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Léon Roussel
Léon Roussel si stava nascondendo in bella vista. Indossava un completo nero, stirato a dovere in segno di rispetto. Niente uniforme da poliziotto, non lì. Non quel giorno. Non voleva ricordare alle persone in lutto il vero motivo della sua presenza.
Doveva ammettere che Aristide Caussade aveva scelto un buon punto, anche se non doveva essere stato facile scavare una buca così profonda in quel terreno allagato. Sapeva che in quel luogo alla fine l’acqua aveva sempre e comunque la meglio, che si trattasse del fiume, o delle migliaia di canali, o di una delle étang, le lagune salate, o addirittura della cisterna che raccoglieva l’acqua piovana dal tetto. La settimana prima un abitante di Serriac era annegato nella gigantesca cisterna di casa sua, testa all’ingiù, nel tentativo di salvare il gatto che era rimasto intrappolato sul fondo. Il medico legale l’aveva classificata come morte accidentale.
Léon non ne era tanto sicuro. Il problema dell’acqua è che nasconde troppe tracce, le impronte digitali fluiscono via. Quindi se una moglie gettava un gatto in una cisterna per infilarci anche il marito richiudendo il coperchio con il lucchetto, chi mai lo avrebbe saputo? Soprattutto se la donna in questione è un colosso con muscoli possenti come uno dei tori dei Caussade. Perfino quando sei al sicuro nella tomba le acque della Camargue sono ancora in grado di venire a cercarti se le pompe di drenaggio si bloccano e il livello delle falde freatiche cresce a dismisura.
La tomba del toro si trovava all’ombra di un boschetto di pioppi nel campo sul retro della fattoria Caussade, dove le radici avrebbero trattenuto il terreno. Negli anni le instancabili dita del maestrale avevano allungato i rami degli alberi fino a piegarli, allo stesso modo in cui un fornaio lavora l’impasto. Il maestrale è il vento che dà forma al paesaggio della Camargue, ne crea le dune, modella le rive delle lagune e sferza le pianure. A volte Léon pensava che il maestrale avesse plasmato anche lui. Lo sentiva soffiare nel sangue negli orari più disparati, quando i venti spazzavano il terreno e lo sparpagliavano ovunque.
Le voci circa il funerale si erano sparse in fretta per tutta Serriac, e questo aveva giocato a favore di Léon. Ben oltre trecento persone a lutto si erano radunate attorno a quel grande squarcio nero nel terreno, e lo sorprendeva che così tante persone provenienti da tutta la regione fossero andate a porgere l’estremo saluto a un toro.
Un toro?
Perfino laggiù commemorare un simile animale con una cerimonia funebre era un evento raro, ma Goliath aveva spopolato da sempre. Léon guardò i volti che circondavano la tomba, in gran parte gardian dalle guance raggrinzite come le loro selle, ma molti erano solo entusiasti spettatori delle arene, incapaci di resistere al richiamo dell’ultima performance del loro beniamino. Rivolse un cenno del capo a quelli che conosceva, ma loro si dimostravano diffidenti. Era stato commesso un crimine e lui era un poliziotto, con o senza uniforme.
Aristide Caussade sembrava anch’egli un toro, in piedi davanti alla tomba nel suo completo da funerale e cravatta, i capelli bianchi scompigliati dal vento che assumevano la forma di corna. Léon ne percepiva il dolore come un’oscura tempesta incombente sul campo. Non era un uomo facile, ma lui lo aveva sempre rispettato. Quella fattoria era stata un luogo magico quando Léon era piccolo; badare ai tori con André era stato un modo affascinante e al contempo terrificante di trascorrere le estati per il figlio di un postino abituato a percorrere le stradine di campagna su una misera bicicletta.
Aveva imparato ad attraversare le paludi in groppa a un cavallo bianco, il vento che gli lacerava i polmoni, il pericolo che sfidava le sue ambizioni perfettamente organizzate, e gli aveva cambiato la vita. Perché aveva scoperto di saperci fare con il pericolo. Non si faceva prendere dal panico. Aveva scoperto un nuovo Léon Roussel e doveva ringraziare Aristide Caussade per questo, un uomo che nutriva così tanta passione per i suoi tori e i suoi cavalli da contagiare anche gli altri.
