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Léon Roussel
Il viso di Eloïse.
Non ne aveva già passate tante? Léon voleva prenderlo tra le mani e baciarne ogni lacerazione, ogni livido e ogni graffio. Aveva sangue scuro alle narici, gli occhi cerchiati. Eppure sembrava non importarle e apparve disinvolta quando un paziente che passava di lì la fissò.
Gli sfiorò le labbra con le dita, quasi volesse fargli uscire le parole di bocca. «Dimmi» ripeté.
Lui le descrisse la perquisizione della casa di Gilles Bertin ad Arles, proprio come l’aveva scritta sul rapporto. La casa era in affitto, così aveva cercato il nome della proprietaria sul registro del paese e si era fatto consegnare una chiave dalla signora. Venerdì l’edificio era vuoto, così Léon e i suoi due agenti avevano passato al setaccio ogni credenza e ogni cassetto e altri possibili luoghi in cui potesse essere nascosto qualcosa.
«L’ho fatto anch’io» sussurrò lei.
«Cosa? Come hai fatto a entrare?»
Gli rivolse un mezzo sorriso. «Ho delle abilità nascoste. Non te l’ho detto perché sapevo che era illegale e non ho scoperto niente che potesse aiutarci.» Fece una pausa, gli prese il mento e lo scosse. «E tu?»
La immaginò trovare le foto che la ritraevano nascoste dietro la testiera del letto e come doveva essersi sentita quando le aveva sfogliate.
«Sì, credo di sì.»
«Hai trovato le foto? Le mie.»
Lui annuì e lei arrossì.
«E anche quelle degli aerei?» gli chiese.
«Sì.»
«Che altro?»
«Pistole e un fucile.»
Eloïse sgranò gli occhi e sollevò le sopracciglia incrostate. «Dove? Ho cercato ma non li ho trovati.»
«Erano sotto le assi del pavimento.»
Le sfuggì un gridolino di gioia. Un giovane pilota di bell’aspetto e i capelli rasati che si trovava sul letto accanto con la gamba ingessata la guardò ma tornò quasi subito alla sua rivista «Life.»
«Hai preso le armi?»
«Certo. Adesso stiamo cercando Bertin.»
Lei si appoggiò allo schienale. Sembrava minuta in quell’enorme e anonimo reparto, ma c’era qualcosa in lei che riempiva lo spazio, qualcosa che assomigliava alle bombe nucleari alla base. Qualcosa di inarrestabile. Eloïse abbassò lo sguardo e gli diede un colpetto con la mano sul polso.
«Smettila di tormentarmi» disse.
Ma lui esitò un momento di troppo. Erano affari della polizia. Non avrebbe dovuto dirle niente.
«Ho trovato un piccolo diario. Sotto al linoleum in bagno.»
«Sei molto scrupoloso.»
«Fa parte del mio lavoro.» Ma esitò ancora una volta.
«Andiamo, Léon» gli sussurrò guardandolo di sbieco come faceva quando era sicura che Léon non sapeva come avrebbe reagito di fronte a qualcosa. «Dimmelo.»
«Nel diario c’era un elenco dei tuoi spostamenti giornalieri, quello che fai e dove vai.»
Rimase sorpreso quando la vide scrollare le spalle. «Mi sono abituata all’idea di essere spiata. Non so perché. Gilles Bertin sembra» arrossì di nuovo «ossessionato.»
«Forse. O forse riferisce tutto a qualcuno.»
Questa volta sentì le dita di Eloïse tremare anche se la sua espressione rimase immutata.
Lei rifletté per un momento e poi puntualizzò: «Ma tutto questo non ci aiuta». Si avvicinò, la voce un mero sussurro. «Quindi devi aver trovato qualcos’altro.»
Léon era sempre più preoccupato per l’incolumità di Eloïse. «Spero tu sia venuta qui con Clarisse e non da sola» le disse. «Dov’è?»
«Fuori, in macchina.» Sventolò una mano con noncuranza. «Che altro c’è?»
«Una foto di due uomini che bevono in un bar da qualche parte, ridono come se si conoscessero bene.»
«Chi sono?»
«Un uomo che da come me l’hai descritto credo sia Gilles Bertin. Baffi sottili e profonda fossetta sul mento.»
«E l’altro?»
«Il colonnello Frank Masson.»