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Eravamo stesi supini sulla riva fangosa, a guardare la torbida oscurità del cielo notturno come se fosse lo spettacolo più bello sulla faccia della terra. La pioggia che cadeva sui nostri visi mi rinvigorì la pelle e i pensieri. André l’aveva dimostrato ancora una volta: i Caussade erano immortali.

Respiravamo in modo affannoso per la nuotata ma mi colpì una cosa. «Le tue gambe hanno retto bene» dissi. «Non sembrava che ti rallentassero.»

La sua risatina mi sorprese. «Oh Eloïse, pensavo l’avessi capito. Mi sono allenato tanto per mesi e ho riacquistato la mobilità di un tempo.»

«Ma la sedia a rotelle? La zoppia?»

«Una facciata. Per far credere che ero finito, senza futuro.»

Sempre finzioni. Sempre qualcosa di nascosto. Come se avesse paura che le persone lo vedessero, che vedessero davvero chi era. Mio fratello sapeva almeno lui chi era?

«Avresti potuto dirmelo» puntualizzai.

«No, non potevo. Tu più di tutti dovevi credere che ero storpio, per convincere gli altri che era vero.»

«Mi hai usata di nuovo.» Era un’accusa.

Voltò la testa. Al buio riuscii solo a scorgere il suo sorriso gentile. «Sì, è così. Grazie, Eloïse. Grazie per tutto quello che hai fatto per aiutarmi. Sono contento di essermi fidato di te. Non ho mai smesso di lavorare per la CIA. Il resto – tutte le informazioni che passavo a Clarisse – erano una facciata, come la zoppia che ho usato per confondere gli altri. Bertin e Piquet hanno sempre creduto che avessi cambiato bandiera e fossi passato all’MGB, ma non era vero. Voglio che tu mi creda, Eloïse.»

Sembrava un addio.

Ma non attese una mia risposta. Si mise a sedere alla svelta. «Adesso» disse «andiamo a trovare quel motoscafo.»

L’acquazzone si tramutò in una pioggerella fine mentre correvo scalza lungo il sentiero litoraneo che portava alle luci di Saintes-Maries-de-la-Mer. André correva davanti a me e anche se le gambe non erano esattamente quelle di una volta i suoi occhi lo erano eccome. Riusciva a orientarsi di notte come una volpe e mi guidò attraverso la lunga e morbida distesa di sabbia fino ai moli dov’erano ormeggiate le barche.

Non c’era nessuno fuori con quel tempaccio, il piccolo villaggio si era rintanato fino al mattino. Riparati dal buio camminammo senza far rumore nei nostri vestiti inzuppati lungo il molo dove le imbarcazioni più piccole ondeggiavano silenziose, strattonando le corde. Eravamo circondati dallo scricchiolio degli alberi che sembravano vecchie ossa, dallo sferzare delle vele e dal rumore degli anelli di ammaraggio, ma nessuno ci diede l’altolà. André scelse una barca. Era piccola, curata, ma sembrava veloce. Saltò a bordo, inserì il piede direttamente nella chiusura del portello e scivolò verso la sala macchine.

Io rimasi sul molo, tesa, vigile. Adesso che la pioggia si era diradata vedevo una luce in lontananza sulla nera distesa d’acqua, che quella sera era così scura da sembrare un buco nella crosta terrestre. La luce andava e veniva, comparendo e scomparendo alla vista, e mi si strinse il cuore mentre in me si faceva strada la convinzione che fosse l’imbarcazione dalla quale eravamo saltati. Che tornava agli ormeggi. Clarisse stava venendo a cercarmi.

Ai miei piedi si accese un motore. André era riuscito a farlo funzionare e stava slegando le corde. Balzai sul ponte.

«No» disse immediatamente. «Tu rimani qui.»

«Invece vengo. Non crederai che a questo punto mi tiri indietro quando…»

Non discusse. Venne da me. Mi sorrise e mi spinse in acqua.

Ero in piedi sulla spiaggia, la sabbia fredda tra le dita dei piedi, la spuma che mi vorticava attorno alle caviglie, intorpidendole. Non me ne resi conto. Avevo lo sguardo fisso sulla luce in lontananza che adesso era più vicina e sempre più grande, le orecchie tese per cercare di captarne il suono del motore.