Lo stava facendo anche in quel momento, con una voce forte e sfrontata che avviluppava gli ascoltatori proprio come circondava i suoi tori. Stava raccontando aneddoti sulle imprese di Goliath nell’arena, intrattenendo coloro che erano andati lì a piangere la sua morte e che invece si ritrovarono a ridere. In molti ricordavano uno o due brevi scontri con il toro durante la settimanale course Provençal. Da spericolati razeteur avevano cercato di strappare i nastri dalle letali corna di Goliath. Il toro aveva mai ucciso qualcuno? Sì. In effetti la maggior parte dei presenti esibiva cicatrici in suo ricordo, incluso Léon.
Si spostò con discrezione tra la folla. Guardava visi, studiava sorrisi. Ascoltava. Ma non riusciva a cogliere nessun compiacimento per il disastro che aveva colpito i Caussade. Stranamente, in modo inaspettato, le persone cominciarono a cantare; dapprima piano, poi sempre più forte, un canto che raggiunse il limitare del campo. Era un’antica e famosa canzone popolare che i gardian erano soliti intonare attorno a un falò sotto le stelle, elogiando l’abilità e la velocità dei tori camarghesi in confronto ai più lenti e stupidi tori spagnoli. Era gente che viveva con i tori. Non avrebbero mai massacrato un campione.
Ma due uomini presenti alla cerimonia non facevano parte della comunità.
Forestieri. Forse pensavano che con i loro completi scuri si sarebbero confusi tra i presenti in lutto, ma si sbagliavano. Spiccavano come lupi bianchi in un nero recinto per tori. Léon si fece largo tra la folla finché non raggiunse il più alto dei due.
«Cerimonia interessante, non trova?» commentò Léon in inglese.
«Cavolo, sì. Mai visto niente del genere.»
«Siete venuti apposta dalla base aerea, vero?»
«Sì. È impressionante il rispetto che avete per gli animali da queste parti. Sono cresciuto in un ranch nel Texas e non ho mai visto una cosa simile. È straordinario, vero, Matt?»
«Già. Quel vecchio vicino alla tomba è davvero incredibile, eh?» disse quello che si chiamava Matt.
«Chi vi ha detto del funerale per il toro?» chiese con noncuranza Léon.
Risero. Ovvio. Per loro era solo uno spettacolo per turisti. O era quello che volevano fargli credere?
«Al campo abbiamo delle spie in gamba» disse Matt ridendo di nuovo. «Non gli sfugge niente.»
«Ci credo.»
«E nemmeno a noi» aggiunse l’altro americano.
Aveva gli occhi fissi su Eloïse.
Léon aveva cercato di non guardarla troppo. C’era qualcosa che non andava in lei, qualcosa di diverso rispetto a quando le aveva parlato al bar di Serriac quel pomeriggio. Era in piedi accanto al padre, troppo rigida e troppo nascosta sotto al nero cappello di feltro, la tesa abbassata sugli occhi, i capelli sciolti a nasconderle il volto. Sembrava uno degli animali della foresta che Léon aveva visto suo padre intagliare nel legno. Aveva dismesso gli abiti eleganti e indossava pantaloni da equitazione marroni e una semplice camicia nera, ma sembrava pronta a fuggire.
«Chi è quella ragazza?» chiese il più alto.
Ma in quel momento due caccia sfrecciarono in cielo, e i due americani sollevarono la testa interessati.
«Republic Thunderjet» disse quello alto.
«In perlustrazione.»
Léon si voltò e tornò tra la folla. Salutò Padre Jerome, che sembrava accaldato e a disagio nel suo lungo abito talare nero. Léon si chiedeva se fosse per via del sole o dell’evidente imbarazzo nel presenziare al funerale di un toro. Non c’era traccia del chiassoso gruppo di uomini di Serriac che di solito gironzolavano per i bar del paese in salopette di jeans con le mani ancora sporche di grasso per motori. Per dimostrare che loro sì lavoravano. Che erano quelli che istituivano le organizzazioni sindacali e si battevano per i diritti dei lavoratori, quelli che il governo temeva. Antiamericani convinti. Non indossavano piastrine del partito comunista, ma avrebbero benissimo potuto farlo. Se n’erano rimasti a casa.
