39

Clarisse mi accompagnò a casa. Non sarebbe entrata, così rimanemmo sedute in silenzio ad ascoltare il ticchettio del motore della sua Ford Vedette color crema. Uno dei cani si avvicinò e urinò sulla ruota anteriore ma lei mi sorprese con una risata.

«Grazie» dissi «per tutto quello che hai fatto. È stato importante averti qui.»

Mi allungai attraverso il sedile e strinsi tra le braccia la mia amica che sapeva di buono mentre lei rimase immobile più di quanto mi aspettassi, la testa poggiata contro la mia. «Torna a Parigi» le dissi con un abbraccio affettuoso. «Lì è più sicuro.»

Lei si ritrasse con una smorfia. Il giorno prima le sue povere costole erano state spintonate nel panico generale per sfuggire alla granata. «Vado se vieni con me» rispose. «Vieni con me adesso. Subito. Prima che le cose peggiorino.»

Mi rivolgeva il suo solito sorriso lucente, ma dal suo sguardo vidi che era seria.

«Non posso. Non finché non trovo chi guidava quel camion. Finché non lo scopro André non sarà al sicuro.»

«Oh Eloïse» sospirò. «E cosa farai quando lo trovi? Lo ucciderai?»

Non stava scherzando. Era serissima.

«Certo che no» dissi con leggerezza. «Per questo c’è la polizia.»

Mi fissò, esaminò il mio viso malconcio, poco convinta. «Sono preoccupata per te» mormorò.

Quattro parole che mi strinsero il cuore. Ero così commossa, così tentata di gridare: «Guida, Clarisse, guida. Fino a Parigi. Verso la salvezza. Verso una vita senza proiettili che mi trapassano i capelli o granate che mi sfrecciano davanti al viso».

Verso una vita senza Léon?

«Non preoccuparti» dissi. «Ho intenzione di uscire tutta intera da questa storia. Ma grazie, te ne sono grata, davvero.» Aprii la portiera della macchina. «Adesso torna a Parigi.» Scesi.

«Mannaggia a te,» disse con una risata, e diede un colpo alla carrozzeria color crema con il palmo della mano «mi farai morire.» Si allontanò in una nuvola di polvere.

Le diedi mezz’ora di vantaggio, poi andai ad Arles.

Feci con calma. Percorsi a piedi la parte vecchia della città. Usai i riflessi delle vetrine per controllare alle mie spalle, mi spostai velocemente lungo delle scorciatoie, mi aggirai per vie in cui riuscivano a passare solo i gatti. Le antiche mura di pietra mi avvolgevano e io mi nascosi all’ombra che proiettavano mentre tornavo indietro percorrendo il labirinto di piccole stradine dove il sole arrivava di rado. Le strisce di cielo sopra la mia testa erano sottili e grigie come ciottoli. Mi andava bene. Bloccata. Senza via di fuga.

Stavolta lo avrei aspettato in casa sua finché non fosse tornato. Non importa quanto tempo sarebbe servito. Giorni. Settimane. Sarei stata lì ad accoglierlo. Toccai la borsa di tela al mio fianco, sentii il peso della pistola e della mia decisione. Mi portarono entrambi al limite.

Le parole di Clarisse mi sussurrarono all’orecchio. Cosa farai quando lo trovi? Lo ucciderai?

Fui sorpresa nel trovare la porta della casa di Bertin aperta. Mi fermai nell’ingresso piastrellato e rimasi in ascolto. Nessun rumore, nessun movimento eccetto quello dei pensieri nella mia testa. Continuarono a cozzare finché non impugnai la pistola. Questo li mise a tacere.

Mi tolsi le scarpe e mi aggirai scalza nelle varie stanze. Quel posto mi sembrava diverso. Meno sereno, più nevrotico. O ero io? L’immagine di Léon nella sua uniforme scura e con un mandato di perquisizione in tasca che ispezionava ogni stanza mi si affacciò alla mente e mi placò il respiro. Non mi aspettavo di trovare lì Gilles Bertin quella mattina ma ero pronta ad aspettare. E aspettare. Ma prima controllai le stanze al piano inferiore e la cucina. Non c’era traccia di lui in salotto o in sala da pranzo, ma in cucina si avvertiva la sua presenza.

Sul tavolo c’erano una tazza di caffè a metà e gli avanzi sgretolati di un croissant, oltre a un piattino di vetro con della marmellata di albicocche. Sulla sedia era appesa una giacca. La finestra sul retro dava su un piccolo giardino con una panca a stecche e una rosa rampicante afflosciata. Niente sole, solo l’opaca cappa data dal cielo grigio. Sul tavolo c’erano anche un giornale aperto e un paio di occhiali dalla montatura spessa. Il giardino era vuoto.

Mi addossai alla parete della cucina subito dietro alla porta e rimasi lì immobile, le orecchie all’erta per percepire il minimo graffio o sussurro. Dopo un altro paio di minuti mi spostai verso il fondo della scala. Allo scoperto mi muovevo velocemente: salii di fretta le scale in punta di piedi fino al primo piano. Mi fermai, in ascolto. Con le dita fredde come il ghiaccio strette alla pistola mi diressi verso la prima porta ed entrai.

