9

La fattoria era vuota. Le stanze buie. Le pareti e i pavimenti e le antiche porte non emettevano alcun suono, e mi sembrò che anche la casa fosse morta. Non si sentiva il ronzare delle mosche appesantite dal caldo o lo scricchiolio delle assi che si ritiravano al calare della temperatura. Accesi le luci e ispezionai ogni stanza.

Niente. Nessuno. Nemmeno il vecchio cane Juno accoccolato sul letto di mio padre. La casa era deserta, fatta eccezione per i ricordi. Erano lì, appesi a ogni trave, si allungavano dal tavolo alla sedia come ragnatele, mi sfioravano la pelle, mi si appiccicavano ai capelli.

Dov’era papà?

Fuori. Ecco dove l’avrei trovato. A camminare impettito nella sua terra, il fucile da caccia al braccio, i cani al seguito, in cerca di qualsiasi intruso potesse provare ad approfittarsi di una notte senza luna. Non avrei voluto essere una delle ombre che incrociavano il suo cammino. I suoi piedi conoscevano ogni zolla d’erba, ogni canale d’acqua, l’esatta posizione di ogni fossato e albero e steccato. Mio padre aveva in testa una sua personale mappa di ogni metro quadro della sua terra, eppure nemmeno lui poteva sapere cosa ci fosse lì fuori.

Ero preoccupata per lui.

Entrai nella camera di André. Era ancora nel fienile. Mi sentivo un’intrusa. Non era cambiato nulla nella stanza di mio fratello, ed esaminai i pochi armadietti. Scoprii un bell’orologio da polso nel cassetto del comodino, con un cinturino in pelle nera e un quadrante in oro stile art déco. Un Bulova. Un orologio americano che non avevo mai visto prima.

Mi chiesi chi fosse andato a trovare André laggiù nel suo nascondiglio mentre io mi aggiravo per Parigi ad aspettare all’infinito di avere sue notizie. Rovistai fra gli scaffali, e sotto una pila di riviste di aerei «Les Ailes» mi imbattei in una vecchia copia di Les Misérables uguale alla mia e, sotto al libro, in una Bibbia. Entrambi lisi. Toccarli mi risvegliò il ricordo dell’Île Saint-Louis a Parigi e il suono della voce pacata all’altro capo del telefono all’Hôtel d’Emilie che mi diceva di aspettare dov’ero.

Parla con me, André.

Come posso proteggerti se sono all’oscuro di tutto?

Guardai sotto al cuscino e non provai vergogna. Se non voleva darmi una mano perché lo aiutassi dovevo farlo da sola. Un libro di inni religiosi. Trovai un libro di inni religiosi infilato sotto alla bianca federa di cotone. Era un libro blu scuro dalla finitura dorata, gli angoli non più spigolosi per gli anni d’usura. Anni in cui era stato amato.

Da mio fratello?

Impossibile. André non aveva tempo per quella che definiva una superstizione primitiva. Eppure eccolo lì, a portata di mano nelle voragini oscure della notte, quando il dolore e la disperazione lo fagocitavano, privandolo dell’uomo che credeva di essere, tanto da rivolgersi a quel morbido innario in cerca di conforto.

Cominciò a tremarmi la mano quando pensai al suo dolore, e quel libricino blu mi si offuscò tra le dita. Lo rimisi dove l’avevo trovato e tornai dabbasso a prepararmi una densa zuppa di patate e cipolle dell’orto. Ci aggiunsi grandi spicchi d’aglio e una manciata di timo, e quando fu pronta ne portai una ciotola al fienile, il vapore che si avvolgeva a spirale nell’aria notturna.

Con mia sorpresa André accettò la zuppa. «Grazie, Eloïse. Sei gentile.»

Che compìto. Così compìto che mi si spezzò il cuore.

«Vai un po’ a riposarti in casa, André. Starò io qui con Goliath.» Lanciai un’occhiata a quell’ammasso scuro. L’aria era densa per l’odore di carne.

