28
«Sai cos’è un dead drop?»
«Certo. Un luogo di scambio segreto.» Guardai André. Era agitato. Avevo percepito la sua tensione fin da quando aveva aperto la porta della mia camera.
«Esatto.» Sorrise in approvazione, valutando il mio stato d’animo. «Oggi voglio che lo usi.»
Era mattina presto e le nuvole del giorno prima si erano spostate verso ovest, rivelando un cielo azzurro e terso che prometteva una calura precoce. André era appoggiato allo stipite con addosso i suoi abiti da lavoro, una camicia grezza senza colletto e un fazzoletto al collo, anche se non lavorava più nei campi. Notai che per la prima volta calzava un paio di stivali anziché scarpe morbide. Aveva in mente di andare da qualche parte? O si stava solo aggrappando al mondo che aveva perso?
«Pronta?» mi chiese.
«Certo. Qual è il posto?»
«Ad Arles. Ti ho disegnato una cartina. Memorizzala, poi bruciala.»
«Cosa devo portare?»
«I negativi che hai sviluppato.»
«E chi li prenderà?»
«Non serve che tu sappia niente a parte il fatto che li prenderà un agente della CIA. Quando avrai finito non gironzolare lì intorno. Continua a camminare.»
«Ma perché la CIA dovrebbe volere i negativi? Di sicuro sono già in possesso di quell’informazione.»
Sorrise con un lieve sospiro paziente. «Perché hanno bisogno di sapere quale documento è stato copiato di preciso. Restringeranno il campo sulla base di quanti hanno accesso alla base aerea.»
Annuii. Certo. André prese le stampelle e attraversò la stanza per piazzarsi di fronte a me.
«Eloïse.»
Chinò la testa per guardarmi più da vicino con espressione gentile. «Qual è il problema? Sei nervosa?»
«No» mentii.
Sfilò un braccio da sotto la gruccia, sorreggendosi solo grazie all’ascella e mi posò una mano sulla spalla, come faceva con tutti i suoi amichetti da piccolo, marchiando ognuno di noi come una sua proprietà. Come un marchio a fuoco su un vitello. Percepivo la sua forza attraverso il sottile tessuto della mia camicetta.
«Farai la consegna senza problemi» disse magnanimo. «Sta’ attenta. Tieni gli occhi aperti. Torna subito a casa. Io ti aspetterò.» Mi mise in mano un foglio di carta e una busta marrone, poi mi diede una pacca sulla spalla. «Non deludermi, okay?»
«Okay.»
«Mi fido di te.»
Non avrei mai pensato di sentire ancora quelle parole uscire dalla bocca di mio fratello.
Mi sorrise e si scostò i folti capelli dagli occhi. «Sei le mie gambe.»
Posai la mia mano sulla sua, che era appoggiata alla mia spalla, e per un attimo le nostre ossa caussadiane si fusero. «Non ti deluderò, non preoccuparti.»
Lui si voltò e si trascinò fino alla porta. Ormai usava le stampelle come se fossero un’estensione del suo corpo e vedevo i muscoli della schiena flettersi sotto alla camicia. Arrivato alla porta mi rivolse un’occhiata che non riuscii a decifrare e mi diede un ultimo ordine.
«Prendi la pistola. Non si sa mai.»
Non appena André se ne fu andato ispezionai la busta. Era sigillata. Semplice, marrone, senza scritte sul davanti. Sembrava una delle buste che papà teneva nel suo studio al piano terra.
Il foglio che mi aveva dato conteneva le istruzioni su dove si trovasse il luogo di scambio segreto ad Arles e in cosa consistesse. Lo memorizzai e poi feci come mi aveva ordinato André, lo bruciai. In un vuotatasche di vetro appartenuto a mia madre.
Fino a quel momento ero stata super obbediente.
Schiacciai la cenere calda con la punta del dito, così nessuno avrebbe potuto leggere quello che c’era scritto se ci avesse provato. Quando fu ridotto in polvere corsi da basso nello studio di papà, allestito nella sala da pranzo che usavamo di rado perché la maggior parte dei giorni preferivamo mangiare nella grande cucina. Lo studio era chiuso a chiave. La porta era un pesante pannello in mogano dalla maniglia in ottone decorato e una serratura anch’essa in ottone che sembrava più proibitiva di quanto in realtà non fosse. Impiegai due minuti per farla cedere e non più di un altro minuto per prendere una busta marrone dalla pila all’interno della stanza per poi richiuderla. Quando tornai in camera mia ero stata via in tutto cinque minuti al massimo.
