59.
Sinior Tarnogol

Cinque mesi prima. Sabato 15 dicembre, poco prima di mezzanotte. Quattro ore prima dell’omicidio

Anastasia era appena stata testimone del ricatto di Jean-Bénédict a Macaire: quest’ultimo doveva cedergli la presidenza, e in cambio Jean-Bénédict avrebbe taciuto che il cugino aveva avvelenato la vodka utilizzata per i cocktail.

Anastasia tornò nella camera di Lev e, dopo avergli raccontato tutto, gli disse: “C’è una sola persona che possa impedirlo.”

“Chi?”

“Tarnogol. Vado a parlargli.”

“Adesso?”

“Ha dato le dimissioni, sa di essere in pericolo, probabilmente starà facendo anche lui le valigie. Devo parlargli prima che lasci l’albergo. Macaire mi ha detto che era nella stanza accanto alla tua.”

“Tarnogol è pericoloso,” la mise in guardia Lev.

“Lo so.”

La brusca risposta di Anastasia sorprese Lev.

“Lascia che ti accompagni,” disse.

“No, Lev. Non ti immischiare, per favore! È una faccenda tra me e Tarnogol. Lui... mi ha rubato una parte della mia vita. È a causa sua che ho sposato Macaire! È a causa sua che tu e io...”

Interruppe la frase a metà. Non aveva voglia di parlarne. Uscì nel corridoio e bussò alla porta accanto.

Lev, che era rimasto nella sua suite, si sentì sopraffare dal panico. Per la prima volta in quindici anni che portava avanti quell’impostura, la situazione gli stava sfuggendo di mano. Non aveva altra scelta che andare ad aprire la porta. Si precipitò sul balcone e scavalcò la ringhiera per passare sul balcone della camera accanto, quella di Tarnogol, la cui porta-finestra rimaneva sempre socchiusa.

Nel corridoio del sesto piano, Anastasia tamburellava sulla porta. Nessuna risposta. Allora si chinò e pochi istanti dopo vide filtrare una lama di luce, come se qualcuno si fosse appena svegliato e l’avesse accesa.

Lev si era sbarazzato in fretta dei suoi abiti per infilarsi una vestaglia quando sentì risuonare la voce di Anastasia dall’altra parte della porta:

“Tarnogol, so che è lì dentro, apra!”

Lev afferrò la maschera di silicone e se la infilò in fretta e furia. Tenne chiusa la vestaglia incrociando le braccia per nascondere l’attaccatura del silicone con la pelle del collo. Era tutt’altro che perfetto, stava trascurando le regole più elementari che gli aveva insegnato il padre. Ma era con le spalle al muro. Si diresse verso la porta. Nel profondo di sé, sapeva che era giunto il momento della verità.

La porta si aprì e Anastasia si trovò davanti Tarnogol in vestaglia: evidentemente lo aveva tirato giù dal letto.

“Cosa succede?” chiese Tarnogol.

“Succede che lei e io dobbiamo parlare,” disse Anastasia.

Tarnogol si scostò, invitandola a entrare. Lei lo fissò con il suo sguardo di leonessa feroce ed ebbe una repentina visione. Quegli occhi li riconosceva. Si ricordò delle parole che aveva detto quella stessa mattina, a Ginevra, al tenente Sagamore: “Gli occhi non mentono.” All’improvviso capì e si scagliò contro di lui.

Nella suite 622, accanto a quella di Tarnogol, Jean-Bénédict Hansen esultava: la banca era sua. Stava riponendo le azioni sottratte a Macaire nella cassaforte, quando udì dei rumori dall’altro lato della parete. Sembrava che da Tarnogol ci fosse una lite. Udì delle grida di donna e qualcosa che sbatteva contro il muro. Si precipitò al telefono per avvisare la sicurezza dell’albergo, poi uscì nel corridoio per vedere cosa stesse succedendo. La porta della suite di Tarnogol era socchiusa: all’interno era in corso un alterco. Si avvicinò lentamente e vide una scena che non si aspettava. Anastasia stava scrollando Lev per il bavero della vestaglia. A terra, sulla moquette, una maschera di silicone che assomigliava al volto di Tarnogol.

“Cosa...” mormorò Jean-Bénédict.

Anastasia, rendendosi conto della presenza del cugino Hansen, mollò Lev. Questi guardò impotente Jean-Bénédict che raccoglieva il volto di silicone.

“Eri tu?” disse, stupefatto. “Per tutti questi anni eri tu? Tarnogol era un’impostura?”

Jean-Bénédict sollevò la maschera all’altezza del viso di Lev, che rimase impietrito. Il suo segreto era stato svelato.

“È incredibile,” disse Jean-Bénédict con una punta d’ammirazione. “È assolutamente incredibile!”

