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Léon Roussel

Léon chiuse la porta risoluto, felice di vedere il maggiore Dirke di schiena. Voleva che nessuno ficcasse il naso in questa nuova scoperta. In città correvano già troppe voci e di sicuro non voleva se ne spargesse un’altra su altre teorie cospiratorie. La valigia in pelle era appoggiata sulla sua scrivania. L’aveva ispezionata minuziosamente in cerca di etichette che potessero dire a chi appartenesse, ma era stato rimosso tutto tranne il marchio della ditta produttrice o del negozio in cui era stata acquistata. Era una valigia di buona qualità. Abbastanza nuova. Conteneva solo la ricetrasmittente – una Motorola – e la bandiera dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’ussr.

Eloïse l’aveva spiegata e appoggiata sulla scrivania perché potessero esaminarla, ma Léon l’aveva rimossa. Non la tollerava lì. Quel rettangolo di un rosso brutale con tanto di martello dorato, falce e stella aveva troppo sangue intrecciato nelle fibre perché lui volesse toccarla.

Per nasconderla alla vista Eloïse l’aveva ripiegata e rimessa nella valigia, richiudendola con un rumore sordo.

«Meglio?» disse, e si appollaiò sulla sedia di fronte alla scrivania di Léon.

Lui annuì. Era brava nell’individuare i suoi punti deboli, oltre che a farli sembrare perfettamente sensati. Quello che non le riusciva bene era mentirgli. All’inizio il maggiore Joel Dirke era entrato assieme a lei, poi però se n’era andato dopo aver rilasciato la sua dichiarazione e dopo che Eloïse lo aveva rassicurato dicendogli che non aveva bisogno di essere scortata fino a casa visto che aveva preso la sua macchina per andare in città. Léon aveva notato la riluttanza dell’americano nel lasciarla, il modo in cui le aveva posato una mano sulla spalla. Il suo sguardo preoccupato.

«Grazie per il suo aiuto, maggiore» aveva detto Léon in modo spiccio, poi aveva aperto la porta dell’ufficio e l’aveva quasi spinto fuori. A volte se ne hanno le tasche piene degli americani. La squadra investigativa dell’USAF, che non stava facendo progressi circa l’omicidio di Mickey Ashton, era stata una spina nel fianco di Léon per tutto il pomeriggio, e comunque aveva bisogno di parlare con Eloïse a quattr’occhi.

«Stai bene?» le chiese. Non sembrava in gran forma.

«Certo. Sto bene.»

Aveva gli occhi sgranati, troppo sgranati, la pelle vellutata di una delle guance era ricoperta di terra. I capelli e i vestiti emanavano un odore acre, nei punti in cui il fuoco l’aveva marchiata ancora una volta. Ma non era finita lì. C’era dell’altro. Léon si sporse in avanti appoggiando i gomiti sulla scrivania, così avrebbe potuto provare a capire cosa le avesse fatto scuotere per un attimo la testa come se stesse cercando di far uscire qualcosa dalla mente.

«Eloïse, questa settimana ho ricevuto rapporti su strani movimenti nelle paludi. Più veicoli del solito. Ho fatto un giro ma non ho trovato niente a parte tracce di pneumatici sui sentieri, molte più di quante mi aspettassi.»

Eloïse lo studiò intensamente con i suoi occhi scuri. Passò la lingua sulle labbra secche ma non fece alcun commento. Attese che Léon le dicesse altro.

«Quello che hai trovato oggi è una prova importante.»

«Una prova di cosa?»

«Supporta la mia teoria su quello che credo stia succedendo. A quanto pare c’è un gruppo di persone che si incontra da qualche parte dove non possono essere disturbati. Per architettare qualcosa. Secondo me possono benissimo essere dei comunisti che stanno preparando una mossa di qualche tipo, come hanno programmato la marcia di protesta a Serriac. La bandiera prova che c’entrano i comunisti.»

«Perché cavolo si portano appresso una bandiera se dev’essere una cosa segreta?»

«Oh, è più forte di loro. Il simbolismo. Il campo di sangue. La falce e il martello per i contadini e gli operai. I lavoratori uniti. Che distruggono l’odiato oppressore. Appendono la bandiera ai loro incontri proprio come tuo padre appende le coccarde del suo toro migliore. Gli ricorda il motivo per cui sono lì.»