Chiusi il catenaccio. Sì, avevo messo un catenaccio alla porta. Due in effetti, sopra e sotto. Non avrebbero tenuto lontano un assassino munito di scure ma avrebbero potuto concedermi minuti essenziali per scappare. In quel caso mi concedevano la privacy di cui necessitavo.
Aprii la busta sigillata che mi aveva dato André e ne estrassi il contenuto. Due oggetti caddero sul mio letto. Uno era la pellicola sviluppata all’interno di un astuccio protettivo, l’altro era un mezzo foglio di carta ripiegato. Non mi feci scrupoli: spiegai il foglio per leggerlo e avvertii un’ondata di euforia quando vidi cosa c’era stampato con l’inchiostro nero di André. L’emozione della caccia mi provocò un brivido d’eccitazione lungo la schiena. Proprio come ai vecchi tempi. Solo che adesso avevo molto più da perdere.
359 20 10 | 229 13 4 | 1261 14 14 | 828 17 5 |
378 5 11 | 8 3 8 | 1261 1 5 | 1117 14 7 |
55 20 6 | 216 19 2 | 1261 7 11 | |
784 9 1 | 48 1 8 | 289 16 5 | |
1117 20 2 | 213 5 1 | 145 2 3 | |
571 32 3 | 358 35 6 | ||
671 1 8 | |||
853 5 1 | 299 5 1 | 25 6 4 | |
1093 30 8 | 8 6 8 | 175 1 1 | |
1093 35 9 | 75 33 13 | 415 24 2 | |
69 3 3 | 303 5 5 | 1063 3 1 | |
774 35 1 | 1192 3 11 | ||
471 3 7 |
Era un codice.
Sorrisi mentre passavo le dita sulle colonne di numeri. I miei vecchi amici. André, sono passati da tempo i giorni in cui riuscivi a battermi a questo gioco. Cercai sotto al letto, ne estrassi la mia elegante valigia parigina, la aprii e da sotto una copia di «Paris Match» presi la mia copia sgualcita de Les Misérables di Victor Hugo. Sfogliai il libro, trovando ogni numero di pagina seguito dal numero della riga e da quello della parola. La prima pagina era la 359, riga 20, decima parola. Si rivelò essere “torri”. Trascrissi la prima lettera nel mio taccuino: T.
Un codice semplice, se possiedi il libro che ne è la chiave. Io ce l’avevo, certo che ce l’avevo. Con un orecchio teso per sentire ogni possibile rumore delle stampelle di André continuai lungo ogni fila di numeri finché non trovai ogni prima lettera delle parole e mi ritrovai con quarantasei lettere. Quando le misi in ordine vidi che costruivano dieci parole:
TROVATO NELL’UFFICIO DI DURAND
SERVE UN PREZZO PIÙ ALTO
Le rilessi due volte e poi ancora altre due volte, il mio cervello che si attaccava alle ultime tre parole come una sanguisuga. «Serve un prezzo più alto.»
Per chi?
Per Durand?
Per la fonte della fuga di notizie?
Mi sforzai di pensare all’impossibile, proprio come mi aveva detto mio fratello.
Un prezzo più alto per André?
Allungai un’altra volta il braccio sotto al letto, ripresi di nuovo la valigia e mi ci sedetti accanto. Presi il mio mirino ingrandente. Mi sentivo una stupida, non sapevo bene perché lo stavo facendo. Sia io che André avevamo esaminato minuziosamente la pellicola, ma c’era qualcosa che mi ronzava in testa, qualcosa che non riuscivo a scrollare via.
Srotolai la pellicola, mi ci piegai sopra con il mirino appiccicato all’occhio e la fissai di nuovo, passando al setaccio ogni volto nelle foto che avevo scattato il giorno prima nella strada di Serriac. Un ammasso di teste. Di schiene e braccia. Facce dalle bocche aperte, immobilizzate nel silenzio.
Dove? Dov’era?
Quella cosa che mi si era impigliata nella mente come un amo da pesca.
Impiegai dieci minuti per trovarla, e quando ci riuscii seppi chi aveva ucciso Mickey. Sentii il respiro mozzarsi in gola, provai il desiderio di allungare il braccio fin dentro quel pezzetto di celluloide e strapparne via quella persona. Dare fuoco alla pellicola. Guardarlo bruciare all’inferno.
