18
Gli americani non ballano bene come i francesi. Lo imparai a mie spese.
Mi pestavano i piedi con poco garbo, come l’America che marciava sulla Francia. Ma lo facevano con sorrisi così ampi e risate così aperte che misi da parte la rabbia e la paura, e mi lasciai andare al divertimento. Si rivelarono un’inaspettata combinazione di battute audaci e mani rispettose, di frottole e confidenze segrete. E mi chiamavano “signora”: sì signora, no signora, vuole ballare, signora? Cosa che mi faceva venire voglia di baciarli. Non sembrava importargli niente nemmeno della cicatrice sul mio viso. Ma forse quando in una base ci sono centinaia di piloti statunitensi e solo una manciata di donne, alcune in uniforme e altre no, be’, che differenza fa una piccola cicatrice tra amici?
Bevvi birra, e di solito non l’avrei nemmeno toccata. Ma non c’era nulla di normale in tutto questo, giusto? Sembrava di addentare il futuro, un fugace assaggio di quello che stava per succedere. La serata nella sala ricreativa brulicava di vivaci sedie gialle dalle gambe cromate e lampade che sembravano più che altro missili spaziali, con la musica che pulsava e i ragazzi nella sala convinti di poter abbattere mondi e ricostruirli con le loro gomme da masticare, le loro barrette di cioccolata e le loro grandi macchine.
Quel pensiero mi provocò un fremito così forte da far oscillare la birra nel bicchiere che avevo in mano. Non sapevo se per l’emozione dovuta a quella marea di energia e all’ottimismo americano o per la paura di perdere tutto quello a cui tenevo nel mio amato paese. Sapevo che il primo ministro Laniel si sarebbe semplicemente arreso, concedendo agli americani di prendersi tutto quello che volevano nonostante lo scontento che questo provocava in Francia. André aveva ragione su questo punto. Avevamo bisogno di loro. Altrimenti a breve ci saremmo ritrovati a cantare l’inno sovietico davanti al caffè mattutino.
«Ti stai divertendo?»
Era Mickey, il mio premuroso meccanico di Chicago che quella sera mi aveva parlato della combustione interna di un motore, più di quanto credevo mi sarebbe servito sapere in una vita intera.
«Ci stiamo divertendo un sacco, vero, Eloïse?» rispose Marianne al mio posto.
La mia amica si strinse ancora di più al suo bel boscaiolo, Calvin, e mi rivolse un’occhiataccia nel caso volessi lamentarmi della Budweiser o del volume assordante della musica. Ma si sbagliava. Non mi dispiacevano affatto. L’unica cosa che mi disturbava era la doppia recinzione metallica che si frapponeva tra me e la punta della base aerea.
Ero andata a prendere Marianne al suo appartamento sopra al negozio di oggetti in vetro a Serriac, ed ero rimasta sconvolta dal suo abito aderente alla Marilyn Monroe.
«Da quando in qua?» le avevo chiesto.
«Da quando gli yankee sono venuti in città» mi aveva detto con un sorriso.
Avevo guidato fino alla base aerea con un occhio fisso sullo specchietto retrovisore. Mickey e Calvin ci avevano accolto al cancello nelle loro eleganti uniformi color kaki e due guardie armate fino ai denti avevano voluto vedere i pass. La base mi sembrava una fortezza di cemento con un doppio tratto di recinzione metallica e del filo spinato tutto attorno. Il tipo di posto in cui succedevano cose che era meglio non sapere. Ma io invece volevo così tanto conoscerle che fui felice di sorbirmi un’intera giornata a imparare come aggiustare un carburatore, se era quello che serviva.
Mickey doveva essersi accorto del mio sguardo perso, perché quando sentì che il jukebox suonava Hound Dog di Big Mama Thornton la sua forte mano da meccanico afferrò la mia e disse: «Andiamo, un altro jive?». Ma in corpo non mi erano più rimaste forze per il jive, né passi di danza o allegri saltelli. Avevo esaurito l’allegria.
Fu Calvin a venire in mio soccorso. «Dalle un po’ di respiro, Mickey. Le francesi sono più…» mi osservò per un momento, gli occhi marroni e risoluti come uno dei cani di mio padre. «…più raffinate delle ragazze americane. Devi dargli il tempo di respirare. Di pensare.» Mi sorrise. «Chiedile cos’ha voglia di fare.»
«Grazie, Calvin.»
«Prego, signora.»
