Giustizia con la stessa ansia che aveva provato il giorno in cui aveva fatto rapporto alla sezione Crimini violenti come uno dei primi detective donna della Omicidi di Seattle. A differenza di quel mattino, però, quando il personale e gran parte degli altri detective si erano preoccupati di darle il benvenuto, questa volta solo la segretaria di Nolasco le andò incontro fuori dall’ascensore. Le disse che era stata assegnata al ruolo di quinta ruota del D Team e che le avevano dato una scrivania in fondo al settimo piano, insieme al resto del personale amministrativo. Se Nolasco voleva averla fuori dai piedi, ci era riuscito. La sua nuova scrivania era in un angolo ed era letteralmente circondata da pile di scatoloni.

Tracy evitò il notiziario del mattino e si trattenne dal leggere il Seattle Times. Nel pomeriggio aveva una riunione con la disciplinare, per discutere dell’aggressione a Bradley Taggart, che all’improvviso era tornata a essere un problema, e della scorrettezza che aveva commesso condividendo un fascicolo della polizia con un avvocato civile. Tracy aveva chiamato il sindacato e aveva chiesto di essere rappresentata da un legale. L’avvocato avrebbe dovuto mettersi in contatto con lei per sapere se la riunione ci sarebbe stata o se era stata rinviata.

Tracy trascorse la mattinata a passare al setaccio internet e a leggere articoli sugli omicidi del Cowboy. Poi cercò in Google i nomi di Wayne Gerhardt e Beth Stinson e si stupì di trovare diverse pagine di risultati. Controllò con metodo ogni pagina. Solo quando sentì brontolare lo stomaco guardò l’orologio sul computer. Era quasi mezzogiorno. Chiamò Kins sul cellulare. «Volevo solo sentire come vanno le cose.»

Il collega abbassò la voce. «Nolasco ci ha riportati tutti al Centro di Giustizia e sta usando la tua scrivania. Ho la sensazione che ci tenga d’occhio. Tira un’aria da funerale. Ha indetto una riunione a mezzogiorno. Che ti hanno detto di fare?»

«Girarmi i pollici» rispose Tracy.

«Notizie da Melton?»

«Ancora niente. Andiamo a prenderci un caffè.»

«Ti chiamo se riesco a svignarmela.»

Tracy chiuse la comunicazione, alzò gli occhi e vide Preston Polanco, uno dei membri del D Team, che girava intorno a una pila di scatoloni con in mano un fascio di documenti. Li lasciò cadere sulla sua scrivania.

«Nolasco ha detto di trovarti qualcosa per tenerti occupata» disse con un sorriso. «Ho bisogno che qualcuno controlli queste dichiarazioni dei testimoni e prepari una cronologia. Non è interessante come il tuo Cowboy, solo un paio di membri di una gang che si sono sparati a vicenda, ma tutti prima o poi dobbiamo abbassarci a qualche lavoretto umile, giusto?»

 

Dan risalì di corsa la collina verso lo scivolo per le barche di Don Armeni. Negli stinchi e alle ginocchia sentiva l’impatto del cemento e aveva il sospetto che quei colpi non fossero l’ideale per le articolazioni di un quarantaduenne. La temperatura era ancora fresca, intorno ai dieci gradi, ma era uscito il sole e il calore sul viso era piacevole. Quando raggiunse Harbor Way e i polmoni si furono scaldati, Dan continuò a passo deciso: meta, il faro di Alki Point.

Correre aveva sempre avuto un effetto terapeutico su di lui, era un momento per riflettere o semplicemente per svuotarsi la testa. Tracy gli aveva riversato addosso un sacco di cose a cui pensare, a cominciare dalla possibilità che lei tornasse a Cedar Grove e che loro due iniziassero una nuova vita insieme. Sapeva che in parte quella decisione era dovuta all’amarezza di essere stata buttata fuori dalla task force, per questo all’inizio le aveva chiesto di prendere tempo, ma dopo quello che era successo, con l’assassino che si era presentato nel suo giardino, Dan avrebbe voluto che tornasse subito a Cedar Grove, dove avrebbe potuto proteggerla e tenerla al sicuro.