Nessuno. Niente. Una camera da letto vuota senza armadio in cui nascondersi. Ammuffita, inutilizzata.

Eppure ero convinta che Gilles Bertin fosse lì. Da qualche parte. A meno che non se ne fosse andato così di fretta da dover abbandonare il caffè e gli occhiali. Non mi sembrava un tipo così distratto, quindi avanzai in silenzio lungo il pianerottolo verso quella che ricordavo fosse la stanza principale. La porta era socchiusa. La aprii con il piede, la pistola spianata.

Lo vidi subito, Gilles Bertin in persona, e resistetti all’impulso di ritrarmi. Pantaloni scuri, eleganti, baffetto alla Ronald Colman, i capelli in ordine. La caratteristica fossetta sul mento. Mi sovvenne lo stupido pensiero che doveva essere dura rasarsi in quel punto. Tanto non si sarebbe rasato ancora. Gilles Bertin era steso supino e la camicia bianca era decorata da una raggiera scarlatta.

Qualcosa mi offuscò la mente. Prima Mickey. Adesso Bertin. Le mie gambe volevano correre al suo fianco ma mi aggrappai alla cautela ed entrai piano. Con gli occhi e la canna della pistola che puntavano ogni angolo della stanza. Sentivo un formicolio sulla pelle. Le dita non vedevano l’ora di premere il grilletto.

Non c’era nessun altro lì dentro. Mi avvicinai a Bertin, fissai il corpo dell’uomo che mi aveva instillato così tanta paura e odiai la sensazione delle lacrime che mi scorrevano sulle guance. Mi voltai. Quell’uomo non si meritava le mie lacrime. Controllai in fretta il resto della casa, avanzando piano in punta di piedi, sussultando alla minima ombra, ma mi costrinsi a entrare in ogni stanza. Tornai riluttante nella camera principale. Pulita, ordinata, dal mobilio scuro e il copriletto damascato. Ricordavo benissimo cosa si nascondeva dietro alla testiera così mi avvicinai, trovai le foto nel sacchetto e le misi in borsa. Mi sforzai di guardare la camicia insanguinata sul corpo steso a terra.

Devo andarmene e chiamare la polizia. Non ci sarà Léon. Ma devo farlo lo stesso. Va’. Telefona.

Invece mi inginocchiai sul duro pavimento in legno che Léon aveva divelto. Da vicino il viso di Bertin era molle e affatto minaccioso, gli occhi chiusi, macchioline di sangue che brillavano sui baffi.

Brillavano? Non si erano rapprese?

Era appena successo. Vattene. Vattene subito. Corri.

Sentii un rumore dietro di me. Mi voltai di scatto ancora in ginocchio e mi ritrovai faccia a faccia con l’estremità sbagliata di una pistola.

«Eloïse! Merde! Stavo quasi per spararti.»

Sollevai lo sguardo. Il viso di mia madre mi fissava.

«Isaac!» Si era nascosto dietro alla porta. Balzai in piedi. «Isaac, cosa ci fai qui?» Le parole mi si fermarono in gola quando mi resi conto della pistola che stringeva in pugno. Del sangue sulle sue dita. La macchia scarlatta sul davanti della camicia. Gli afferrai il braccio con forza. «Cos’hai fatto?»

Gli occhi sgranati di mio fratello si annebbiarono per via del panico. «No, Eloïse, no, no. Non sono stato io.»

Aprì le dita e lasciò andare la pistola come se gli bruciasse la pelle. Cadde a terra con un clangore e balzammo entrambi all’indietro. Fissai il metallo azzurrato. Conoscevo quell’arma, un revolver Smith & Wesson, Chief’s Special. Piccolo, compatto, con tamburo da cinque colpi, di fattura americana. Il mio cervello memorizzò questi fatti. Come se fossero più importanti dell’uomo che giaceva morto ai miei piedi con un buco sul petto. Quel fatto venne messo da parte, sospinto in un luogo oscuro della mente. Un luogo che non volevo toccare.

«Cosa cavolo ti è successo in faccia?» chiese Isaac.

Mi voltai di nuovo verso di lui, improvvisamente arrabbiata. Non sapevo se ce l’avevo con mio fratello o con l’uomo sul pavimento. «Cosa cavolo hai fatto alle mani?»

Fissammo entrambi il sangue che le ricopriva. Era spalmato sui palmi in una ragnatela di rigagnoli scarlatti, ma come ci si sporca le mani di sangue se si spara a qualcuno? Non è possibile. A meno che non si tocchi la persona. Per controllare se è morta.

«Cos’è successo qui, Isaac?»

«Non gli ho sparato. Lo giuro, Eloïse.» Allontanò le mani dal proprio corpo come se non sopportasse di averle vicine. Scuoteva la testa, negandone l’esistenza.

