24
Addossai la schiena al muro. Lo sentivo caldo contro le mie scapole. L’aria era spumeggiante, carica di energia. I nervi erano tesi. Guardai da vicino la manifestazione lungo la strada. I pensieri della massa. La mente della massa. Che si fortificava a ogni grido. I cartelloni con i loro messaggi di odio e le voci uniti dai loro slogan rabbiosi come cavalli in un giogo.
«Bastardi yankee! Via! Via! Via!»
«Niente testate nucleari qui! Niente testate nucleari qui!»
Scattai in velocità qualche foto della folla ma mi riusciva difficile staccare gli occhi da Léon in uniforme, efficiente nel suo lavoro. Si aggirava furtivamente ai margini della folla, osservava, individuava i fomentatori come se fossero erbacce infestanti. Isaac si era dileguato. E la folla si stava placando perché sui gradini del municipio il sindaco Durand si rivolse ai manifestanti con tono possente che si spandeva sulle loro teste mentre cercava di guidarli suadente lungo la strada della negoziazione e del dibattito.
Parlava bene, ma non mi fermai ad ascoltare. Avevo del lavoro da fare. Le nuvole grigie formavano una cappa sopra di noi, intrappolando la rabbia in città.
La porta sul retro del municipio era chiusa a chiave, ovvio. Ma eravamo a Serriac, non a Parigi, giusto? Quindi non era altro che una vecchia serratura d’ottone, un semplice marchingegno che pregava di essere scassinato. Avevano speso più soldi per il decorato batacchio in ottone con il suo fregio floreale che non per la serratura in sé.
Dal sacchetto nella borsa presi due attrezzi appuntiti a forma di L, ne inserii uno attraverso il catenaccio e l’altro lo usai per sollevare la leva. E voilà. Scivolò come un coltello nel burro. Lavoro terminato. Mi intrufolai nell’edificio, richiusi in fretta la porta alle mie spalle e diedi un’occhiata in giro. Mi trovavo in una specie di atrio retrostante in cui si affacciavano porte chiuse e un corridoio si allungava dritto davanti a me. C’erano alti soffitti e cornici decorate anche lì sul retro, oltre a un pavimento in chiaro e liscio legno di quercia che mio padre avrebbe adorato. Non feci rumore.
Tenni le orecchie ben tese.
Silenzio. Fatta eccezione per il sangue che mi pompava nelle vene. Non sentivo voci né alcun tipo di suono, perché erano tutti fuori ammassati sulla strada a guardare e ad ascoltare gli eventi che si svolgevano sulla soglia di casa.
Alle loro spalle si spalancava una porta vuota.
Stupido sindaco Durand.
Credevo fosse più sveglio. Non si era fermato a chiudere la porta del suo ufficio. Riuscivo a immaginarmi la scena. L’allarme improvviso, la pressione sanguigna che schizzava alle stelle, una reazione del tipo scappa o combatti. Era rimasto per combattere, inutile dirlo, perché quello era il suo lavoro e Durand era quel tipo di uomo. Ma doveva aver sentito le grida e i cori furiosi dei protestanti che si avvicinavano e aveva provato un’ondata di panico. Una porta lasciata aperta.
Mi infilai un paio di guanti di seta, la aprii e scivolai in fretta ancora una volta in quella bella stanza. Le alte finestre avevano le imposte accostate per tenere fuori il caldo e davano su un giardino di ghiaino sul retro dell’edificio. Quindi c’era poca luce, ma così sarei passata inosservata.
Mi mossi in fretta. Cominciai dalla scrivania nera. Aprii i cassetti, uno dopo l’altro, lavorai veloce, spulciai, setacciai e diedi una rapida scorsa a ogni oggetto. Scostai pacchetti di Gitanes, bloc-notes accuratamente accatastati, un righello di legno, un’agenda, una lista di numeri di telefono senza nomi né indicazioni su chi fossero quella persone, e un kit da barba. Una foto incorniciata della figlia Marianne, sorridente in groppa a un cavallo delle giostre.
Un raccoglitore in manila contenente delle lettere. Le sfogliai. Lettere di protesta contro la base aerea. Contro il rumore degli aerei. Contro quelle maledette bombe nucleari. Contro i piloti americani. Contro le recinzioni metalliche che rubavano le terre francesi. Contro i loro cani da guardia. Contro i danni provocati all’ambiente. Contro le luci notturne. Contro l’odore.
Quale odore?
Proteste contro altre proteste.
Era un raccoglitore molto spesso.
Lo rimisi a posto e tentai con l’ultimo cassetto, in fondo a destra. Era chiuso a chiave. Provai un brivido d’emozione. Aveva qualcosa da nascondere. Mi inginocchiai sul pavimento e forzai la serratura con un paio di attrezzi finché non cedette, ma rimasi delusa perché all’interno non c’era niente di più eccitante di una pistola. Dietro alla pistola c’era una piccola scatola di proiettili. Non mi soffermai, richiusi a chiave il cassetto e mi appoggiai ai talloni.