Era preoccupato per lei. L’aveva sempre tormentato il fatto che non avesse mai superato davvero la morte di Sarah. Non aveva ancora avuto il tempo per farlo. Gli eventi di Cedar Grove si erano svolti in modo affrettato, precipitoso. Poi, quando Tracy era tornata a Seattle, con la morte delle ballerine era stata gettata subito in un’altra follia. Dan sospettava che lei considerasse quelle vittime una sua responsabilità, come con la sorella, e lo preoccupava lo stress che avrebbe generato il senso di colpa.

Dopo aver corso per quarantaquattro minuti, si ritrovò di nuovo ai piedi della collina che portava verso casa di Tracy. Il percorso in totale era di dieci chilometri, ma sembravano sedici con quella salita. Sherlock e Rex avrebbero adorato la corsa lungo la riva, ma una volta arrivati in fondo alla collina avrebbero piazzato i grossi sederi sul marciapiede e messo bene in chiaro che l’unico modo in cui avrebbero risalito quel pendio sarebbe stato sul retro della Tahoe. Quella mattina, con l’adrenalina in circolo, Dan non esitò. Si lanciò su per la collina. Quando arrivò in cima, aveva il respiro affannato e sudava copiosamente. Intrecciò le dita dietro la testa mentre camminava lungo l’isolato verso casa di Tracy e si fermò davanti al cancello per prendere qualche respiro profondo. Quando riuscì a respirare normalmente, digitò il nuovo codice sul tastierino numerico, spinse il cancello ed entrò in giardino.

 

Tracy dedicò un’ora a leggere i documenti che Polanco le aveva mollato, sottolineando le date e gli orari e iniziando a mettere insieme una cronologia. Era annoiata a morte, ma era felice di avere qualcosa con cui passare il tempo. Fu comunque un sollievo quando il telefono sulla scrivania squillò e lei pensò che si trattasse di Kins.

«Detective Crosswhite, sono il detective sergente Rawley, della disciplinare. Avevamo una riunione all’una e mezzo.»

Tracy guardò l’orologio sul computer e si stupì di scoprire che era l’una e quaranta. «Mi avevano detto di aspettare la telefonata del mio avvocato.»

«Il suo avvocato è qui.»

«Non ne avevo idea. Arrivo.»

Riagganciò, prese il giubbotto e la borsa e fece per allontanarsi dalla scrivania, quando il cellulare suonò. Lo prese dalla borsa e vide il numero del laboratorio della scientifica. «Mike?» disse e si guardò intorno mentre si dirigeva rapida verso gli ascensori.

«C’è un posto chiamato Hooverville a First Avenue, bello a sud e malfamato quanto basta, ci va solo la gente giusta. Offrimi una birra e ti racconto tutto.»

Tracy guardò l’orologio. «Sono lì fra dieci minuti.»

Il detective sergente Rawley non ne sarebbe stato felice.

 

Posteggiò il furgone lungo il marciapiede e guardò nello specchietto laterale. Riflessa, riusciva a vedere la recinzione appuntita che circondava il giardino della casa di Tracy Crosswhite. Non male come misura di sicurezza, come i riflettori che si attivavano con il movimento. Significava solo che sarebbe stato più ingegnoso.

Sapeva che l’avvocato era andato a correre, perché l’aveva visto lungo la riva. Se avesse continuato sullo stesso percorso, sarebbe stato di ritorno in meno di un’ora. Aveva tutto il tempo per sistemare le cose.

Uscì dal furgone, indossò un gilet arancione catarifrangente e un elmetto giallo, prese un rilevatore di traffico e lo sistemò su un tripode, in modo che la lente fosse rivolta verso la casa a un angolo di quarantacinque gradi. L’avvocato non era mancino.

Tornò al furgone e prese una confezione di vernice spray arancione fosforescente, quindi spruzzò alcune linee e dei numeri a caso sul marciapiede. Poi rimase in attesa.

L’avvocato percorse l’isolato qualche minuto prima del previsto, ma con le mani giunte dietro la testa, sforzandosi di riprendere fiato. Forse non era poi in forma così smagliante, dopo tutto, anche se non c’erano dubbi sul fatto che a Tracy andasse bene così. Non poteva negarlo. L’aveva visto con i suoi occhi. Si sentiva un tale idiota. Lei lo aveva fatto sentire un tale idiota. Aveva sempre avuto un fidanzato, per tutto quel tempo.