«Allora cosa ti andrebbe di fare adesso? Un’altra birra?» chiese Mickey, continuando a stringermi la mano, mentre mi cingeva la vita con il braccio libero.
«Ho voglia di un po’ d’aria fresca. Fuori. Qui dentro fa caldissimo.»
Mi guardò raggiante. «Certo.»
All’esterno c’erano gli aerei. Ci avviammo verso la porta.
«Buonasera, mademoiselle Caussade» disse una voce alle mie spalle.
Mi voltai di scatto. Ero troppo nervosa. Calmati.
Mi ritrovai di fronte un ufficiale dell’aeronautica statunitense. Uniforme immacolata, mostrine notevoli e capelli scuri dalla precisa riga da una parte. Mi bastò uno sguardo per capire che era il tipo di uomo che avrei voluto a difesa del mio paese. Muscoloso, con occhi scuri e intelligenti che sapevano esattamente come porre ordine nel caos, e un portamento che ero certa inspirasse gli uomini a seguirlo. Immaginavo fosse sulla trentina, ma aveva un’aria più vissuta, come se avesse visto più cose di quanto un trentenne dovesse vedere.
Annuii cortese, ma il sospetto mi percorse la pelle come formiche in fila. Come faceva quell’estraneo a sapere come mi chiamavo?
«Sono il maggiore Dirke. Mi spiace molto interrompere la sua serata, ma poco fa l’ho vista passare davanti alla finestra del mio ufficio.»
Accanto a me Mickey si era messo sull’attenti.
«E anche lei» gli disse il maggiore. «Voglio solo scambiare due parole con mademoiselle Caussade.» Ammorbidì i lineamenti del viso rivolgendomi un sorriso. Aveva un bel sorriso. «Se posso?» disse.
«Certo, maggiore» risposi. «Fuori sarebbe meglio. È più tranquillo.»
Adesso dal jukebox si spandevano alte le note di Singin’ in the Rain, ma sfrecciai fuori di lì più in fretta di quanto fosse decoroso.
Percepivo la minaccia all’esterno. Dura e spigolosa. La sentivo nel gusto amaro che avevo in gola. Nemmeno la musica allegra proveniente dalla sala riusciva a togliermi quella sensazione, per quanto le sue note insistenti ci provassero. Quello era un luogo votato alla morte.
«Mi scuso per essermi intromesso nella sua serata di svago» disse il maggiore con un fascinoso e disinvolto accento del sud, dalle lunghe vocali vellutate.
«Non c’è problema. Mi fa piacere prendermi una pausa e respirare un po’ d’aria fresca.»
Peccato che l’aria non fosse fresca. Sapeva in egual misura di olio per motori, carburante per aerei e testosterone. Lì fuori non era propriamente buio. Le luci di sicurezza sparse in tutta la base tenevano a bada la notte, allo stesso modo in cui le armi al suo interno erano progettate per tenere a bada l’Unione sovietica. Una mezza luna color crema era sospesa nel cielo nero come un toro, proprio sopra alla pista principale, e le ombre si spostavano tra gli edifici ogni volta che la calda brezza notturna le sfiorava.
Mi voltai per guardare il maggiore Dirke.
«Cosa posso fare per lei, maggiore, e come fa a conoscermi?»
«Voglio parlarle di quello che è successo ieri.»
«Sono successe molte cose ieri. A cosa si riferisce?»
«Ero al funerale di Goliath alla fattoria di suo padre.»
Cercai di nascondere il mio stupore. «Non l’ho vista.»
«Non stava guardando.»
«Vero.»
«Era accanto a suo padre, poi è corsa tra le fiamme, e mi sono preoccupato. Quando stasera l’ho intravista passare davanti alla finestra del mio ufficio ho pensato di controllare che stesse bene.» Mi rivolse un altro sorriso disinvolto. «Sembra in gran forma.»
Indossavo una camicetta a maniche lunghe. Non si vedevano le vesciche.
«Grazie per l’interessamento, maggiore.» Lasciai che il silenzio aleggiasse per un momento nell’aria torrida mentre cercavo di capire cosa stava succedendo, e il mio sguardo vagò verso l’imponente canna del pesante cannone contraereo sulla sua piattaforma soprelevata, ai margini della pista più vicina. Ce n’erano altri disseminati nella semioscurità, simili a dita giganti che indicavano la via verso l’inferno. Era difficile non fissarli. Sul lato opposto c’era una grande area illuminata da fari con uomini vestiti di bianco impegnati in una partita.
«Baseball?» domandai.
