CAPITOLO 41

Tracy alzò gli occhi dall’iPad quando Kins uscì rapido dal portone, lo spolverino di pelle in mano. Il partner aprì la portiera del passeggero e si infilò nel furgone. «Hai fatto controllare la targa?»

Lei gli passò l’iPad e iniziò a guidare per le strette strade. Aveva aperto il sito web dello studio legale. «Che tu ci creda o no, sembra che l’Avvocato sia davvero un avvocato.»

«C’era da immaginarselo» disse Kins mentre faceva scorrere la pagina. «Solo un avvocato poteva avere il coraggio di farsi una targa simile.»

«Secondo il suo curriculum era un difensore d’ufficio prima di aprire uno studio tutto suo. Non ne ho mai sentito parlare, tu sì?»

«Non mi dice niente.» Kins posò l’iPad. «Dove vive?»

«A Washington Park.»

Kins fischiò. «Dev’essergli andata bene con lo studio.»

Tracy attraversò Arboretum e Madison. Dopo l’esclusiva Bush School, la strada curvava e svoltarono a sinistra avvicinandosi al lago. Le vecchie querce e gli aceri allungavano i rami sopra vaste proprietà circondate da prati verdeggianti e giardini ben tenuti. Senza i lampioni e con le siepi alte che costeggiavano alcune delle case, non era facile individuare l’indirizzo.

«Rallenta» disse Kins mentre guardava fuori dal finestrino. «Spero che a nessuno venga mai un infarto da queste parti. Farebbe in tempo a schiattare prima che qualcuno trovi la casa.» Quando il GPS annunciò che erano arrivati all’indirizzo collegato alla targa, Kins guardò lungo un vialetto fra due pilastri di pietra. «Non so. Non vedo il numero civico, ma secondo il GPS è questo.»

Tracy svoltò fra i pilastri e avanzò, oltrepassando un prato ben curato con la sua bella quercia. Si fermò davanti a un garage con tre serrande scure illuminate dai lampioni. Un passaggio coperto collegava il garage a una casa in stile Tudor, con la facciata in pietra, un tetto spiovente con il timpano sui tre lati e finestre strette dai vetri piombati che proiettavano una luce spezzata. A Tracy ricordò la casa in cui era cresciuta, a Cedar Grove.

Scesero dal furgone e camminarono lungo il vialetto fino a una porta ad arco. «Con una casa così costosa potrebbero anche permettersi di scrivere il numero da qualche parte, no?» continuò a lamentarsi Kins.

«Sei come un cane con l’osso, eh?» lo prese in giro Tracy.

«È il mio disturbo ossessivo-compulsivo.»

La luce nel portico sopra le loro teste si accese prima che Tracy avesse il tempo di bussare. La porta si aprì. «Posso esservi utile?»

L’uomo corrispondeva alla descrizione di Shereece: alto, con i lineamenti marcati su un viso largo e labbra alla Mick Jagger.

Tracy e Kins mostrarono i distintivi.

«È lei James Tomey?» chiese Tracy.

«Di che si tratta?»

«Vorremmo rivolgerle qualche domanda.»

Tomey indossava un paio di pantaloni color cachi, le pantofole e un cardigan nero, ma non sembrava a suo agio. Aveva l’aria nervosa. «È un po’ tardi per le visite, detective. Di che domande si tratta? Riguardano uno dei miei clienti? Perché in questo caso devo invocare il segreto professionale.»

A Tracy non piaceva quell’atteggiamento condiscendente. E notò anche una tracotanza fasulla. «Sappiamo che ora è, signor Tomey, e preferiremmo di gran lunga essere a casa nostra. Allora, preferisce che parliamo qui sul portico o possiamo farlo in privato? Altrimenti, troverò io un posto dove andare.»

Tomey la scrutò dietro gli occhiali rotondi con la montatura di tartaruga. Dopo un attimo, sospirò rassegnato e fece un passo indietro. Entrarono in un’anticamera rivestita di pannelli di legno, dove una donna era appoggiata contro uno stipite.

«Sono detective della polizia di Seattle» le spiegò Tomey. «Vogliono farmi qualche domanda su uno dei miei clienti. Vado nello studio.»

«È tardissimo» disse la donna.

«Non ci metteremo molto» rispose Tomey.

L’avvocato li accompagnò attraverso un salotto arredato in modo costoso fino a uno studio altrettanto impressionante, con una scrivania riccamente ornata e librerie che arrivavano fino al soffitto, i volumi ben allineati ai bordi degli scaffali. Tomey chiuse la porta e li invitò a sedersi. I mobili avevano un carattere maschile, di pelle, e la luce soffusa proveniva dalle lampadine incassate nella libreria e dal paralume verde della lampada Tiffany sulla scrivania. Tracy riconobbe nell’aria l’odore di sigari costosi. La poltrona di cuoio dietro la scrivania scricchiolò, quando Tomey vi sedette.

«Allora, di che si tratta?»

«Gabrielle Lizotte» disse Tracy.

«Temo di non avere mai sentito questo nome.» Tomey si scostò una folta ciocca di capelli biondi dalla fronte, continuando a fare di tutto per sembrare rilassato.

«Forse la conosceva come French Fire» continuò Tracy, sempre studiandolo attentamente.

«Temo di no» rispose Tomey.

Tracy non era dell’umore. «Signor Tomey, possiede una BMW blu con targa T-D-1-F-E-N-D-O

«Sì, esatto.»

«E quella BMW era parcheggiata in First Avenue ieri sera verso le undici.»

«È una domanda, detective?»

«No, è un fatto.»

«Ha una domanda da farmi?»

