CAPITOLO 17

Tracy mangiò un panino in auto insieme a Kins: un pranzo tardivo… o una cena anticipata. Aveva perso il conto delle ore e dei giorni della settimana. Stavano percorrendo il ponte galleggiante della 520 dopo essere stati da Walter Gipson, per sapere se poteva dimostrare dove si trovava la sera prima.

Mentre lasciavano la campata sul lato occidentale del ponte, un’aquila calva andò a posarsi sul braccio di un lampione, la testa inclinata da un lato a guardare la distesa azzurra e grigia del lago Washington, così immobile da sembrare di vetro. Con lo stadio di football dell’Università di Washington alle spalle dell’aquila e lo sfondo delle montagne Olympic innevate in lontananza, era una di quelle immagini emblematiche che vincevano i concorsi delle riviste e il genere di bellezza che Tracy ogni tanto si costringeva a notare.

Le squillò il cellulare. Mise il vivavoce, in modo che Kins potesse sentire.

«Che cosa ha detto Gipson?» chiese Faz.

«Dice che era a casa» rispose Tracy.

«La moglie può confermarlo?»

«La moglie non c’era. Si è trasferita a Tacoma dalla sorella. Gipson dice che è andato a correre tardi, è tornato e ha lavorato nel capanno per preparare le mosche. Ma nessuno dei vicini l’ha visto.»

«Che cos’hai scoperto, Faz?» chiese Kins. «Hai risolto il caso per noi?»

«Magari. Farei felice mia moglie.»

«Benvenuto nel club.»

«Il signor Joon non è stato quel che si dice un pozzo di informazioni» disse Faz, riferendosi al proprietario del motel. «Ma ha detto che Veronica Watson è arrivata al motel con un taxi.»

«Da sola?» chiese Tracy.

«Non lo sa, ma nessun altro è entrato in ufficio con lei, almeno non questa volta. Dice che in passato l’ha vista con un tizio alto e ben vestito, con i capelli castani chiari, folti. Ho pensato che vi interessasse saperlo prima di parlare con le ballerine.» Gipson, che era quasi calvo, non rientrava decisamente nella descrizione, e neanche Darrell Nash, che portava i capelli neri corti e sparati in alto sotto chili di gel. «Ehi, è una quisquilia, giusto?»

Il telefono di Tracy squillò, per segnalare un’altra chiamata in arrivo. «Una quisquilia, Faz. Tu e Del fate un salto alla compagnia dei taxi?»

«Ci stiamo andando» rispose Faz.

Tracy accettò la seconda telefonata.

«Sono Earl Keen.» La voce era profonda come una grancassa. «Ha lasciato un messaggio a proposito di Veronica Watson. Ho sentito che è morta.»

Di colore, con la testa rasata e l’aria incazzosa, Keen era l’ufficiale assegnato a Veronica durante la libertà vigilata. La ragazza aveva alle spalle diversi arresti per adescamento e possesso di sostanze stupefacenti, e un’accusa di furto per cui aveva patteggiato senza però dichiararsi colpevole.

«Ha sentito bene» rispose Tracy. «Sto raccogliendo informazioni su di lei.»

La voce di Keen si riversò nell’auto come uno sciroppo denso. «Niente che lei non abbia già sentito. Se n’è andata di casa a quindici anni, quando il patrigno si è trasferito da loro e ha iniziato a intrufolarsi in camera sua per infilarsi nel suo letto. La madre ha preferito credere al nuovo marito. Veronica si è stufata e se l’è filata. Ha vissuto per strada, poi è andata ad abitare con un pezzo di merda di nome Bradley Taggart. Taggart ha dieci anni più di lei e tutti i requisiti per essere dichiarato la tipica testa di cazzo americana. Gli piaceva alzare le mani. Ogni tanto facevano troppo casino e i vicini chiamavano la polizia, ma Veronica non ha mai sporto denuncia. Quella ragazza è caduta da più scale di un cieco.»

«La obbligava a prostituirsi?»

«Lei si trovava i clienti e lui si prendeva una fetta dei soldi, ma se vuole sapere se Taggart è un magnaccia, la risposta è no. Fa il gradasso e gioca a fare il duro, ma non vale una cicca. Non ha né le palle né il cervello per fare il pappone. L’ultima volta che ho saputo qualcosa di lui lavorava in un negozio di articoli nautici a SoDo, per rispettare i termini della libertà condizionale dopo un’accusa per possesso di metanfetamine.»

Tracy aveva pensato che se Taggart sfruttava Veronica Watson, forse conosceva i nomi di qualche cliente abituale, o almeno dove la ragazza custodiva quelle informazioni. «Quando ha iniziato a ballare?»

«Poco dopo essersi trasferita da Taggart. Era minorenne, ma con il suo corpo non credo che i datori di lavoro abbiano fatto troppo i difficili. Quella ragazza era una miniera d’oro. Il suo nome d’arte sul palco era Velvet.»