Il sindaco Durand nascondeva qualcosa, ne ero sicura.
Il rumore di passi che si affrettavano lungo il corridoio mi fecero scattare in piedi con il cuore in gola, ma superarono la porta e nel silenzio che seguì controllai l’agenda sulla scrivania. La sua segretaria aveva ragione. Era un uomo impegnato. Riunioni. Pranzi. Telefonate. Tutto programmato. Ma non c’era nulla che attrasse la mia attenzione. Lavorando per la Clarisse Favre Detective Agency a Parigi mi ero imbattuta in parecchi uomini che avevano segreti da nascondere e non mi sarei arresa con Durand.
«Pensa all’impossibile, Eloïse» mi aveva detto André nella sua stanza, le stampelle appoggiate sul pavimento tra noi. «Usa l’immaginazione. Pensa sempre un passo avanti.»
Un passo avanti.
Mi inginocchiai di nuovo e sbirciai il fondo della scrivania. Era nero, nascosto al buio, non veniva scrutato da nessuno. Ma io non ero una qualunque. Presi una piccola torcia dalla borsa, mi infilai sotto alla scrivania e accesi la pila. Controllai ogni centimetro di quella superficie liscia e scura sopra la mia testa, allungando il collo per…
Liscia?
Non in quel punto. Ci passai un dito e trovai una tacca piccola e tonda. La premetti.
Un click. Un leggero spostamento sopra di me.
Uscii a fatica, spensi la torcia e scoprii che una parte del tessuto decorativo a perline sul margine superiore della scrivania si era leggermente spostato in avanti. Lo strattonai. Scivolò verso di me per rivelare un cassetto nascosto poco profondo, largo quanto la fessura. Mi sfuggì un sorriso. Segreti, Monsieur le Maire? Un uomo come lei ha sempre dei segreti.
All’interno c’erano quattro grandi buste. E uno spesso fascio di dollari.
Posai le buste sulla superficie della scrivania, le aprii tutte ed estrassi i fogli che contenevano. Era come camminare su un campo minato e mi muovevo con attenzione, ma una mina mi esplose in viso. Tra le mani tenevo i dettagliati progetti della base aerea americana, con tanto di tunnel e camere sotterranee. E i silo nucleari.
Come aveva fatto Durand a mettere le mani su quel pezzo di dinamite?
Li dispiegai sulla scrivania e mi arrischiai ad accendere la lampada da tavolo. Estrassi dalla borsa la macchina fotografica: una 9 millimetri Minox che si teneva nel palmo di una mano. Poco più lunga di una sigaretta e poco più larga di una scatola di fiammiferi; era un geniale pezzo di tecnologia tedesca in una luccicante scatola di alluminio. Tirai l’estremità per allungare la fotocamera e scoprire le lenti e il mirino, poi mi misi al lavoro.
Premetti in fretta il pulsante per scattare, poi richiusi la macchina e la riaprii, pronta per il prossimo scatto. Semplice ed efficiente, era il massimo per fotografare documenti. La perfetta macchina fotografica da spia.
Non uscite di casa senza portarvene una appresso.
Dovetti sforzarmi per mantenere la mano ferma. Mi dedicai alle altre buste sempre con un occhio rivolto alla porta, le orecchie all’erta in caso avessi sentito dei passi nel corridoio. Una busta conteneva un documento bancario della Banque National pour le Commerce et l’Industrie, ma non avevo il tempo per leggerlo. Premetti il pulsante della macchina fotografica. Dalla busta successiva spuntò fuori una fotografia patinata di una bellissima ragazza nuda. Non la riconobbi, ma di sicuro non era sua moglie.
Sentii delle voci provenire dal corridoio. Un uomo e una donna che parlavano in modo concitato, il ticchettio dei tacchi che si avvicinava in fretta.
Afferrai alla svelta il contenuto dell’ultima busta: un ritaglio di giornale ingiallito dal tempo e morbido come una piuma tra le mie dita. Volevo fermarmi. Sedermi. Cullarlo tra le mani. Una foto della Prima guerra mondiale che ritraeva due ragazzi in uniforme, spalla contro spalla, rigidi. Quasi fossero in attesa di essere giustiziati. Il titolo recitava: ASSASSINI O EROI? 53 UOMINI MORTI.
L’uomo sulla sinistra era un giovane Padre Jerome. Quello sulla destra era mio padre.
Assassini o eroi? Quelle parole mi si conficcarono in testa.