Sbirciai più da vicino, con la bocca secca. Il viso era oscurato da un cartellone che diceva NO ALLE BOMBE NUCLEARI. Ma la sua zazzera di capelli si vedeva chiaramente, bianca come neve nel negativo. E anche le sopracciglia erano evidenti. Appuntite e inconfondibili.
L’ultima volta l’avevo visto all’ospedale a Parigi e mi aveva quasi lacerato il viso. Era il tirapiedi di Gilles Bertin. Maurice Piquet. Quello a cui piaceva far del male.
Il cuore della città di Arles è contrassegnato dal sangue. Quel giorno riuscivo quasi a sentirne l’odore nell’aria calda e umida che soffiava dal fiume. La violenza e i massacri sono impressi nelle sue pietre perché sopra alle stradine serpeggianti si innalza uno dei più maestosi anfiteatri romani, dove uomini, donne, bambini e animali venivano uccisi per divertimento; è una costruzione che getta un’ombra grigia d’oscurità.
Ero diretta lì. Parcheggiai sulla strada principale, Boulevard des Lices. Di sabato sarebbe stata invasa dal più bel mercato all’aperto di tutta la Provenza, il profumo di spezie esotiche e formaggi locali e pollame vivo che attira folle per scegliere e tastare la mercanzia tra le bancarelle variopinte. Ma quel giorno era tranquilla, c’erano solo gli abituali lavoratori del lunedì mattina e i furgoni per le consegne. I turisti estivi si stavano ancora godendo con calma il loro caffè con croissant, per nulla interessati all’ennesima Citroën 2CV grigia che si fermava all’ombra sotto a uno dei placidi alberi che costeggiavano la strada.
Imboccai a piedi una strada secondaria. Di tanto in tanto mi attardavo sulla soglia di un negozio, apparentemente per esaminare qualche oggetto che mi interessava. Ma il mio unico interesse era guardare chi o cosa si aggirava per strada. Una donna sovraccarica di borse di juta stracolme di spesa. Un cameriere che si affrettava con una bottiglia di champagne in mano. Un prete in abito talare nero e una suora che parlavano fitto. Un bambino che guardò intento la mia cicatrice. Un vecchio cane già troppo affaticato dal caldo per ringhiare a un’estranea.
Nessun volto conosciuto.
André aveva ragione. Ero nervosa. Senza motivo. Giusto? Stavo solo consegnando una lettera, ma il mio cuore non recepì il messaggio. Mi martellava contro le costole finché non emersi dal labirinto di anguste stradine e lasciai Rue des Arènes per dirigermi verso lo spazio immenso dove l’antico anfiteatro romano si sollevava in tutta la sua monolitica magnificenza. Riusciva a farmi piangere ogni volta, ogni singola volta.
Percorsi la strada soprelevata di fronte all’arena e mi accomodai su una sedia a uno dei café all’aperto apparentemente senza uno scopo in particolare e come se avessi tutto il tempo del mondo a disposizione. Qualche turista mi passò davanti a passo lento, entravano e uscivano dai negozi di souvenir, ma nessuno guardò nella mia direzione. L’anfiteatro era l’attrazione principale.
Nonostante fosse ancora presto ordinai un pastis. Adoravo quel liquido giallo chiaro lattiginoso e lo sorseggiai lentamente mentre mi guardavo intorno. Da lassù avevo una buona visuale. La strada soprelevata scorreva lungo una sezione dell’anfiteatro e osservai ogni passante che camminava o che si fermava a fissare estasiato la massiccia costruzione in pietra sul lato opposto. Li studiai. Imparai a memoria ogni dettaglio. Così li avrei riconosciuti.
Adesso ero calma. Non ero più agitata. Era il tipo di lavoro che avevo fatto centinaia di volte a Parigi per Clarisse. Osservare. Pazientare. Misurare il tempo. Agire. Ritrarsi. Ma quando lavoravo per Clarisse non c’era una vita in ballo. Era stato l’anfiteatro romano a darmi un senso della prospettiva. Ogni volta che mi ci avvicinavo mi veniva la pelle d’oca, era così imponente: una costruzione su due livelli in pietra lunga centoquaranta metri munita di sedute per più di ventimila spettatori urlanti, decorata da centoventi meravigliosi archi, oltre a tre torri che le donavano un tocco medievale.
