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Léon Roussel

Léon non lasciò la presa sul braccio di Eloïse. Rimase accanto a lei, la stringeva, perché per qualche inspiegabile motivo si aggrappava alla convinzione che tenendo la mano ancorata al suo braccio lei sarebbe stata al riparo dai proiettili e dai coltelli che si infilavano tra le costole. Ovviamente era un’illusione, lo sapeva bene. Ma in quel momento non aveva altro.

«Che novità?» gli chiese lei in fretta.

Quel giorno gli occhi neri di Eloïse sprigionavano un fuoco che sembrava divorarla. Léon lo riconobbe all’istante. Anche lui si sentiva esattamente così quando lavorava a un caso e sapeva che la soluzione era a portata di mano. Un calore ti attanagliava il petto. Un fuoco imperituro. Era quello che vide riflesso negli occhi di lei e che gli fece venire voglia di trascinarla via da lì. Si guardò velocemente intorno nella sala rumorosa, controllando la situazione come avrebbe fatto con una strada chiassosa che si affollava di sabato sera. All’altro lato della stanza il colonnello Masson e il sindaco Durand fissavano ancora Eloïse.

Léon abbozzò un leggero sorriso a loro beneficio. «Cosa cavolo stai dicendo a Masson riguardo la fuga di notizie alla base aerea?»

Lei scosse la testa. «Dimmi, che notizie hai?»

«Stamattina sono tornato con un paio di uomini al cottage incendiato, a scavare un po’. Letteralmente.»

Era brava. Non mutò espressione, si lasciò sfuggire solo un leggerissimo sibilò. «Cos’hai scoperto?»

«Temo niente di piacevole, Eloïse.» Aveva pensato di non dirglielo, ma meritava di sapere. «Abbiamo scavato nel giardino e attorno al capanno e alla fine abbiamo portato alla luce qualcosa di interessante.»

«Cosa?»

«Un paio di corna di toro. Sono state strappate con crudeltà.»

Lei non batté ciglio. «Di Goliath?»

«Sembra probabile. Dovremmo dissotterrare la testa per esserne certi.»

Eloïse annuì. Il collo rigido. «Devi dirlo a papà.»

«Certo.»

Non menzionò il sangue rappreso sulle corna, segno che la povera creatura era ancora viva quando gli erano state tolte.

«Pensi che sia stata questa cellula comunista ad aver commesso il crimine?»

«Sembra di sì, ma ci servono delle prove. Riporterò Isaac in centrale per interrogarlo di nuovo.»

«Ma mi ha detto che la gente di Marsiglia non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare un toro.»

«Probabilmente è così.»

«Allora chi avrebbe avuto il fegato di entrare in un campo dove c’era un toro nero come Goliath?» Eloïse fece una pausa, e il cicaleccio ronzò nelle orecchie di entrambi. Léon voleva che ci arrivasse da sola.

«Isaac» sussurrò lei.

«È possibile. Ma anche qui non abbiamo ancora prove.»

«No, non ci credo. Non Isaac. Non lo farebbe mai. Ma sappiamo entrambi che molti contadini sono andati a lavorare nelle fabbriche e nei porti di Marsiglia per guadagnare di più, loro sì che avrebbero avuto l’esperienza giusta per affrontare un toro.»

«È possibile.»

«Hai trovato altro?»

«Tracce di pneumatici. Se riusciamo a rintracciare la moto di Piquet, se riusciamo a trovare una corrispondenza…»

«Troppi se. Potrebbe essere ovunque.»

Léon le strinse il braccio con maggiore forza. Vide che il sindaco li stava raggiungendo. «Sei stata tu a metterti in questa situazione,» le mormorò «come esca, in bella vista.»

La vide deglutire, il suo lungo collo filiforme che faticava come se le si fosse incastrato qualcosa in gola.

«Pensavo che sarebbe venuto anche Gilles Bertin ma non lo vedo» gli disse.

Léon pensò a quanto le fosse costato essere lì, nella speranza che Bertin si sarebbe fatto vedere. «No, Eloïse. Ho contattato il colonnello Masson e ho controllato ogni nome sulla lista. Non gli avrei mai permesso di avvicinarsi a te. O ad André, se è per questo.»

«Oggi Louis gioca a fare il cane da guardia. L’ho fatto sedere in fondo alle scale con il fucile da caccia di papà e gli ho detto di far saltare le cervella a chiunque si presenti alla porta.»

«Cristo santo, Eloïse, sai che è…»

Ma venne interrotto dal tono mellifluo del sindaco. «Capitano Roussel, mi sa che oggi siamo qui per divertirci» disse con una bonarietà che non rifletteva l’espressione che aveva in volto. Poi si rivolse a Eloïse. «Bonjour, Eloïse.»

«Bonjour, Monsieur le Maire» gli disse fredda, e si allontanò rigida per raggiungere suo padre.

Léon vide materializzarsi subito al suo fianco il bel maggiore con cui era andata a cavallo.

Maledizione. Cos’era quella storia?