Annuì con un sorriso. «Un accampamento americano non sarebbe un accampamento americano senza un campo da baseball.»
«Sul serio?»
«Può sembrare strano a una francese, ma non bisogna mai sottovalutare il potere del baseball, signorina Caussade.»
«La prego, mi dica perché è venuto al funerale di Goliath.»
Mi sembrava una cosa così strana.
Stavamo passeggiando lentamente lungo un viale in cemento ai margini della strada che scorreva di fronte alla fila di edifici ricreativi, e il maggior Dirke sembrava non voler arrivare al punto. Una guardia con un pastore tedesco al guinzaglio si profuse in un saluto militare mentre faceva la ronda.
«Mi sembrava doveroso» commentò infine il maggiore. «Visto che suo padre ha ceduto una grande porzione della sua terra per l’espansione della nostra base aerea. Volevo verificare di persona lo stato d’animo alla fattoria.»
Nella semioscurità riuscivo solo a distinguere l’area di stazionamento dov’erano allineati almeno una ventina di velivoli di diverse forme e dimensioni. Come strani animali in uno zoo. Volevo darci un’occhiata più da vicino ma una seconda rete metallica me lo impediva.
«Ha visto le reazioni» dissi. «Quanto la gente sia contraria all’espansione… alla base aerea in generale.» Sollevai lo sguardo verso il suo profilo in ombra. «Talmente contraria da appiccare il fuoco alle stalle di mio padre, da uccidere» aggiunsi a bassa voce.
La sua lunga falcata rallentò fino a fermarsi. «Signorina Caussade, sono stati necessari l’intervento del dipartimento affari esteri sotto la direzione dei capi di stato maggiore e anni di negoziazioni per arrivare a un accordo con il personale militare francese e costruire queste basi aeree. Per non parlare del finanziamento dell’intero progetto.»
«Il nostro paese sta contribuendo con due miliardi di franchi» puntualizzai.
«È bene informata.»
«In Francia dobbiamo essere tutti bene informati sull’argomento. Dislocare nuove truppe straniere sul territorio così, subito dopo la guerra, è come versare sale su una ferita aperta. Ci ricordiamo tutti la sensazione opprimente dell’autorità nazista.»
Annuì e scacciò una zanzara nell’umida aria notturna. «È per questo che ero in borghese al funerale del toro. Ma il nostro nuovo presidente, il generale Dwight Eisenhower, ha più esperienza e competenza militare di qualsiasi altro presidente fin dai tempi di Ulysses Grant. Comprende l’impatto che possono avere le truppe americane in un paese straniero e sta cercando di minimizzare il danno politico che al momento l’USAF e la settima armata stanno causando in Francia. Ma abbiamo un compito da svolgere, signorina Caussade. Ormai le forze russe potrebbero marciare dritte sulla Germania e sul vostro paese da un giorno all’altro, come un coltello che affonda nel burro. Manca tanto così alla guerra.»
Sollevò pollice e indice, vicinissimi.
«Tanto così. Siamo sul filo del rasoio. Quindi dica alla sua famiglia, ai suoi amici a Serriac e a tutte le teste calde comuniste che creano problemi nelle fabbriche, che hanno bisogno degli aerei americani che perlustrano i loro cieli, hanno bisogno delle nostre testate nucleari. È l’unica garanzia di pace. Per la Francia. Per il mondo occidentale.»
Volevo gettare le braccia attorno al rigido collo militare del maggiore per la gratitudine e scoppiare a piangere. Uomini come lui e André stavano rischiando la vita per la Francia, mentre tutti noi sorseggiavamo vin rouge e andavamo a ballare. Se guardavo la cosa da quella prospettiva anche uomini come Mickey e Calvin stavano mettendo a repentaglio la loro vita per noi. Non si stavano prendendo la terra di mio padre. Ci stavano donando la salvezza.
«La ringrazio a nome della mia famiglia, maggiore Dirke.»
Al buio vidi la sua espressione sorpresa. Forse quei piloti non erano abituati a ricevere ringraziamenti da parte dei francesi. Mi rivolse un lieve e formale cenno con il capo e sorrise. «Torni dal suo amico. La accompagno.»
«Non ce n’è bisogno. Posso benissimo trovare la strada da sola, grazie.»
Avevamo camminato in linea retta sotto a una luna splendente e alle luci di sicurezza militari. Era davvero improbabile che mi perdessi. Ma lui riprese a percorrere la strada da cui eravamo venuti.
«Questo sentiero a tratti è accidentato» disse. «Non vogliamo che si faccia male.»