Posò l’occhio contro la lente e regolò la messa a fuoco, scarabocchiò alcuni numeri a caso su un piccolo taccuino, per fare scena, e finse di regolare l’apparecchio. L’avvocato svoltò e lo guardò, mentre si avvicinava al cancello, ma fu solo un’occhiata di sfuggita.

Puntò la lente sul tastierino numerico della serratura. L’avvocato non fece alcun tentativo di nascondersi. Premette quattro numeri, 5-8-2-9, poi il tasto invio. Tracy aveva cambiato la combinazione, come aveva immaginato. Era una detective sveglia e ben addestrata, non a caso. L’avvocato spinse il cancello, se lo richiuse alle spalle e attraversò il giardino.

Lui spostò l’apparecchio e sistemò rapidamente la messa a fuoco per distinguere il tastierino della porta di ingresso. L’avvocato digitò le stesse quattro cifre, si pulì i piedi ed entrò.

Tracy era sveglia. Lui lo era di più.

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Melton non aveva esagerato riguardo al bar. L’Hooverville non era granché visto dall’esterno, discreto, con un’insegna bianca e verde sulla porta che recitava semplicemente BAR. Le due vetrine che davano sulla strada erano coperte da una grata. Una volta dentro, gli stivali di Tracy fecero scrocchiare i gusci delle arachidi sparsi per il pavimento. Su alcuni tavolini retrò pendevano lampadari d’epoca. Melton era in piedi vicino a un flipper in un angolo, a premere pulsanti e agitare la macchina, le luci che lampeggiavano e i campanelli che tintinnavano. Tracy aspettò che calcolasse male i tempi e la pallina d’argento rotolasse nello scivolo.

«Odio questo gioco» disse lui. «Andiamo a sederci.»

Melton portò un boccale di birra a un divanetto dal cuoio strappato e si sedette a sgusciare arachidi e buttare via i gusci. Una cameriera con una maglietta bianca e un discreto numero di tatuaggi si avvicinò.

«Un tè freddo» disse Tracy.

Melton picchiò il dito sul boccale di birra. «Portale uno di questi, Kay.»

La cameriera si allontanò e un’altra donna portò un vassoio con quelli che le sembrarono condimenti per tacos. Lo posò su un tavolino contro il muro e se ne andò senza dire una parola a nessuno.

«Il pranzo» disse Melton, già pronto ad alzarsi. «Forza, lo fanno una volta ogni tanto, per i clienti abituali. Prendine uno. Non dureranno molto.»

Tracy seguì il suo consiglio e tornò al tavolo con un taco strapieno di carne macinata, formaggio e pomodori. Era quel che ci voleva. Non aveva mangiato in tutto il giorno. Affondò i denti e si chinò sul piatto, mentre il ripieno sgusciava fuori dai lati.

Melton si pulì la barba con un tovagliolo di carta. «Ho sentito che ti sei presa un bello spavento ieri sera.»

Tracy terminò di deglutire, posò il taco e si pulì le dita. «È stato a casa mia, Mike.»

«Peccato che tu non gli abbia svuotato il caricatore nel culo» disse Melton.

«Puoi darmi una mano?»

Melton frugò nella tasca del cappotto e fece scivolare sul tavolo un foglio piegato. «Il DNA del caso Stinson.»

Tracy lo prese e lo lesse.

«Non corrisponde a quello di Wayne Gerhardt» disse Melton.

Tracy lo sapeva già. «E?»

«Mi spiace. Non corrisponde a nessuno di quelli nel sistema.»

Lei si appoggiò allo schienale mentre valutava l’informazione. Aveva sperato che Melton potesse fornirle un nome e di poter andare dritta alla stazione di polizia e dire a Johnny Nolasco di prendere l’incarico e ficcarselo nel culo. «Mi avrebbe facilitato il lavoro, ma come dice Faz, è una quisquilia.»

«Ho sentito che non è più il tuo lavoro» rispose Melton. «Nolasco ha chiamato. Mi ha detto di non fare le analisi, di non sprecare i soldi.»

«Ma tu le avevi già fatte.»

«Non ancora» disse lui, mentre si puliva di nuovo la barba. «Avevo solo bisogno di un buon motivo.»