Lei balzò in piedi, facendo sfregare la sedia contro il pavimento e cogliendo Léon di sorpresa. Camminò avanti e indietro nel piccolo ufficio, poi si rimise a sedere con un sibilo.

«Credi si tratti di una cellula comunista?» chiese.

«È molto probabile, sì.»

«E la ricetrasmittente?»

«Per comunicare con gli altri membri. Altre cellule e sezioni.»

Eloïse rimase seduta, rigida e a disagio, la cicatrice bianchissima. «Isaac» sussurrò.

«È probabile che sia coinvolto, sì. Conosce molto bene la zona.»

«Credi che si riunissero nel cottage che è stato bruciato?»

Léon si appoggiò allo schienale e aprì l’armadietto dietro alla scrivania. Ne estrasse una bottiglia aperta di vino e due bicchieri. Senza una parola versò il corposo bordeaux e le posò di fronte un bicchiere.

«Eloïse, è arrivato il momento della verità. Dimmi perché hai mentito nella dichiarazione. Perché hai mentito agli americani.»

Lei abbassò lo sguardo, le ciglia nere che escludevano Léon, così lui sorseggiò il suo vino per nascondere l’impazienza e lasciarla pensare. Qualunque cosa ti abbia spaventata devi dirmela. Non lo sai? Lascia che ti aiuti. Ricordi? Ma rimase seduto in silenzio mentre lei cominciava a ricordare.

Quando sollevò di nuovo lo sguardo qualcosa era cambiato in lei. Curvò le labbra carnose in una sorta di sorriso. «Sei troppo intelligente, Léon.»

Lui sollevò il bicchiere verso Eloïse. «All’intelligenza.»

Lei fece altrettanto e bevve quasi metà bicchiere. «Alla sopravvivenza.»

«Chi c’era in sella a quella moto? Hai detto di non averlo riconosciuto ma non è così, vero?»

«Esatto.»

«Chi era?»

«Un uomo di nome Maurice Piquet.»

Léon si accigliò, scandagliando la sua prodigiosa memoria in cerca di nomi. Non gli sovvenne niente.

«È l’amichetto di Gilles Bertin» spiegò lei. «Un altro agente russo. Gli piace giocare sporco. Era all’interno del capanno nel giardino.»

Lo disse con calma, come se stesse spiegando di che colore fossero i suoi occhi. Non menzionò il fatto che credeva fosse lì per ucciderla ma si portò una mano alla fronte quasi a voler schivare una pallottola. Léon si alzò per fare in modo che la scrivania non si frapponesse più tra loro. Andò alla finestra, perché se le si fosse avvicinato ancora di più si sarebbe ritrovato a toglierle la pagliuzza carbonizzata che le si era infilata tra i capelli o a strofinare la chiazza di fuliggine sul collo.

«Lo faremo insieme, Eloïse. Dimmi come fai a conoscere Maurice Piquet.»

Gli raccontò tutto con frasi concise. Fino alla fine.

L’ospedale a Parigi. Quando Piquet stava quasi per lacerarle la guancia. L’aver visto la sua testa ispida in una fotografia del giorno della manifestazione. Il fatto che fosse la spalla di Bertin e il modo in cui si era lanciato contro di lei alle paludi. Il suo sguardo da assassino prima che scappasse a gambe levate sulla sua moto, conscio della presenza del militare americano nel cottage in fiamme.

Léon ascoltò con una morsa allo stomaco. Eloïse aveva sfiorato la morte. Prima sulla strada accanto a Mickey Ashton, poi nell’incendio con quell’ufficiale troppo impegnato a interpretare la parte dell’intrepido eroe per prendersi cura di lei. Quando finì il racconto lui si aggrappò alla finestra con una mano sul chiavistello come se avesse in mente di aprirla. Invece era solo per non correre da lei a scuoterla, per non costringerla a entrare in macchina in quel preciso istante e portarla a Parigi senza mai fermarsi.

«Eloïse, te lo chiedo di nuovo. Per favore torna a Parigi. Qui non sei al sicuro.»