«Earl, sono Kinsington Rowe. Ha detto che Taggart la picchiava. Sa se gli piaceva legarla?» intervenne Kins.

«Non ne ho idea. Ve l’ho detto, lei non apriva bocca. Taggart era il suo principe azzurro.»

«A me sembra il ranocchio, piuttosto» disse Kins.

«È un’offesa per i ranocchi.»

 

Lasciarono l’auto in un parcheggio a pagamento in First Avenue, poco più a nord dell’ingresso del Pink Palace che si trovava all’estremità meridionale dell’emblematico mercato di Pike Place, forse l’attrazione turistica più popolare di Seattle. Il mercato si affacciava sul lungomare e sulla baia di Elliott da più di cent’anni. Tracy era sicura che fosse stato il gran passaggio pedonale a convincere Darrell Nash ad aprire lì quello che lui definiva un “club satellite”.

A differenza del club dietro Aurora Avenue, lì non c’erano grandi insegne o maxischermi, solo una modesta scritta rosa al neon montata sulla parete. Era il tardo pomeriggio e un ragazzo era accanto all’ingresso, in smoking, con l’aria di un liceale dell’ultimo anno che si è messo in tiro per una festa a cui non ha voglia di andare.

Kins e Tracy non si presero il disturbo di tirare fuori i distintivi quando gli passarono davanti. «Cerco solo qualche spunto per la biancheria di questa primavera» disse Tracy.

Scostarono una tenda nera tirata davanti all’ingresso per evitare che la gente sbirciasse gratis. Tracy per poco non ebbe un conato quando respirò l’aria intrisa di profumo, talco e odori corporei. Le luci lampeggianti al neon e la musica techno che pulsava le fecero rimpiangere subito i veri gruppi che suonavano veri strumenti, come Bruce Springsteen, gli Aerosmith e i Rolling Stones.

Subito oltre la tenda c’era una donna asiatica minuta, i capelli schiariti a eccezione di una ciocca nera che le attraversava il cuoio capelluto come una puzzola al contrario, con tacco dieci, un reggiseno viola e un tanga intonato. Tracy possedeva cerotti che coprivano più pelle di quella biancheria. La biglietteria era subito a destra della donna, che doveva essere una sorta di incoraggiamento perché gli uomini sborsassero il prezzo del biglietto.

Kins si chinò e le parlò all’orecchio sopra la musica a tutto volume. La donna indicò il bar in fondo al locale, poi gli sorrise maliziosa e gli lanciò un’occhiata del genere “Sei interessato?”. Kins era un uomo attraente, robusto, con i lineamenti da ragazzino che lo facevano sembrare più giovane dei suoi quarant’anni. Sorrise, strizzò l’occhio alla ragazza e oltrepassò la biglietteria per entrare nel locale. Tracy lo seguì.

Il Pink Palace dietro Aurora Avenue aveva diversi palcoscenici e bar, e numerosi divanetti di cuoio e stanze interne private per la lap dance e gli incontri sessuali che secondo Darrell Nash erano malvisti dalla gestione. Questo locale era decisamente più piccolo, con un solo palcoscenico e le sedie e i tavolini sistemati come in un normale cabaret. In quel preciso istante, una brunetta con un tanga bianco pendeva da un palo appesa per una gamba, la pelle che brillava sotto le luci, tra gli altoparlanti e una sfera da discoteca che ruotava. Si inarcò all’indietro, i seni che sembravano sfidare la forza di gravità, e circondò con le labbra una bottiglia di Budweiser sistemata sul bordo del palco da un gruppo animato di uomini d’affari giapponesi, che esultarono quando la ragazza tornò a sollevarsi, dando mostra di una forza incredibile nel busto.

Kins fece il giro del palco verso il bar, dove un barista con la camicia dello smoking e il papillon se ne stava appoggiato sugli avambracci e chiacchierava con una rossa minuta e un’afroamericana dalla corporatura robusta. Entrambe le donne indossavano una sorta di smoking adattato, con una pettorina al posto della camicia, calze a rete e tacco dieci.

Il barista si raddrizzò. «Che cosa posso servirvi?»

Tracy pensò che quel tizio doveva avere il quoziente intellettivo di un sasso per non aver capito che erano poliziotti. Le ballerine invece dovettero fiutarlo, perché si allontanarono rapide.

«Può chiamare il responsabile?» chiese Kins.

«Il cosa?»

Kins sollevò il distintivo.

Il barista annuì. «Torno subito» disse e sparì oltre una tenda nera tesa dietro il bar.