«Grazie per l’offerta, ma no. Rimango qui.»

La sua compostezza e la sua cocciutaggine mi provocarono una fitta di rabbia.

«Che senso ha?» chiesi. «Chiunque sia stato potrebbe tornare, lo sappiamo. È pericoloso e inutile startene qui seduto da solo tutta la notte.»

Aveva il viso al buio, ma vidi le sue spalle scattare in avanti. «Ti sei scordata cosa significano i tori per noi, Eloïse? Parigi ti ha fatto perdere la testa così velocemente?»

«Non lo capisci? Metterti in pericolo senza motivo non ha senso.»

«Sono le gambe che non mi funzionano più bene, non la testa.»

Non ne ero tanto sicura. «Allora me ne starò seduta qui anch’io.»

«No, Eloïse.» Adesso aveva un tono tagliente. «Non posso farti partecipare al gioco come quando eravamo piccoli. Lasciami solo. Va’ via.»

Va’ via. Dal fienile? O dalla fattoria? Non glielo chiesi. Conoscevo la risposta.

Me ne andai senza aggiungere altro, verso la notte dove l’aria era morbida come seta sulla mia pelle e trasportava il profumo salato delle paludi e il fastidioso ronzio delle zanzare. Lasciai mio fratello solo nel fienile. Con il suo fucile da caccia. Con il puzzo di morte a colmare ogni suo respiro.

Rimasi sveglia tutta la notte. Ora dopo ora. In ascolto per captare ogni minimo rumore, ogni leggero sospiro, aspettandomi di sentire uno sparo da un momento all’altro. Era una notte lunga e calda in modo soffocante. Rimasi stesa nuda sul letto, le gambe avviluppate tra le lenzuola, le braccia spalancate, e quando i pensieri divennero troppo pesanti da trattenere nella testa andai alla finestra e sbirciai fuori nell’oscurità. A vedere ombre nelle ombre, immaginando movimenti inesistenti. Avevo bisogno di fatti, non di fantasmi, così, nonostante l’avvertimento di Léon, decisi che il giorno dopo sarei andata in città.

Un’ora prima dell’alba sentii delle voci maschili all’esterno, bisbigli appena accennati, le parole troppo accavallate perché potessi distinguerle, ma riconobbi la voce di mio padre e di mio fratello, e sentii un’ondata di sollievo nel petto. Erano salvi. Entrambi salvi. Sotto di me in cucina le loro voci risuonarono per qualche minuto, poi udii dei rumori sulla scala. Suoni sconosciuti. Impiegai tanto a comprenderli, la mia mente era fiacca per lo sfinimento, ma erano suoni lenti, laboriosi, densi di fatica. Era mio fratello che trascinava il suo corpo martoriato lungo le scale. Cercai di non immaginarmelo, ma con scarsi risultati.

Indossai una veste leggera, rimasi accanto alla vecchia porta in quercia e non respirai. Riuscivo a sentire i suoi grugniti di dolore. Le imprecazioni sussurrate. Mi unii a lui, imprecazione per imprecazione. Alla fine raggiunse il pianerottolo e il ticchettio delle stampelle sulle assi di legno si avvicinò. Tonfo, strascicamento; tonfo, strascicamento; tonfo, strascicamento, finché non si fermò fuori dalla mia porta. Rimase lì in silenzio per una manciata di minuti, ci dividevano solo pochi centimetri, e quando non riuscii più a resistere spalancai la porta. Fu un errore. Forse ci si era appoggiato per riprendere le forze dopo la salita, perché incespicò verso la mia camera e sarebbe caduto se non l’avessi sorretto.

«Scusa» disse, imbarazzato. «Non volevo disturbarti.»

Continuai a tenerlo stretto mentre si rimetteva le stampelle sotto alle braccia. Per un attimo, mentre sorreggevo il suo peso e sentivo l’odore della fattoria sulla sua pelle, fu di nuovo mio fratello. Ero sua sorella. Lasciai che la mia guancia sfiorasse la sua, e solo per un secondo sentii il suo corpo afflosciarsi contro il mio, poi si raddrizzò, scivolando via dalla mia presa.