«La domanda è» disse lei fissando una striscia di fuliggine sulla mano «perché un agente dell’MGB che lavora per la Russia sovietica sceglie di bruciare un luogo di ritrovo comunista? Di sicuro cooperano tra loro.»

«Eloïse, mi ascolti?»

«Perché incendiarlo?»

«Il partito comunista francese è composto da diverse fazioni che si scontrano di continuo.»

«Oppure hanno disobbedito agli ordini di Gilles Bertin?»

«Adesso possiamo parlare di te?»

«Non ce n’è bisogno» gli disse a bassa voce. Scosse la testa ma con un lieve sorriso che lo fece avvicinare. «Lo sai che non torno a Parigi.»

La stanza sembrò dissolversi finché non rimase solo lei, e Léon percepiva il gusto del pericolo che la avvolgeva, come sabbia tra i denti. Fuori dall’ufficio si sentì il rumore degli stivali di un poliziotto e poi qualcuno che bussava alla porta.

«Non adesso» gridò lui brusco, ma quella ruvidezza aveva a che fare con lei, non con l’uomo all’altro lato della porta.

«Sei impegnato» gli disse lei alzandosi. Stava per andarsene ma lui raggiunse la porta per primo.

«Hai detto che la tua amica di Parigi è qui.»

«Sì, Clarisse Favre.»

Gli occhi svelti di Eloïse gli scandagliarono il volto nei minimi particolari. Lui allungò una mano e alla fine le sfilò dai capelli la pagliuzza incenerita. Si concesse di far scivolare le dita per tutta la loro lunghezza e li sentì impolverati ma spessi e caldi.

«Rimani a Mas Caussade. Io vado a cercare Maurice Piquet. Rimani a casa con André.» Le rivolse un sorriso ironico. «Voi due insieme dovreste cavarvela alla grande.»

Lei annuì. Per la prima volta Léon vide che le tremava la mano mentre apriva la porta e non sapeva se fosse per via della paura o della rabbia, ma la strinse a sé così forte da riuscire a delineare ogni anello della spina dorsale e a sentirne il seno morbido addossato al suo petto. Il corpo di Eloïse si incastrava perfettamente al suo, si fondeva nelle sue ossa, e Léon sentì il respiro di lei, rapido e caldo. L’odore del fumo tra i capelli gli inondò i sensi.

«Se devi allontanarti dalla fattoria voglio che telefoni alla tua amica, Clarisse Favre, e che ti faccia accompagnare. Hai ancora la pistola?»

Eloïse annuì. «Sì.»

Le cinse la vita sottile con il braccio e lei si appoggiò al muro, trascinandolo con sé. La baciò con foga e lei gli passò una mano dietro al collo, conficcandogli le unghie nella pelle, circondandolo con una gamba. Addossandolo a sé. Rimasero in quella posizione a lungo, intrecciati l’uno all’altra, vicinissimi, mentre l’orologio sulla scrivania scandiva i minuti finché il calore si affievolì e i loro respiri si fusero.

«Tuo padre dovrebbe essere orgoglioso di te» le mormorò tra i capelli.

Lei sbuffò per deriderlo.

«È vero» insisté. «Orgoglioso di tutti e tre i suoi figli, di te, di André e sì, anche di quella testa calda di Isaac. Vi state impegnando così tanto per cambiare il mondo. Non tutti allo stesso modo, ma ci mettete il cuore e l’anima.»

Lei sollevò la testa. «Grazie, Léon.» I suoi occhi scuri scintillavano. «Dirò a papà di tenerlo a mente.»

«Per favore terresti anche tu a mente quello che sto per dirti?»

Gli baciò il mento. «Mettimi alla prova.»

«Ricordati di non andare mai più a cavalcare con americani carini.»

Eloïse rise, un suono ricco che li avvolse entrambi, poi gli posò un dito sulle labbra per zittirlo. «Da adesso in poi sceglierò solo quelli brutti.»

Ma il pensiero di quanto avesse sfiorato la morte mentre si trovava in compagnia del maggiore Dirke nelle paludi lo travolse. Léon avvertì un moto di rabbia. La lasciò andare e andò verso il telefono che si trovava sulla scrivania. Le porse il ricevitore.

«Chiama Clarisse Favre.»