Tracy si guardò intorno. Il gruppetto di uomini d’affari stava riempiendo di banconote il tanga della ragazza. La rossa aveva raggiunto un tizio seduto da solo a un tavolo. Tracy lo osservò. Bianco, capelli scuri, sulla quarantina. Lo sguardo del tizio si posò su Tracy e la osservò senza particolare interesse, prima di tornare a fissare la donna sul palco.

Il barista tornò con un uomo che sembrava di origine mediorientale.

«È lei il responsabile del locale?» chiese Kins.

«Nabil» rispose lui stringendogli la mano. «Che cosa posso fare per lei?»

Tracy ricordò che Nash aveva detto che Nabil Kotar era il responsabile del club di Aurora la sera in cui Angela Schreiber era stata assassinata. Questo significava che Kotar era uno dei dipendenti che Ron Mayweather aveva verificato attraverso il database del centro nazionale d’informazioni sul crimine. Tutte le persone controllate erano risultate pulite.

Come Nash, anche Kotar aveva il fisico del sollevatore di pesi e una predilezione per le magliette attillate. Quella che indossava adesso era nera, con le maniche abbastanza corte da mettere in mostra una buona parte del serpente tatuato che gli strisciava sul bicipite destro. Da una delle tante catene appese al collo pendeva una grossa croce dorata. A giudicare dall’odore, aveva abbondato con la colonia o il deodorante.

Tracy alzò la voce per farsi sentire sopra la musica, che sopportava sempre meno. «C’è un posto dove possiamo parlare?»

Kotar li precedette fra due divanetti di cuoio a forma di mezzaluna e lungo un breve corridoio, fino a una stanza con una tenda rosa semitrasparente. La stanza era invasa dal rosso e dall’odore penetrante del club, ma almeno la musica era meno tormentosa.

«Come fate a non avere mal di testa a lavorare qui dentro?» chiese Tracy.

Kotar alzò le spalle. «Dopo un po’ ci si abitua. Volete sedervi?»

Tracy sentiva il bisogno di grattarsi solo a guardare il divanetto davanti a lei. Non osava pensare a quel che doveva succedere sul tavolo. «Resteremo in piedi.»

«Si tratta di Angel?»

«Era lei il responsabile qui ieri sera?»

«Sì» rispose Kotar. «Faccio la spola fra questo club e quello di Aurora, al momento.»

«Ha lavorato qui ieri sera?»

«Il direttore ha chiamato e ha detto che non stava bene. Bella rottura.»

«Perché?»

«Il viaggio fin qui. C’è un traffico schifoso e parcheggiare è un incubo.»

«Quindi il suo locale di solito è quello di Aurora?» chiese Kins.

«Esatto.»

«A che ora è uscito dal club martedì notte?» chiese ancora Kins.

«Ho chiuso io. Quindi verso le due e mezzo, due e tre quarti.»

«Ha chiuso lei, non Nash?» chiese Tracy. Nash aveva detto di aver chiuso lui il locale quella notte.

Kotar alzò le spalle. «Toccava a me. Ero il responsabile.»

«Nash ha detto dove sarebbe andato?»

«A casa, immagino.»

«Ha detto che sarebbe andato a casa?»

«No.»

«Lei dove è andato dopo aver chiuso il locale?» chiese Kins.

«A casa.»

«Qualcuno può confermarlo?»

«Mia moglie.»

«Era a casa?»

«Sì, abbiamo una figlia di due anni.»

«Che cosa dice sua moglie del fatto che lavora qui?» chiese Tracy.

Kotar alzò le spalle. «La paga non è male. Mi danno l’assicurazione medica e dentale e sono a casa la mattina per portare mia figlia al nido. Ci fa comodo. La gente pensa che sia chissà che, lavorare qui. In realtà dopo un po’ ci si fa il callo.»

«Sua moglie di cosa si occupa?»

«La mattina lavora in un centro benessere. Comincia alle cinque e mezzo.»

«Veronica Watson ha lavorato in questo locale ieri sera?» chiese Tracy.

«Velvet? Sì» rispose Kotar, poi si bloccò, la fronte corrugata mentre pensava. «Mi sembra che ieri fosse qui. A volte le sere si confondono tutte.»

«Non lo dica a me» rispose Tracy.

«Posso controllare.» Kotar socchiuse gli occhi. «Perché volete sapere di Velvet? Le è successo qualcosa?»

«Quante donne lavorano contemporaneamente?» chiese Tracy.

«Dipende dalla sera della settimana, i fine settimana c’è più lavoro. Ed è anche il turno migliore, perché le mance sono più alte. Abbiamo circa novanta ballerine che girano fra i tre locali. Non è sempre facile sapere chi lavora dove.»

«Ieri sera quante erano?»

«Una decina, direi, ma non ne sono sicuro.»

«Avremo bisogno di saperlo» disse Kins.

Kotar sembrò indeciso. «Dovrò chiederlo a Darrell.»

«Perché?»

