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Léon Roussel

Il capitano Léon Roussel si diresse veloce verso il cortile di ciottoli, perché non voleva che Eloïse si precipitasse verso quello che si trovava nel fienile. Lui c’era stato. L’aveva visto. Odorato. Il puzzo gli era ancora incollato alle narici. Si parò davanti all’esile figura che si stava dirigendo verso il più grande dei vecchi fienili, afferrandole il braccio per trattenerla. La ragazza aveva la pelle fredda.

«Piano, non correre. Tanto non va da nessuna parte» disse.

Lei si fermò di colpo. Lo shock cambia le persone. Lo aveva visto più volte in qualità di poliziotto. Quando si tratta di uno shock forte, molto forte, alcuni si pietrificano. Alcuni urlano. Altri tremano o piangono a dirotto. Altri sembrano sgretolarsi, crollano, lo sguardo vitreo. Lo shock privò Eloïse Caussade della parola.

Rimasero immobili in un silenzio imbarazzante mentre le dava tempo, conscio della cicatrice sul suo volto che pulsava bianchissima. Léon aveva sentito delle voci sul fatto che Eloïse avesse quasi ucciso il fratello in un incidente d’auto, certe cose non si possono nascondere in una cittadina come Serriac. L’ultima volta che aveva posato lo sguardo su Eloïse Caussade era una quindicenne ossuta e selvaggia come le paludi. Tutta gomiti e ginocchia, in groppa al suo cavallo, immersa in un arcobaleno tra gli schizzi del mare negli acquitrini, i lunghi capelli neri che svolazzavano sciolti come canneti.

E adesso guardatela.

Otto anni dopo era una parigina fino alle unghie laccate, con addosso un vestitino a vita alta smanicato e con la gonna a ruota, blu come gli iris selvaggi tra gli agretti. Era chiaro che non era venuta per cavalcare. Le sue scarpe in pelle verniciata erano fuori luogo in un allevamento di tori. Era innegabile però che assomigliasse a suo padre. Avevano la stessa propensione per il silenzio, e quel giorno anche le stesse labbra livide. Léon si voltò, concedendole un momento di privacy. Una brezza che spirava a intermittenza da sud trasportava il profumo acre del mare e il sole si librava basso sul vasto orizzonte, quasi riluttante nell’abbandonare la scena.

I campi pianeggianti si stendevano in lontananza, i lunghi filari di salici e pioppi argentati che costeggiavano i numerosi, stretti corsi d’acqua che solcavano la terra salata. Léon controllò se qualcuno si stesse avvicinando lungo la strada a una corsia che passava davanti alla fattoria dei Caussade ma era vuota; eppure aveva la strana sensazione che qualcuno lo stesse guardando. Alzò lo sguardo verso le finestre ai piani superiori ma non vide nessuno.

Indicò il fienile con un gesto del capo. «Il toro è lì.»

«Chi è stato?» Le era tornata la parola. «Goliath è la fattoria. È Mas Caussade. Chi l’ha ucciso?»

«Non lo sappiamo ancora.»

«Di chi sospettate? Chi può essere il colpevole?»

«Sono qui per scoprirlo» disse lui. «Molto probabilmente gli aggressori sono persone che non approvano quello che sta facendo tuo padre. Sembra che agiscano in gruppo.»

«Contro mio padre?»

«Sì.»

Ne prese atto, il respiro affannoso, poi avanzò a grandi passi verso il fienile, i piedi che sollevavano la polvere. Sotto quel portamento da parigina Léon riconobbe l’energia e la determinazione che da piccola l’avevano portata a intraprendere l’impossibile.

«Goliath.»

Léon le sentì sussurrare quel nome mentre si inginocchiava sulla paglia sporca. Voleva strapparla via dal sangue fresco e coagulato della nera carcassa mutilata di quello che era il miglior toro della fattoria Caussade. I tori della Camargue erano piccoli se paragonati alle moli massicce dei cugini spagnoli, ma ciononostante Goliath sovrastava comunque la sua esile figura. L’aria nel fienile era offuscata e polverosa. Gli si conficcò in gola, e l’odore gli diede il voltastomaco. Eloïse posò il palmo della mano sul manto nero e insanguinato dell’animale e gli si avvicinò.

«Addio, amico mio» sussurrò alla creatura che giaceva stesa su un fianco di fronte a lei.

Gli avevano ridotto le corna a dei tronconi dentellati, le orecchie, la coda e i genitali erano stati recisi. Un’esecuzione feroce e violenta che sconvolgeva Léon per la sua brutalità. Squarci causati da un’ascia avevano lacerato i muscoli del potente dorso della bestia e la gola era tagliata dal petto alla mandibola, in un grossolano squarcio che si era trasformato in un tappeto pullulante di mosche.

«Io e Goliath eravamo nati lo stesso giorno» disse. «Ventitré anni fa.» Accennò un sorriso. «Era il mio eroe.»

«Era eccezionale» riconobbe Léon. «Il più forte e veloce toro delle arene di Arles.»