«È andato al Pink Palace con qualcuno o era solo?»

Tomey si prese un attimo per schiarirsi la gola. «Ci sono andato da solo. Non è lontano dal mio ufficio. E non è neanche illegale.»

«Ha chiesto e ottenuto una lap dance da una ballerina con i capelli rossi conosciuta come French Fire?»

Tomey conservò un’espressione impassibile. «Ricordo la lap dance. Non ricordo il nome della ballerina.»

«Capelli rossi. Minuta. Le dice qualcosa?»

«Sì.»

Tracy mise una foto di Gabrielle Lizotte sulla scrivania. «Si è avvicinata al suo tavolo. Lei ha allungato la mano e le ha toccato il polso, le ha sussurrato qualcosa all’orecchio e la ragazza l’ha portata nella stanza sul retro del club.»

«È così che avvengono le negoziazioni, detective. E come ho già detto, non sono illegali.»

«Allora mi parli di questa negoziazione.»

Tomey si schiarì di nuovo la gola. Si sedette parallelo alla scrivania, le gambe incrociate, e guardò Tracy e Kins da sopra la spalla sinistra, come se stesse per raccontare una storiella senza importanza. «Le ho offerto trentacinque dollari. Lei ha accettato.»

«Deve aver trovato i suoi servigi soddisfacenti. Perché le ha dato cinquanta dollari extra. Sarebbe una mancia di quanto… il centocinquanta per cento.»

«Torno a chiederle, è una domanda, detective?»

«Si aspettava qualcosa in cambio di una mancia simile?»

«Non mi piace la sua insinuazione.»

«Legge i giornali, signor Tomey?»

«I miei preferiti son il New York Times e il Washington Post

«Allora lasci che la aggiorni sulle notizie locali. Gabrielle Lizotte è stata trovata assassinata nella stanza di un motel di Aurora, questa mattina presto. C’era scritto sul Times o sul Post

Tomey si voltò verso di loro. Abbassò gli occhi sulla scrivania. La voce si ammorbidì. «Sapevo che un’altra ballerina era stata assassinata. Con il mio lavoro, presto attenzione a queste cose. Non credo che il giornale riportasse il nome della vittima o la sua identità.»

«Quindi è la prima volta che lo sente?» chiese Tracy.

«Il nome della donna? Sì.»

«E Veronica Watson, la conosceva? Il suo nome d’arte era Velvet

«Sì.»

«Era la sua preferita, giusto?»

«La mia preferita?»

«Preferisce le ballerine con il seno grosso, non è così?»

Tomey corrugò la fronte. «Mi sta interrogando come testimone o come sospetto, detective?»

«Lei è un avvocato, signor Tomey. È stato visto in compagnia di due delle vittime, compresa Gabrielle Lizotte ieri sera. Avete avuto una conversazione privata e un appuntamento ancora più privato. E le ha dato una mancia esorbitante. Poco dopo è uscito dal locale.»

«Tutto esatto.»

«Dove è andato quando è uscito?»

«Sono tornato a casa per terminare un documento legale che dovevo presentare oggi.»

«Per quale caso?» Kins alzò gli occhi dal taccuino. A volte aveva un tempismo impeccabile. Non c’era niente che cogliesse più alla sprovvista un testimone bugiardo di una domanda precisa fatta dalla persona con carta e penna.

«Che cosa?»

Kins si sporse in avanti. «Qual è il caso per cui doveva presentare un documento oggi?»

«Non mi ricordo.»

«Non doveva presentarlo oggi?»

«Ho un’agenda piuttosto fitta. Dovrei controllare.»

«Come si chiama il suo cliente?»

Tomey spostò lo sguardo da Kins a Tracy. «Vorrei un avvocato.» Allungò il braccio verso il telefono sulla scrivania.

Tracy si sporse in avanti e mise la mano sul telefono. «Ne ha tutto il diritto. Dal momento che ha chiesto un avvocato, renderemo le cose ufficiali. Si alzi e metta le mani dietro la schiena.»

«Che cosa?»

«Ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale.»

«Mi sta leggendo i miei diritti?»

«La prego di non interrompermi, signor Tomey. Sa quanto sia importante che lei senta e capisca i suoi pieni diritti.»

«Non potete farlo» protestò lui.

Tracy proseguì. «Ha il diritto a essere rappresentato da un avvocato. Se non può permetterselo, la corte gliene assegnerà uno d’ufficio.»

Kins si era alzato e aveva preso le manette. «Per favore, si giri e metta le mani dietro la schiena.»

«È assurdo» protestò Tomey. «Non c’è nessun bisogno delle manette.»

«Ha capito i diritti che le ho appena elencato, signor Tomey?» chiese Tracy.

«Voglio chiamare il mio avvocato.»

«Ha capito i suoi diritti?» ripeté lei.

«Sì. Li ho capiti.»

«Avrà il diritto di fare quella telefonata dopo essere stato registrato» disse Kins.

«Con quali accuse? Non è illegale bere qualcosa in un club per signori.»

«La arrestiamo per incitamento alla prostituzione» rispose Tracy. Era sicura che il signor Joon avrebbe riconosciuto Tomey come l’uomo che aveva visto nel suo motel almeno in due occasioni, in compagnia di Veronica Watson. Tracy sospettava che Tomey avesse appuntamento con Veronica la sera in cui Taggart si era presentato per avere i soldi, e che avesse incontrato Lizotte al motel. Che le avesse uccise oppure no, era un’altra questione.

«Si alzi» disse Kins.

Tomey parlò a bassa voce. «I miei bambini sono di sopra.»

«I miei sono a casa che si preparano ad andare a letto» ribatté Kins. «Si volti.»