Interessante.
Léon si aggirò furtivamente in fondo alla folla che adesso si era messa in fila per lasciar cadere ritagli di nastri colorati nella tomba aperta di Goliath, un simbolo per ricordare le coccarde che l’animale aveva sfoggiato con fierezza quand’era in vita. Léon non vedeva l’ora di parlare con André. Il suo amico. Ma non sembrava più tale. Quand’erano insieme parevano due estranei. André Caussade si era posizionato diligentemente a fianco del padre, e loro tre – padre, figlio e figlia – formavano un muro di solidarietà caussadiana, peccato che il suo amico si trovasse su una sedia a rotelle.
Quella vista fu uno shock. Nonostante il caldo André aveva posato una coperta sulle gambe immobilizzate, e quella fu la goccia finale. Una tristezza infinita era scritta sul volto di André, e Léon notò come le persone evitassero di guardarlo, per scansare lo spettro della sua disperazione.
Perfino per Léon era dura; gli riusciva difficile osservarlo senza provare un moto di pietà. Il suo amico di gioventù era ancora sepolto da qualche parte in quel corpo devastato? Non ne vedeva alcuna traccia. Né André né Eloïse sollevarono lo sguardo dal rettangolo di terra smossa o dal telo che ricopriva la carcassa devastata dell’animale mentre la gente passava loro davanti.
«André» mormorò Léon quando gli si avvicinò.
Fu di nuovo come cercare di parlare a un estraneo. A qualcuno che per puro caso si chiamava André anche lui. Gli occhi che si fissarono sui suoi erano ridotti a due fessure, pieni di sospetto, non recavano più traccia di quel bagliore ambrato che da ragazzo spronava Léon a superare se stesso. Adesso avevano il colore sbiadito del fango che ti ritrovi sulle suole degli stivali dopo la pioggia.
«André, non la passeranno liscia, te lo prometto.»
L’altro gli rivolse un mezzo sorriso tirato. Inspirò per dire qualcosa ma in quel momento le ombre e i raggi del sole nel campo vennero lacerati dal nitrito terrorizzato e acuto di un cavallo.
Un denso fumo grigio si sollevava in cielo. Fiamme avvolgevano i tetti in paglia della stalla, mentre le faville volteggiavano a spirale nel vento, depositandosi su capelli e vestiti. Grida e urla riverberarono nel cortile.
Da qualche parte qualcuno gridava: «Presto! Altra acqua, bastardi!».
Colpi di tosse. Zoccoli che si impennavano. Qualcuno urlò allarmato quando una trave del soffitto venne consumata dalle fiamme e crollò sulle persone al di sotto. Gli uomini afferrarono le briglie, ma il panico trasformò quegli animali domati in selvagge creature.
Il boato delle travi che bruciavano e il puzzo di crini inceneriti riempivano l’aria mentre le stalle diventavano un inferno. Léon stava cercando di impedire alle persone di lanciarsi nell’edificio in fiamme per salvare gli animali, ma era impossibile. Era gente che viveva a stretto contatto con i cavalli. Ce n’erano almeno una ventina lì dentro. Forse di più. Molti erano arrivati al funerale a cavallo.
Léon si adoperò per aiutare i gardian a salvare quanti più animali possibile. Tutti insieme, accecati dal fumo, scacciavano a mani nude i detriti ardenti che si appiccicavano ai manti bianchi e, anche se gli animali terrorizzati si impennavano e scalciavano e roteavano gli enormi occhi in preda al panico, riuscirono a condurli fuori verso un paddock, al salvo. Ma Léon non vide né Eloïse né Cosette nel paddock. Si lanciò ancora una volta tra le fiamme.
«Eloïse» urlò. Le travi gli crollavano intorno. «Eloïse!» Imprecò contro il fumo denso.
Una mano gli afferrò la manica. Si voltò di scatto ma il boato delle fiamme inghiottì ogni parola. Attraverso il muro di fumo distinse a fatica due forme grigie. Una era una persona piegata in due, la sagoma più grande apparteneva a un cavallo che incespicava e tremava, quasi in ginocchio. Erano entrambi ricoperti di sangue.
Li afferrò con forza e insieme si fecero largo per raggiungere la porta in fiamme.