«È Darrell che controlla tutto. Questo è il suo club.» Kotar spostò lo sguardo fra loro. «Velvet è morta? Per questo mi chiedete di lei?»

«Sì, è morta» rispose Kins.

Kotar imprecò e chiuse gli occhi. Espirò profondamente prima di tornare a guardarli. «Merda. È lo stesso tizio?»

«Cosa può dirci di lei?» chiese Tracy.

Kotar scrollò le spalle. «Non dava problemi. Sembrava che andasse d’accordo con tutti, ma ve l’ho detto, questo non è il mio locale. Un corpo da schianto, anche se ho sentito dire che aveva messo su qualche chilo, quindi non era più tanto richiesta come un tempo, ma credo che se la cavasse bene.»

«Chi gliel’ha detto?»

«Che aveva messo su qualche chilo? Darrell.»

L’ennesima conferma dell’impressione che si era fatta Tracy, ossia che per Nash le ballerine erano semplicemente una merce, oggetti che potevano essere sostituiti facilmente se ingrassavano o invecchiavano. O morivano.

«Ha notato se qualche cliente era particolarmente interessato a lei, ieri sera?» chiese Tracy.

«Mi sembra di averla vista lavorare a uno dei divanetti, ma niente di che.»

«Ha fatto caso se c’era un tizio alto, ben vestito? Capelli castani chiari» continuò, ricordando la descrizione che Joon del motel aveva fornito a Faz.

«Non lo so. Forse le ballerine possono dirvelo. Ma ha pagato la sua parte, questo lo so.»

«Che cosa significa?»

«Le ballerine devono pagare al locale una percentuale di quello che guadagnano con le mance ai tavoli e con le lap dance private.»

«Non siete voi a pagarle?» chiese Tracy.

«È così che guadagnano: con i balli ai tavoli e le lap dance. Alla fine della serata versano una parte al locale e si tengono il resto.»

Tracy ripensò alle acrobazie della donna sul palcoscenico. «E quando ballano sul palco? Non le pagate?»

«Quello si chiama marketing e pubblicità. Le banconote sono mance.»

«Segnate quanto vi paga ogni ballerina alla fine di una serata?» chiese Kins.

«Per forza. Altrimenti il fisco ci avrebbe già fatto chiudere.»

«Avremo bisogno dei nomi di tutte le persone che hanno lavorato qui ieri sera: baristi, camerieri, vigilanza, tutti» disse Kins.

«Ve l’ho detto, devo parlarne con Darrell. Si incazzerà di brutto.»

«Perché dovrebbe?» chiese Tracy.

Kotar sembrò in imbarazzo. «Dirà che non fa bene agli affari. Le ragazze andranno nel panico.»

Non abbastanza da smettere di portarsi degli estranei nei motel, pensò Tracy. Quando Ridgway era all’apice della sua carriera di serial killer, la prostituzione aveva continuato senza sosta. Una ragazza doveva procurarsi da vivere, anche a rischio di essere uccisa. «Velvet era amica di qualcuna delle ballerine?»

Un’altra alzata di spalle. «Posso scoprirlo, posso organizzare una riunione con le ragazze con cui ha ballato ieri sera. Meglio più tardi però. Posso sapere che cosa le è successo? Ho letto sui giornali che quel tizio ha strangolato Angel.»

«Velvet arrotondava in qualche modo, Nabil?» chiese Tracy.

«Non ne ho idea.»

«Avanti, Nabil» disse Tracy. «Adesso non è il momento per cercare di proteggerla o di difendere il locale.»

Lui sollevò le mani. «È la verità. Non sono affari miei. Forse lo sapranno le ragazze. Potete chiedere a loro.»

«E Darrell Nash, era in questo locale ieri sera?»

«È passato di qui.»

«Per quale motivo?»

«Per dare un’occhiata, controllare l’incasso, chiedere come andava la serata.»

«Lo fa spesso?»

«Questo posto è suo.»

«Lo fa spesso?»

«Ogni tanto. Non tutte le sere.»

«A che ora è passato ieri sera?»

«Se viene, di solito è verso la fine della serata.»

«E ieri sera, quanto si è fermato?»

«Ieri sera? Non molto.» Kotar sollevò le mani. «Non sono in grado di dirlo. Non lo so. Cercavo di chiudere alla svelta e andarmene a casa. Non ci ho fatto caso, davvero.»

«L’ha visto parlare con qualcuna delle ballerine?»

«Darrell?» Kotar distolse lo sguardo, come per riflettere sulla domanda. Tracy pensò che stava prendendo tempo. Poi disse: «No. Non che io ricordi».

Tracy incrociò lo sguardo di Kins. Se n’era accorto anche lui. Passò un biglietto da visita a Kotar. «Torneremo stasera per parlare con le ragazze che hanno lavorato con Veronica.»