Léon si sedette accanto alla preside, mademoiselle Madeleine Caron. Era una donna rigida sulla cinquantina di cui Léon ricordava fin troppo bene i tratti severi e le altrettanto severe lavate di capo, fin dai tempi della scuola. Indossava un cappello di feltro marrone posizionato a un preciso angolo sul capo e manteneva lo sguardo fisso sul colonnello. Léon ascoltava le chiacchiere del colonnello sulla necessità di stabilire lì la base di Dumoulin, ma ascoltava solo con un orecchio, a intermittenza. Era concentrato per lo più sui presenti. Erano stati riuniti tutti in una sala conferenze con sedute su più livelli e un podio per l’oratore e l’interprete. La stanza brulicava ed era carica di aspettativa.

Il colonnello Masson aveva accolto i visitatori e stava ripercorrendo la storia della base aerea di Dumoulin che si era sviluppata da un piccolo campo d’aviazione su un terreno erboso durante la guerra fino a diventare l’efficiente ingranaggio nella macchina militare che combatteva contro la minaccia sovietica. Gli Stati Uniti avevano già sborsato milioni di dollari nella base per costruire strutture ampie e capienti per i piloti e i velivoli dislocati lì. Ma le piste non erano abbastanza lunghe o sufficientemente rinforzate per accogliere i nuovi aerei più grandi e pesanti che sarebbero diventati operativi. Masson parlava bene. Usava il giusto tocco di arroganza militare e preoccupazione paternalistica. Faceva trasparire il suo orgoglio per la base e i suoi uomini.

Il colonnello indicò la prima fila con una mano. «Oggi abbiamo il piacere di ospitare in particolar modo Monsieur Aristide Caussade e sua figlia, in segno di ringraziamento per averci concesso di prendere possesso di un pezzo della sua terra, che ci permetterà di estendere la pista principale dai due chilometri ai tre richiesti per degli aerei più grandi. Merci, Monsieur Caussade.»

Diede il via a un’ondata di applausi imbarazzati. La gente non era sicura di volere tre chilometri di piste e di sicuro non voleva aerei più grandi. Léon notò che il sindaco andava sul sicuro, accennando un applauso ma niente di più, e la donna accanto a lui sbuffò contrariata. L’interesse si acuì quando il colonnello Masson cominciò a far scorrere delle diapositive che mostravano le strutture della base e dei diversi tipi di aerei sull’area di stazionamento. Le immagini sullo schermo esibivano quei lucidi miracoli della tecnologia e Léon non poteva negare il brivido d’emozione che avvertì nel vedere i rombanti velivoli in azione.

«Qui abbiamo il fondamentale aereo da attacco del comando aereo strategico, il Republic F-84 Thunderjet. Un cacciabombardiere a turbogetto equipaggiato con sei mitragliatrici M3 Browning oltre naturalmente a un notevole carico di bombe e missili.»

L’aereo comparve sullo schermo in una serie di scatti fino al decollo, in cui lasciava dietro di sé una nuvola di fumo nero.

«E adesso il Boeing B-50 Superfortress.»

Un enorme bombardiere a quattro motori si stagliò minaccioso sullo schermo e tra la folla si diffuse un brusio. Léon percepì un rapido movimento della preside seduta accanto a lui, che estrasse una macchina fotografica dalla borsa appoggiata a terra; ma prima che potesse portarla all’altezza degli occhi un giovane ed educato sergente la scostò scuotendo la testa con decisione.

«Bei bestioni, eh?» Il colonnello sorrise orgoglioso. «E non appena costruiremo le piste più grandi dislocheremo qui il nuovo B-47 Stratojet. Progettato dalla Boeing, con ali a freccia a trentacinque gradi per volare a maggiori altitudini e velocità…»

La voce del comandante continuò a riverberare nella sala ma l’attenzione di Léon era focalizzata sui volti che lo circondavano. Cercava ogni possibile punto critico. Un uomo imbronciato e i denti inferiori che addentavano i baffi, proibendo alle parole di fuoriuscire. Il direttore di banca nel suo completo gessato, la testa reclinata all’indietro fino al limite. Un paio di occhi socchiusi e furenti alla fine della fila successiva. Altrove notò teste che si scuotevano. E lì accanto un’espressione neutra se non fosse stato per l’incessante digrignare di denti.

«…sei turboreattori…»

La preside aveva infilato le mani sotto alle cosce quasi volesse trattenersi dal menar colpi.

«…missione principale è quella di fungere da bombardiere nucleare, in grado di colpire…»

Accanto a Léon, sull’altro lato, erano seduti cinque giovanotti entusiasti che gestivano la squadra di calcio locale. Bocche spalancate. Occhi che rilucevano. Pendevano dalle labbra del colonnello Masson.