«André, chi è Piquet?»

Sgranò gli occhi e scostò le labbra, scoprendo i suoi denti bianchi e forti.

«È venuto in ospedale a Parigi» continuai. «Ti cercava. Sguardo gelido, sbruffone.»

Accennò quasi un sorriso. «Gli hai dato una bella lezione?»

«Ero tentata.»

Annuì. Guardò la mia cicatrice. «Non ti ha fatto del male?»

«No. Voleva, ma il suo compare l’ha fermato.»

La sua espressione si indurì. «L’hai visto qui intorno?»

«No.»

«Dimmelo se lo vedi. Non avvicinarti a lui.»

«Chi è?»

«Nessuno» rispose, poi si girò sulle stampelle diretto verso la sua camera.

Notai quanto gli si fossero rinforzati i muscoli delle braccia, sporgevano dalle maniche della camicia e compensavano il danno alle gambe. Lo lasciai andare e chiusi la porta, ma un dito gelido mi toccò la gola nell’oscurità. Piquet non era un signor nessuno. E poteva trovarsi nei paraggi.

L’indomani avrei messo un bel catenaccio alla porta.

«Mia Eloïse, ma chérie, sei tornata.»

La governante di mio padre, Mathilde, mi stampò un bacio sulle guance. Era una donna minuta sulla cinquantina, smilza e meticolosa come una delle nostre galline. Mi posò davanti sul tavolo della cucina una tazza di caffè, e sentii il familiare profumo dell’acqua di lavanda che si spruzzava sempre sui corti ricci ingrigiti. Accanto al caffè c’era una tartine che riluceva per via dello strato di marmellata di albicocche fatta in casa. Il calore di quella donna poteva sciogliere un iceberg. Indossava un grembiule di cotone lungo fino a terra, sgargiante grazie ai girasoli stampati sul tessuto, e aveva i capelli legati con una sciarpa gialla. Portava il sole negli angoli bui della casa e le diedi il set di saponette alla lavanda che le avevo comprato a Parigi. In effetti venivano fabbricate in una distilleria di lavanda ad Avignone, non distante da lì, ma sapevo che la raffinata scatola di Galeries Lafayette le sarebbe piaciuta.

Era stata una parte vitale della famiglia fin da quando era morta mia madre. Mio padre l’aveva assunta come governante, ma per noi era molto di più. Ci fasciava le ferite, ci faceva cantare la Marsigliese e soprattutto ci avvolgeva di un amore che non trovavamo da nessun’altra parte. Ma aveva anche lei la sua famiglia di quattro bei giovanotti a cui badare, quindi ogni giorno alle due il dovere di allevare i figli ricadeva sulle riluttanti spalle di nostro padre. Sarebbe stato diverso se fossimo stati tori o cavalli. Ma date le circostanze crescemmo selvaggi, pativamo la fame o lavoravamo nei campi finché non crollavamo.

«Non stiamo attraversando un bel periodo qui,» mormorò «sono contenta che tu sia venuta, Eloïse.» Mi diede un buffetto sulla guancia con la sua mano ruvida. «Povera piccola.»

«Sto bene.»

Annuì, pronta a crederci. «Hanno bisogno di te.»

«Dov’è André?»

«In camera sua.»

«Come sta?» chiesi.

«Hai paura che ce l’abbia con te?»

Annuii.

«Parla poco. Legge, montagne di libri su argomenti di cui non ho mai sentito parlare.» Fece una pausa e si asciugò vigorosamente le mani sul grembiule. «Quando non sta troppo male, ecco.»

«Viene a trovarlo qualcuno?»

«Qualche persona. Non spesso.»

«Chi sono?»

«Non lo so.» Fece un passo in avanti e mi prese dalle mani la tazza vuota di caffè. «Perché non vai di sopra e glielo chiedi di persona?»