Non farlo, André, non farlo. Ti prego.

Non sapevo se avevo pronunciato quelle parole o se erano rimaste solo nella mia testa. Se avessi saputo come mettere in moto una barca lo avrei seguito, ma non ne ero in grado. Così attesi, lo sguardo fisso, la mente in subbuglio, e sentii di nuovo la paura impossessarsi del mio corpo.

La notte aveva inghiottito la barca di André perché la guidava a luci spente, ma sapevo esattamente dov’era diretto. Se avesse cercato di risalire a bordo della barca di Clarisse i tre russi lo avrebbero fatto a pezzi. Non aveva una pistola. Solo un coltello. Un coltello contro una pistola Tokarev.

Ma lei aveva tradito la Francia. Mio fratello non era un uomo che passava sopra a certe cose.

Il lieve scroscio delle onde che si agitavano e mugghiavano come un animale si mescolarono ai miei pensieri, martellandomi in testa.

«André!» gridai verso il mare. «Non farlo. Ti prego non farlo.»

Ma le mie parole si dispersero, era troppo tardi. Un fulmine squarciò il cielo e vidi chiaramente le due imbarcazioni. La più piccola stava sfrecciando verso la più grande, ed erano vicinissime. Il riverbero bianco del fulmine svanì, privandomi della visuale notturna, ma sbattei le palpebre e rividi la luce della barca. Affondai ancora di più le dita nella sabbia bagnata.

Poi un’esplosione scosse la notte. Un possente muro di fiamme divampò nel cielo scuro quando la barca di André si schiantò contro quella di Clarisse. Non riuscivo a sentirne il boato. Non riuscivo a sentire le onde ai miei piedi. Non riuscivo a sentire il battito del mio cuore. Sentivo solo un urlo disumano che mi usciva dalla bocca.

L’alba si profilò all’orizzonte, grigia e anonima. Ero rimasta sulla spiaggia tutta la notte ad aspettare mio fratello. Ma non era arrivato. Ero appena conscia dei movimenti che mi circondavano, delle persone, delle uniformi, delle voci. Alcune mi parlavano, altre mi lasciavano in pace come se sembrassi una lebbrosa. Si confondevano tutte nella mia mente, perse nella nebbia del dolore.

Solo Léon era reale. Solo la sua voce mi raggiunse e solo i suoi teneri occhi grigi apportarono un barlume di calore al freddo dolore che sentivo nelle costole. Mi avvolse in una calda coperta e mi rimase accanto ora dopo ora mentre i suoi uomini interrogavano gli abitanti del posto e perlustravano il mare in cerca di relitti.

E di corpi.

«Quanti sono?» chiesi.

«Cinque.»

«Sono riconoscibili?»

«Alcuni. Mi spiace, ma uno appartiene al maggiore Dirke.»

Annuii. «Mi spiace.»

Guardai un gabbiano camminare in modo altero sulla spuma, con le zampe simili a lastre gialle che sbattevano sulla sabbia finché non ne emerse un piccolo granchio rosa. Il suo becco arancione lo divorò.

«Non riconosco gli altri quattro uomini.»

«Tre hanno dei tatuaggi?»

«Sì.»

«Sono russi. Erano sulla barca di Clarisse.»

«Buono a sapersi.»

«Nessun corpo femminile? Nessuna traccia di Clarisse?»

«No. Il quarto uomo indossa abiti navali, quindi forse era il pilota.»

Mi passai la lingua sulle labbra secche tre volte prima di riuscire a pronunciare quelle parole. «Nessuna traccia di André?»

«No, Eloïse, mi spiace.» Mi cinse con un braccio, stringendomi a lui, accarezzandomi la schiena per riscaldarmi. Il suo respiro era morbido al mio orecchio. «Forse è saltato in acqua.»

Reclinai di scatto la testa all’indietro. «Che cosa?»

«André potrebbe essere saltato fuori dalla barca prima che colpisse quella di Clarisse.» Mi sorrise e il mio cuore si stabilizzò. «Potrebbe essere vivo.»

Inspirai a fondo, l’aria mattutina trasportava il profumo salato del mare e intravidi un primo barlume di speranza.