Dovevo portarlo fuori da quella stanza. Gli afferrai il braccio e lo spinsi fuori dalla porta. Il bagno era in fondo al pianerottolo e lo feci entrare, aprii i rubinetti e gli infilai le mani sotto al getto d’acqua. Il lavello si tinse di rosa.

«Dimmi perché sei qui» dissi. «Dobbiamo fare in fretta. La polizia starà per arrivare.»

Vedevo il suo viso riflesso sullo specchio, bianco come le piastrelle alla parete, le labbra che gli tremavano. Accostai il mio corpo al suo per offrirgli conforto.

«Ti prego, Isaac.»

Lui tenne lo sguardo abbassato, le sue pallide ciglia che tenevano il mondo alla larga, me compresa. «Mi hanno dato istruzioni di venire qui» disse. «Di venire in questa casa. Mi hanno detto che avrei trovato la porta aperta e che dovevo andare di sopra per aspettare un messaggio di qualcuno.» Il suo sguardo puntò brevemente su di me attraverso lo specchio. «Non sei tu, vero?»

«No, Isaac. Non sono io.»

«Sono arrivato e ho trovato…» Gli mancarono le parole.

«C’era qualcun altro qui?»

«No. Ho messo una mano sul petto dell’uomo per vedere se respirava ma…» Scosse la testa.

«Sai chi è?»

«No.»

«Poi cos’è successo?»

«Ho sentito il portone che si apriva. Ho preso la pistola perché pensavo che fosse…»

Chiusi il rubinetto. «Pensavi che fosse l’assassino che tornava? Per te?»

Annuì con uno scatto terrorizzato della testa. Sollevai la gonna blu a ruota e gli asciugai le mani con il risvolto. Non volevo che lasciasse tracce sull’asciugamano.

«Quindi non hai visto nessuno?»

«No.»

Asciugai i rubinetti e il lavandino con la gonna. «Dimmi chi ti ha detto di venire qui.»

Mi guardò per la prima volta, i suoi occhi azzurri scuri per la confusione. «Non posso.»

«Isaac,» alzai la voce «non è il momento di fare il misterioso sulle tue affiliazioni comuniste. Ti hanno incastrato. Qualcuno vuole farti accusare per omicidio. Non lo capisci? La polizia arriverà a breve. Devi uscire di qui. Ma prima» gli abbottonai la giacca per nascondere la chiazza di sangue sulla camicia «dimmi chi ti ha mandato qui.»

«Non posso.» Stavo per obiettare ma lui si ritrasse. Lo shock iniziale stava scomparendo. Si stava riprendendo, aveva le gambe meno molli, la bocca più stabile. «Non posso dirtelo, Eloïse, perché non lo so. Il leader del nostro gruppo d’azione all’interno del Parti Communiste Français contatta il nostro sovrintendente per telefono. Non sappiamo chi sia. Così è più sicuro.»

«Quindi stai ai comandi di qualcuno che non conosci.»

«Non è una cosa così stupida come la fai sembrare.»

«Ah no?»

Non era il momento per parlarne. Lo feci uscire dal bagno. «Scappa» dissi con insistenza.

Lui sbatté le palpebre. Si stava rendendo conto dell’accaduto. «Eloïse, devi venire via con me. Subito.»

«Va’, Isaac, va’. Dopo quello che è successo alla base aerea la polizia non vedrà l’ora di mostrare agli americani come trattano i comunisti violenti.»

Di punto in bianco mi cinse le spalle con un braccio. «Grazie.» Mi baciò la guancia. «Vieni anche tu.»

«Prima devo sistemare la pistola.»

Se n’era scordato. C’erano le sue impronte digitali sull’arma.

«Adesso va’» lo incalzai. «Ti seguirò.» Lo spinsi verso le scale. «Te lo prometto.»

Con un ultimo sguardo carico di tensione mio fratello scese di corsa le scale e uscì dal portone. Io sollevai la gonna, presi la sottogonna, la bagnai e la passai su ogni superficie che io o mio fratello potevamo aver toccato, inclusa la pistola. Quando finii tornai da Bertin. Non mi dispiaceva. Non riuscivo a desiderare che tornasse in vita. La fossetta era come il marchio di Caino sul suo mento. Ma adesso non aveva più alcun potere su di me.

Chi era stato?

Corsi giù dalle scale e uscii sulla strada, le orecchie tese per sentire il suono degli stivali dei poliziotti. Alla fine, quando svoltai l’angolo, sentii il rombo di un’auto alle mie spalle. Eravamo usciti da quella casa appena in tempo. Mentre percorrevo le vecchie strade di Arles per tornare alla mia macchina pensai alla pistola che avevo lasciato sul pavimento della casa. Odiavo il pensiero di quello che aveva fatto. Odiavo la mano che l’aveva impugnata. Quando ho detto che conoscevo quell’arma, il revolver Smith & Wesson, non volevo dire che ne conoscevo la marca. Volevo dire che l’avevo riconosciuta. Proprio quell’arma. La conoscevo perché l’ultima volta l’avevo vista nel cassetto della scrivania del sindaco Durand.