Presi in mano la foto proprio nel momento in cui i tacchi alti si fermarono fuori dalla porta. Spensi la lampada, rimisi tre delle buste con i rispettivi contenuti nel cassetto segreto, la quarta la infilai in borsa mentre vedevo la maniglia che cominciava a ruotare. Attraversai la stanza di corsa verso il punto cieco dietro alla porta per nascondermi, ma all’ultimo momento la persona sull’altro lato mollò la presa e la voce del capitano Léon Roussel risuonò: «Vite! Chiamate Nîmes perché ci inviino altri rinforzi».
I passi risuonarono lungo il corridoio. Nell’edificio percepivo il gusto della paura.
La strada principale di Serriac era in subbuglio. Il solito, quieto senso del pudore e della disciplina era stato spazzato via da una folla fuori controllo. Prevaleva il caos. I manifestanti avevano perso il controllo. Rompevano finestre. Lanciavano pietre e contrastavano la polizia.
Qualunque cosa il sindaco Durand avesse detto loro nel suo discorso non era bastato a trattenerli e quando due caccia attraversarono il cielo quasi a deridere i dimostranti loro appiccarono il fuoco a una panchina in mezzo alla strada. Vennero ribaltate due auto e frantumate altre vetrine. Come se fosse colpa della città per le testate nucleari alle porte dei suoi abitanti.
La gente del posto contrattaccò. I tafferugli si diffondevano, le sedie dei café venivano usate come armi, e la rabbia mi travolse come un’ondata, infuocando un qualcosa di oscuro al mio interno che mi faceva venire voglia di reagire. Di difendere la mia patria. Di proteggere la mia gente. Qualcosa di tribale e sconvolgente. Aiutai una donna di mezza età con un taglio profondo in testa a rialzarsi e la feci entrare in un negozio per metterla in salvo, ma quando uscii sentii qualcuno che gridava il mio nome, sovrastando il baccano.
«Eloïse!»
Léon era in fondo alla strada accanto alla banca, al lavoro con altri cinque ufficiali per circondare una sezione di folla. Sollevai una mano.
«Va’ a casa,» mi gridò «vattene di qui prima che…»
Ma non sentii il resto della frase. Fece spostare il suo gruppo di manifestanti, dissociandoli dal corpo della folla. Indebolendo sistematicamente la rabbia collettiva. Sembrava calmo mentre impartiva ordini, ma io volevo gridargli: «Sta’ attento».
E Isaac? Dov’era?
Cercai la sua zazzera bionda e mi arrampicai su una sedia appostata fuori da un negozio lasciata libera da un’anziana che poco prima ci stava sonnecchiando per poi scappare dentro. Nessuna traccia di Isaac. Ma lungo la strada vidi una cosa che mi fece gemere. Sei uomini in circolo. Uomini possenti, dai muscoli come quelli di scaricatori di porto, le teste sospinte in avanti a minacciare una figura solitaria al centro del circolo. Lupi contro un cinghiale. La figura non apparteneva a un rammollito, era pronta a difendersi con i pugni alzati, ma non aveva alcuna possibilità di cavarsela.
«No!» gridai, e mi gettai tra la folla, spintonando.
La figura solitaria era Mickey, il mio meccanico da Chicago.
Lo raggiunsi subito dopo che gli avevano sferrato il primo pugno. Aveva il labbro spaccato, il sangue gli colava sulla camicia bianca. Almeno aveva avuto l’accortezza di non indossare l’uniforme, ma trasudava americanità con quel suo taglio da militare e il suo dopobarba e il suo forte accento americano. Quel suo modo di dominare lo spazio. Si mescolava nelle antiche strade di Serriac come avrebbe fatto una giraffa.
«Lasciatelo in pace» dissi, e sventolai una mano nel cerchio per tenere i marsigliesi a bada.
Un uomo non colpisce una donna in pubblico, anche se il più massiccio, con i pugni simili a mannaie e i baffi neri e folti sembrava pronto a picchiarmi.
«Eloïse!» esclamò Mickey.
Cercò di spingermi dietro di lui ma io rimasi ferma al suo fianco. La bocca secca.
«Non ha fatto niente di male, non vi ha dato fastidio» dissi a quello con i baffi.
«È uno yankee del cazzo. Porta bombe nucleari in Francia. E tu dici che non ha fatto niente di male? Togliti di mezzo, stupida puttana.» Estrasse una corta barra di metallo da sotto la giacca e il cerchio si strinse.
La pistola sul fondo della mia borsa premeva per uscire.
«Scappa, Eloïse» gridò Mickey.
Una mano mi afferrò la spalla. Era uno dei lupi dietro di me, e io lo respinsi colpendolo al braccio, ma in quel momento un’enorme ondata di persone ci venne addosso, spingendoci e spintonandoci all’indietro nel tentativo di scappare da qualunque cosa stesse sopraggiungendo nella strada.