Avanzò ancora di qualche passo verso di loro, con un luccichio minaccioso nello sguardo. In quell’istante, un energumeno della sicurezza si affacciò alla soglia della camera.

“Va tutto bene?” chiese. “Un cliente si è lamentato di avere sentito delle grida.”

“Oh, va tutto benissimo,” assicurò Jean-Bénédict, esibendo un largo sorriso. “Stavamo ripassando una scenetta. Abbiamo fatto troppo rumore? Se è così, ci scusi davvero.”

Jean-Bénédict si diresse verso l’agente per rassicurarlo con un altro sorriso e una pacca sulla spalla, poi gli chiuse la porta in faccia. A quel punto si voltò verso Lev e Anastasia e li fissò con un’aria diabolica, mentre loro sembravano atterriti.

“Che piega straordinaria sta prendendo questa serata!” si entusiasmò Jean-Bénédict.

Detto ciò, si infilò la maschera di silicone e contemplò il suo aspetto nel riflesso di uno specchio.

“Prodigioso!” esclamò. “È tutto semplicemente prodigioso! Ci hai imbrogliati per quindici anni, Lev. Voglio sapere tutto! Voglio sapere come hai fatto.”

Si tolse la maschera e si diresse verso la zona soggiorno della suite.

“Forza, sedetevi,” ordinò a Lev e Anastasia.

Furono costretti a obbedire. Si accomodarono fianco a fianco sul divano. Anastasia, spaventata, afferrò brevemente la mano di Lev. Il gesto non sfuggì a Jean-Bénédict.

“Ma guardali, i piccioncini!” esclamò. “Di bene in meglio! Di-be-ne-in-me-glio!

Aprì il frigobar e afferrò una bottiglia di champagne.

“Posso servirmi?” chiese a Lev. “O devo chiedere a Tarnogol?”

Sventolò la membrana di silicone e scoppiò a ridere, prima di aprire la bottiglia e bere direttamente dal collo. Si asciugò le labbra con la lingua con fare ripugnante, poi esclamò: “Champagne! Champagne per Sinior Tarnogol, la più grande impostura di tutta la storia! E adesso, Lev: racconta! Voglio sapere tutto!”

* * *

Quindici anni prima, il venerdì mattina del Gran Weekend

Quella mattina Lev aveva lasciato Ginevra all’alba per raggiungere Verbier. La sera prima Anastasia lo aveva respinto, non presentandosi all’appuntamento all’Hôtel des Bergues.

Arrivato a Martigny, dal momento che c’era da attendere un po’ prima di prendere la coincidenza per Le Châble, da dove avrebbe poi raggiunto Verbier in autobus, Lev decise di andare a bere un caffè al caldo all’Hôtel de la Gare. Seduto all’interno, circondato dallo sciamare dei numerosi avventori che facevano colazione, osservava dalla finestra la strada deserta. All’improvviso, con grande sorpresa, vide suo padre con una valigia in mano. Entrò nell’albergo, dove si mescolò agli altri clienti. Senza farsi vedere, Lev non gli tolse gli occhi di dosso. Sol Levovitch attraversò la hall, si diresse verso le toilette e scomparve al loro interno. Lev decise di seguirlo. Aveva il presentimento che qualcosa non quadrasse. Entrò a sua volta nelle toilette: nessuno. Allora notò che uno dei bagni era chiuso. Dentro c’era suo padre che armeggiava con la valigia. Cosa poteva mai fare?

Lev attese qualche minuto.

All’improvviso la porta del bagno si aprì.

Lev rimase di stucco. Non riusciva a crederci. L’uomo davanti a lui era Sinior Tarnogol.

“Papà,” mormorò Lev, scioccato.

Tarnogol si portò le mani al collo e staccò con precauzione il volto di silicone. L’operazione richiese qualche istante: lentamente, dietro la maschera, apparve il viso di Sol.

“Tu sei Tarnogol?” balbettò Lev. “Per tutto questo tempo, sei sempre stato tu?”

Sol annuì.

“Tarnogol e qualcun altro. È per questo che il signor Rose mi ha assunto al Palace. Per assumere diverse identità, spacciarmi per un cliente dell’albergo e scovare le imperfezioni del servizio.”

Fu così che Lev scoprì con sgomento che alcuni dei clienti che aveva servito per anni in realtà non erano mai esistiti. O meglio, erano stati una sola e unica persona: suo padre.

Sol Levovitch era un attore immenso. Aveva ingannato tutti. Per tutti quegli anni aveva creato dei personaggi più veri del vero. Grazie al signor Rose, aveva potuto dare libero sfogo al suo genio. Aveva fatto confezionare dei volti di silicone su misura dal miglior artigiano del campo, a Vienna, che riforniva i più grandi studi cinematografici.