Era un luogo adibito alla morte. Alla morte e alla corsa delle bighe. E adesso veniva usato per i “giochi” con i tori. Erano forse tutte quelle anime defunte all’interno dell’arena a donarle quel potere? Oppure lo starsene seduti lì al sole, in attesa di altro?
Mi attardai sul mio pastis. Un’ora dopo, quando mi sentii pronta, mi alzai, gettai qualche monetina sul tavolo e mi avviai per camminare attorno al muro esterno dell’anfiteatro finché non mi convinsi che nessuno mi stava seguendo. Quando arrivai all’imboccatura di una stradina insignificante con un’urna in pietra e un’inferriata metallica alla prima finestra capii che ero sulla strada giusta. La via era immersa nell’ombra e le imposte erano chiuse. Niente occhi a vedere quello che non avrebbero dovuto vedere, niente lingue a raccontare quello che non avrebbero dovuto raccontare.
A metà strada, sul lato destro, c’era un’ampia grondaia, nera e arrugginita. La parte superiore era stata mozzata quindi arrivava all’altezza della vita, ed era richiusa da un coperchio metallico. Mentre la superavo sollevai il coperchio con un vigoroso strattone e lasciai cadere la busta marrone contenente i negativi all’interno della tubatura. Intravidi il luccichio di un cilindro all’interno.
Una volta riposizionato il coperchio mi allontanai. Mi ci erano voluti esattamente cinque secondi.
Ero tentata di rimanere. Di guardare. Di vedere chi sarebbe arrivato. Ma ero sicura che avrei aspettato invano. Non sarebbe venuto nessuno finché fossi rimasta vicina al luogo di scambio segreto, inoltre era un posto strategico perché non avevo modo di guardare la stradina senza essere osservata a mia volta.
Camminai in circolo per le vie di Arles, ritornando sui miei passi, a momenti svoltando in angoli strani o prendendo strade secondarie che mi portavano a superare cassonetti e fili dove si appendeva la biancheria. Quando fui sicura che nessuno mi stava seguendo, assolutamente certa, accelerai e tornai a Place du Forum. Da lì mi mescolai alla piccola folla di turisti che si attardavano sempre ai café con le loro tende da sole gialle e svoltai l’angolo, verso il fiume.
Non c’era nebbia quel giorno. Fatta eccezione per la nebbia dell’inganno.
Trovai la strada senza difficoltà. E anche la casa. Quella in cui la Chevrolet verde e bianca aveva parcheggiato in un campo incolto e dove avevo visto mio fratello agevolata da una coltre di oscurità. André aveva detto di aver convinto l’agente dell’MGB che gli sarebbe servito più da vivo che da morto.
Più utile in che modo? Cos’hai accettato di fare, André?
E come mai mi ritrovavo un fucile puntato in faccia ogni volta che entravo in camera tua senza bussare? Ma non fai lo stesso con Gilles Bertin. Come mai non hai premuto il grilletto invece di farti un giro in macchina sua? Dimmelo, André.
Un macilento gatto rossiccio stava poltrendo in un punto ombreggiato in cerca di riparo dal caldo inesorabile, e quando raggiunsi il portone dove mi ero nascosta quella notte il mio corpo reagì. Era dotato di vita propria. Ricordò la persona che si era nascosta lì con me, la sensazione della sua spalla sotto alla mia guancia e il suo respiro sussurrato contro il mio orecchio. La sua preoccupazione per me come una terza persona stretta lì assieme a noi. E mentre superavo quella soglia dall’apparenza innocente mi salì in petto un calore inaspettato.
Lascia che ti aiuti.
Le parole di Léon della notte prima. Il cielo notturno ne era testimone. Gli avevo stretto un braccio al collo al buio e avevo baciato la sua calda bocca.
Adesso la strada non era così tranquilla come pensavo, quindi per prendere tempo mi piegai e accarezzai quel piccolo sacco di pulci spelacchiato, che cominciò a fare le fusa a più non posso. Ma non appena ci fu un breve momento di stasi nella frenesia sulla strada mi spostai verso la porta della casa dentro la quale erano scomparsi André e il suo amico.
Bussai solo una volta. Nessuna risposta. Una parte di me era delusa. Quella parte di me voleva fare una lunga chiacchierata con Monsieur MGB. Ma l’altra parte fu sollevata. Voleva curiosare in santa pace.
Presi i miei attrezzi da scassinamento.