Fummo colpiti da un getto d’acqua ad alta pressione, che ci inzuppò e ci travolse. Alcuni caddero. Io mi strinsi forte a Mickey per tenere in piedi entrambi, ma quando un grande camion rosso si fece largo al centro della strada altre persone ci urtarono, spintonando e avanzando a fatica per scappare. La brigade des sapeurs-pompiers. Léon aveva chiamato in aiuto i vigili del fuoco.
Grida di protesta si levarono attorno a me e sentii che Mickey lanciava un grido lancinante. Mi si aggrappò al collo con una stretta ferrea e sentii il suo peso addossarsi al mio corpo.
«Mickey, usciamo di…»
Le parole si accavallarono l’una sull’altra. Mickey aveva lasciato la presa e stava lentamente scivolando a terra, le dita di una mano allargate che si aggrappavano al mio vestito inzuppato.
«Mickey.» La mia voce raschiò contro i denti.
Il pilota americano giaceva steso su un fianco sulla strada scivolosa, come se ne avesse avuto abbastanza di tutto quel trambusto e avesse deciso di dormire. Gli occhi chiusi, la bocca aperta. Mi inginocchiai con le mani che tremavano mentre gli accarezzavo la guancia bagnata.
La camicia bianca era ricoperta di sangue sulla schiena.
Penso a quel momento come a uno spartiacque. C’è il prima e c’è il dopo. In mezzo c’è quel momento, un muro sopra cui danzava la morte.
Mi sedetti nell’ufficio di Léon Roussel, consapevole del dolore sordo che mi pulsava dentro. Avevo rilasciato una dichiarazione che includeva gli scaricatori di porto. Avevo descritto il tizio con i baffi neri e la barra di metallo.
«Ma non hai visto niente?» mi incalzò Léon.
«No.»
«Nessuno che si fosse avvicinato troppo? Che può averlo accoltellato?»
«Eravamo tutti schiacciati. Tutti cadevano addosso a tutti per scappare dall’acqua.»
«Eloïse, hai visto qualcuno con un coltello?»
«No.»
«Sicura?»
«Sicura.»
Si alzò e venne a sedersi sul bordo anteriore della scrivania, poco distante da me. Se avessi allungato una mano avrei potuto toccargli la coscia. Volevo toccarlo per essere sicura che fosse vero. In quel momento avevo perso fiducia nella mia visione della realtà.
«Eloïse.» Aveva un tono gentile ma gli occhi che mi fissavano erano quelli di un poliziotto. «Hai un coltello?»
«No. Non ho un coltello. Mickey è stato ucciso con un coltello. Léon, non sono un’assassina.»
Sembrò trattenere il respiro e quando alla fine espirò sapevo che in qualche modo avevamo superato un confine.
«Allora guardiamo le alternative» disse con calma. «O è stato accoltellato da un aggressore qualunque solo perché era americano e la rabbia ha avuto la meglio.» Spuntò l’opzione da una delle dita. «Oppure…»
«Oppure è stato preso di mira per un altro motivo. Da qualcuno che vuole creare dissapori più gravi tra i piloti americani e la gente del posto.»
La mia voce mi scioccò. Era così ferma. Così controllata. Nella mia mente aleggiavano spesse ombre nere che premevano per uscire e dovetti sforzarmi di pensare chiaramente.
«Voglio che tu vada a casa, Eloïse. La prima volta che vedi morire un uomo una parte di te se ne va con lui.» Si sporse in avanti e mi passò piano una mano sui capelli bagnati. «Tornatene a casa dai tuoi cavalli.»
Mi concessi per un attimo di appoggiare la testa al palmo della sua mano. «Siamo in guerra,» dissi «ma i francesi non lo sanno.»
«Lasciamo le cose come stanno. Le agitazioni e il caos nelle fabbriche e sulle strade è già più di quanto riescano a sopportare. Ci vorrà più tempo di quanto ne abbiamo per riportare l’ordine.»
«Léon, Serriac è fortunata ad avere una persona come te che vigila su di lei.»
«Ah! Gli investigatori americani si fionderanno qui, si aggireranno per tutta la città come locuste per scovare l’aggressore. Anche loro sanno come badare a se stessi.»
Sentii il buio che sospingeva ai margini della mia mente. «Léon.» Un sussurro. «Léon, e se quel coltello avesse dovuto colpire me e non Mickey? Se in mezzo alla confusione la lama avesse colpito il bersaglio sbagliato?»
Si allontanò dalla scrivania e si inginocchiò di fronte alla mia sedia. «E se te ne tornassi a Parigi oggi stesso? Ti metto sul prossimo treno.»
Mi sporsi in avanti, chinai la testa sulla sua spalla e sentii le sue braccia cingermi la schiena. Mi strinse forte.