Aveva visto un centinaio di volte quel magnifico toro caricare la sabbia dorata delle arene di Arles e Serriac, un tornado nero all’inseguimento dei giovani razeteur – lui incluso – che osavano provare a strappare la coccarda dalle sue corna. Le coccarde erano un simbolo di mascolinità che invogliavano i ragazzi a rischiare la vita, perché nella course Camarguaise, a differenza delle corride spagnole, non c’è spargimento di sangue. La vera stella dello spettacolo è il toro, non un matador. Il nome dell’animale e la sua manade, la fattoria di provenienza, acquisiscono grande fama e rispetto. Per anni Goliath era stato una vera celebrità e aveva attratto pubblico da tutta la Provenza.

«Aspetto fuori,» le disse piano «finché non sei pronta.»

«Pronta per cosa?»

«Ho già interrogato tuo padre e tuo fratello. Ho bisogno di fare qualche domanda anche a te.»

Per la prima volta Eloïse distolse lo sguardo dall’animale e studiò pensierosa la sua uniforme, quasi avesse dimenticato il lavoro che era lì per svolgere. «Cos’ha fatto mio padre?»

Si bloccò. Léon vide gli occhi della ragazza fissarsi su qualcosa alle sue spalle. Si voltò e nell’oscurità in fondo al fienile, accanto a quelli che sembravano grigi bidoni di mangime, notò una figura, indistinta e immobile.

«André!» Eloïse balzò in piedi.

Léon guardò più da vicino. Eloïse aveva una vista da falco. Era davvero suo fratello maggiore, seduto su una sedia in vimini con un paio di grucce in legno a terra accanto a lui. Sulle ginocchia teneva un fucile da caccia. Léon sentì la pelle d’oca alla base del collo, ma André gli rivolse un cenno rassicurante con la testa. Negli ultimi mesi i capelli biondo rossicci gli erano cresciuti fino al colletto, e indossava una morbida camicia a quadretti che era stata strofinata fin troppe volte, come se volesse dar a vedere che era tornato a essere un semplice ragazzo di campagna. Ma i suoi occhi dicevano ben altro.

«Sto facendo la guardia» disse piano.

Era sempre stato bravo in questo. Coglierti alla sprovvista. I due avevano fatto la scuola assieme, e fin troppe insegnanti erano rimaste spiazzate dalle sue spalle ricurve e dalla sua voce vellutata.

«Pensavo stessi riposando in camera tua» commentò Léon, guardando il fucile.

«Ho cambiato idea.»

«André!» gridò di nuovo Eloïse.

Vide le stampelle stese sulla paglia sporca, la gamba destra dal ginocchio in giù racchiusa in un tutore metallico, e arrossì leggermente. Si lanciò verso il fratello e si inginocchiò di fronte a lui, così non avrebbe dovuto sollevare gli occhi per guardarla. Qualcosa in quella postura supplichevole infastidì Léon, che voleva farla alzare in piedi. Da piccola frequentava la banda di ragazzini ribelli amici di André, e anche allora Léon era stato quello che la issava sul primo ramo dell’albero in cui si stavano arrampicando, mentre suo fratello se ne stava seduto in alto a spronarla. Ma a quindici anni era la più svelta del gruppo. Ogni cosa facessero lei si sforzava di essere la migliore, ma non era mai abbastanza. Non per André.

«Perché non mi hai detto che eri alla fattoria?» gli chiese. «Credevo fossi morto. Perché non me l’hai detto?» Allungò una mano per posarla sul suo ginocchio, ma si fermò. «Come stai adesso?» chiese. Le tremava la voce.

«Secondo te?» Appoggiò una mano sul calcio del fucile. «Non avrebbero mai osato toccare Goliath se non fossi stato uno storpio.»

Fu peggio di una sberla. Léon la vide impallidire. André la stava incolpando per la morte del loro toro migliore. Temette che scoppiasse a piangere, ma si sbagliava. L’Eloïse di un tempo era sempre presente sotto quei neri capelli setosi e il vestito alla moda, chiazzato di sangue dell’animale. Lo percepì dalla velocità con cui scattò in piedi, dalla schiena eretta mentre fissava il fratello dall’alto.

«Cos’è successo? Perché qualcuno avrebbe dovuto voler massacrare Goliath? Cos’hai fatto?»

«Non è tanto quello che ho fatto io. È quello che ha fatto nostro padre.»

Lei si voltò verso Léon. «È vero?»

«Sì, Eloïse.»

«Cos’ha fatto papà? Dimmelo.»

Léon divenne consapevole del fitto ronzare delle mosche in quell’improvviso silenzio. «Sta vendendo parte del terreno all’aeronautica statunitense, vogliono espandere la loro base aerea nucleare qui a Dumoulin.»

«No» insistette lei. «Papà si taglierebbe la mano destra piuttosto di vendere il terreno dei Caussade.»

André le rivolse un sorriso tirato, teso. «Potrebbe arrivare a doverlo fare.»