«…altitudine di diecimila metri… pilastro della forza del bombardiere del comando aereo strategico…»

Léon non riusciva a vedere il viso di Eloïse anche se ci aveva provato. Era seduta in prima fila accanto al padre. Con Clarisse alla sua destra. In fondo alla sala c’era una falange di piloti americani che osservavano i visitatori francesi con un’attitudine che lui poteva descrivere solo come professionale ma condiscendente, come il detective affidato al caso dell’omicidio di Mickey Ashton. Léon era ben conscio che per gli americani i francesi erano inefficienti, maleducati e avevano ancora gabinetti pubblici che altro non erano se non buchi scavati nel terreno. Gli americani erano ossessionati dal sistema idraulico. Dal sistema idraulico e dalle armi. Erano maestri in entrambe le cose.

«E adesso il pezzo forte» annunciò il colonnello Masson prima di pigiare il bottone per passare alla diapositiva successiva. «Il nostro gigante dei cieli.»

Fece una pausa a effetto. Léon vide Eloïse che voltava la testa per dire qualcosa a Clarisse, che sorrise in risposta. Il profilo di Eloïse sembrava teso, e proprio mentre l’immagine di un aereo gigante comparve sullo schermo si passò una mano sulla cicatrice. L’uomo di fronte a Léon esultò immediatamente, seguito da qualche applauso.

«Signore e signori, vi presento il B-36 Peacemaker. Lo chiamiamo il nostro “fucile lungo” perché manterrà la pace per la Francia e per tutta l’Europa occidentale fino all’America.»

Altri applausi. Per Léon era dura guardare il Peacemaker e non sentirsi grato per la protezione che offriva. Riusciva a percepire le emozioni contrastanti che si rincorrevano nella stanza ma nessuno sembrava pronto a causare problemi. Non ancora.

«Costruito dalla Convair a San Diego, in California, il Peacemaker è il più grande aereo con motore a pistoni prodotto in serie mai costruito.»

La preside borbottò qualcosa in modo brusco, si portò le mani al petto e poi si voltò a fissare Léon, per vedere se se n’era accorto. A suo modo gli ricordava il colonnello, alta e autorevole, abituata a impartire ordini.

«…con un’apertura alare di settanta metri e quattro vani bombe in grado di sganciare…»

Era successo qualcosa. Eloïse si era messa a sedere eretta, le spalle rigide. Il collo teso. Cosa cavolo era successo mentre lui era concentrato su Madeleine Caron?

«…una quota di crociera fenomenale che lo rende imprendibile dalla maggior parte degli intercettatori nemici e dagli antiaerei…»

Léon controllò l’immagine sullo schermo. Cosa aveva innervosito Eloïse? Niente. Solo l’aereo. Controllò la stanza. Tutto in ordine.

«…con un raggio di sedicimila chilometri…»

Eloïse si voltò. Gli occhi sgranati che cercavano Léon. Lui la guardò con espressione come a chiederle “che succede” e lei si riprese subito, scosse la testa e si voltò di nuovo verso il colonnello.

«…può rimanere in volo per quaranta ore…»

Léon si alzò in piedi, si scusò e si diresse verso l’ultima fila muovendosi piano, passando rasente al muro. Uno dei piloti gli chiese gentilmente di rimanere al suo posto finché il colonnello non avesse finito.

Il colonnello Masson aveva quasi finito. «Ma queste sono solo fotografie. Non possono sostituire la realtà.» Sorrise al pubblico, poi sventolò una mano verso la porta. «Adesso vi faremo fare un giro all’esterno attorno alla base per mostrarvi gli edifici e soprattutto gli aerei da vicino. Sono sicuro che vi piacerà…»

Il sindaco Durand si alzò e attese finché tutti gli occhi non furono puntati su di lui, poi interruppe il colonnello. Si passò una mano sulla catena cerimoniale in oro, sfiorandone la testa di toro al centro.

«Colonnello Masson, parlo a nome di tutti gli abitanti di Serriac quando dico che sono le armi nucleari che custodite qui a preoccuparci parecchio.»

Seguì un mormorio ma il colonnello placò ogni possibile protesta con un energico segno di approvazione. «Ed è per questo, Monsieur le Maire, che come parte del tour vi porteremo agli igloo di cemento dove teniamo le bombe nucleari, così vi spiegheremo le misure di sicurezza adottate.» Tornò a sorridere. «Non preoccupatevi, le bombe non sono armate. Il processo avviene solo una volta che la bomba è a bordo dell’aereo. E adesso,» indicò la porta «prima del tour, vi dimostreremo la straordinaria potenza contro cui si scontra l’Unione Sovietica. Si dà il caso che uno dei potenti Convair B-36 americani oggi stia sorvolando la Francia, quindi siamo fortunati perché farà un giro per noi qui alla base aerea di Dumoulin. Signore e signori, ecco a voi il Peacemaker.»

Un pilota dell’USAF con addosso pantaloni della divisa così inamidati che a Léon sembrava potessero strapparsi se solo avesse piegato una gamba aprì prontamente la porta e dall’esterno giunse il rombo di un tuono ma più intenso, più duraturo e forte di qualsiasi tuono avessero mai sentito. Un potente boato che cresceva d’intensità. Per un attimo a Léon parve che stesse arrivando la fine del mondo.