Continuai a camminare. Non inciampai. Non feci alcun rumore.
Che si faccia male.
Era una minaccia?
Oppure quell’affascinante americano mi stava solo dimostrando una gentilezza d’altri tempi? Non riuscivo a capirlo. Il terreno sotto ai miei piedi era instabile e scricchiolava come il vetro di Marianne quando non lo soffiava nel modo corretto. Stranamente avvertii l’improvviso desiderio di avere Léon Roussel al mio fianco, a controllare il sentiero e il viso del maggiore Dirke. Le bugie non gli sfuggivano mai. Il suo orecchio da poliziotto era programmato contro gli inganni.
«Abbiamo dovuto sparare a due dei cavalli» gli dissi, ma non appena quelle parole mi uscirono di bocca intuii che non avrebbe compreso cosa significasse un cavallo per un camarghese.
«Mi spiace. Io e mio fratello siamo cresciuti in un ranch con dei mustang, quindi capisco come deve sentirsi. Ho barattato alcuni cavalli per dei bombardieri B-50, ma mi mancano.»
«La mia cavalla era…»
Il rumore sordo di un aereo riverberò nel cielo notturno. Sollevai lo sguardo e mentre si avvicinava vidi la sagoma spettrale di un bimotore. Le luci d’atterraggio mi accecarono per un secondo prima che scendesse di quota e atterrasse senza difficoltà. Mi stavo già abituando a quella forma tozza, perché simili velivoli attraversavano il cielo tutto il giorno. Il rumore che producevano assomigliava più a un ringhio sommesso che al sibilo acuto del motore a reazione dei caccia.
«Quello è il nostro cavallo da tiro» commentò il maggiore. «Un Douglas C-47 Skytrain. È il nostro aereo merci, e trasporta rifornimenti per…»
Non terminò la frase. Un’auto si era accostata a noi nella notte, i fari che creavano voragini gialle tra le ombre. Era una di quelle grandi e appariscenti berline americane dal tettuccio bianco e la carrozzeria verde, con quelli che sembravano scintillanti denti cromati sul davanti. Una Chevy. Perfino le loro auto ci facevano sentire piccoli. La portiera si aprì e ne scese l’autista in un completo nero.
Lo riconobbi, come riconoscevo l’odore di un reparto ospedaliero.
Era Gilles Bertin.
È importante conoscere i propri limiti. Andava oltre il mio limite stringere la mano a Gilles Bertin, l’uomo implicato nel truculento tentativo di uccidere mio fratello. Molto semplice.
Non ci provai nemmeno.
«Scusi, non posso» dissi quando mi porse la mano in segno di saluto. Lo stesso sguardo glaciale. Gli stessi baffi sottili. Lo stesso modo di guardare il mondo come se volesse plasmarlo. «Ieri mi sono bruciata le dita in un incendio» nascosi la mano dietro al fianco.
«Che brutta cosa, mi spiace.»
Gli dispiaceva davvero? Per quello che aveva fatto. Ci pensava mai? Era stato lui a ordinare che venisse appiccato il fuoco il giorno prima? Cosa cavolo ci faceva lì, in una base aerea americana? Il maggiore Dirke non sapeva che Bertin lavorava per l’MGB, l’unità d’Intelligence sovietica? Ovviamente no. Si erano salutati con sorrisi e strette di mano, mentre io facevo scivolare i capelli sulla metà rovinata del viso e mi addentravo ancora di più nell’ombra. Eravamo sul viale nella semioscurità e mi assicurai di dare le spalle al lampione più vicino, certa di una cosa. Gilles Bertin non sapeva chi ero. Non vidi nemmeno un baluginio di riconoscimento nei suoi occhi.
Perché avrebbe dovuto? Non ero nessuno per lui.
«Non ti aspettavo oggi, Gilles» disse il maggiore. «Lascia che ti presenti…»
«Eloïse» dissi, nulla di più.
Bertin mi osservò con scarso interesse; era palese che voleva arrivare subito allo scopo della sua visita, qualunque fosse, e si voltò verso Dirke. «Non abbiamo molto tempo, Joel, quindi vado in ufficio per mettermi al lavoro. Raggiungimi appena puoi.»
«Non si preoccupi per me» dissi di getto. «Buonanotte.» E mi diressi velocemente verso la sala da ballo, il lieve martellamento di un tamburo che rimestava il calore della notte.
Non aveva idea di chi fossi. Non ne aveva la più pallida idea.