Lev prese in mano la maschera e la studiò. Era di un realismo stupefacente: il naso, l’attaccatura dei capelli, il modo in cui il silicone si fondeva con la pelle attorno agli occhi e alla bocca. L’illusione era perfetta.

Passato l’effetto dello shock, Lev ripensò al comportamento di Tarnogol nei suoi confronti nel corso dell’ultimo anno e chiese spiegazioni al padre.

“Ma se tu sei Tarnogol, perché l’anno scorso mi hai denunciato al signor Bisnard la sera del galà della banca?”

“Tutti gli altri dipendenti del Palace ti avevano visto: erano furiosi con te. Ho voluto mettere fine al tuo sgarro finché ero ancora in tempo. Prima che tu dessi spettacolo o scoppiasse uno scandalo. Ti sarebbe costato il posto... E poi... Per essere onesto con te, ho visto il modo in cui guardavi tutti quei banchieri, tutti quegli uomini potenti. Mi sono sentito piccolo. Sono stato invidioso di loro. Quando hai mentito sulla tua identità per far credere che appartenevi a quel mondo, non l’ho sopportato.”

“E dopo?” pretese di capire Lev.

“La primavera scorsa, dopo che Anastasia se n’era andata a Bruxelles, tu eri molto infelice. Non riuscivo a parlarti. Ero frustrato. Ti ho proposto più volte di andare a cena insieme, ma tu non volevi. Ricordi?”

“Sì,” ammise Lev.

“E allora mi sono detto che forse Tarnogol sarebbe riuscito là dove io avevo fallito. Ho scelto Tarnogol piuttosto che un altro dei miei personaggi perché mi sembrava corrispondere di più al mondo della banca. Tarnogol ti ha proposto di andare a cena e tu hai accettato.”

“Non potevo rifiutare il suo invito,” si difese Lev.

“Poco importa,” rispose il padre. “L’importante è che ho passato una bellissima serata in tua compagnia. Ho scoperto che mettendo il costume di Tarnogol, potevo essere il padre pieno di buonsenso che non so essere quando sono me stesso. Prova ne è stata che, quando l’estate scorsa mi hai detto che avevi ricevuto un’offerta della banca, sono andato su tutte le furie. Non volevo che te ne andassi lontano, ti ho fatto una scenata ridicola per dissuaderti e tu sei rimasto. Me ne sono amaramente pentito, perché vedevo bene che il tuo posto non era più lì in albergo, ma a Ginevra.”

“E allora sei tornato al Palace nelle vesti di Tarnogol e hai fatto in modo che mi licenziassero.”

“Sì, il signor Rose era in combutta con me. Gli avevo detto che ti avrei fatto perdere le staffe e che avrei preteso il tuo licenziamento.”

“Quindi era tutta una grande commedia e nient’altro?” disse Lev.

“Se vogliamo. Il caso ha voluto che proprio in quel momento Anastasia arrivasse e ti portasse via con sé. Io sono stato triste per me, e Tarnogol è stato felice per te.”

“Ma perché quella pagliacciata in banca?” chiese allora Lev. “Perché quella storia dell’apertura del conto e poi del rilevamento della banca?”

“Il signor Rose mi ha raccontato che eri stato messo in un angolo da Ebezner nonno e che avevi bisogno di un primo cliente importante per diventare banchiere a pieno titolo. Mi sono detto che Tarnogol era l’uomo che ci voleva. Ognuno dei miei personaggi dispone di un passaporto fasullo, fabbricato a Berlino da un falsario eccezionale. Era necessario per registrarsi in albergo. Mi ero detto che sarebbe stato sufficiente un appuntamento in banca per aprire il conto, avevo il mio passaporto in tasca, mi sembrava un gioco da ragazzi. Dopo avrei tirato la cosa per le lunghe, ritardando il versamento di soldi che non esistevano. Mi sarei appellato a problemi con le banche. A quel punto, divenuto ufficialmente banchiere, avresti attirato altri clienti e saresti diventato intoccabile.”

“Ma l’appuntamento alla Banca Ebezner non è andato come previsto, non è vero?”

“Esatto. Ho sparato una somma spropositata, e Abel Ebezner mi ha chiesto di firmare tutti quei documenti. Non me l’aspettavo. Ma a quel punto dovevo andare fino in fondo. Sono tornato all’appuntamento seguente con tutti i documenti intatti nella busta. Sapevo che il conto non sarebbe stato aperto. Volevo solo guadagnare tempo per te, per aiutarti. Così ho avuto l’idea di porre una condizione che Abel Ebezner non avrebbe potuto accettare: vendere a Tarnogol una parte della sua banca.”

“Ma mi hai fatto passare per l’ultimo degli idioti!” si arrabbiò Lev.

“Mi dispiace. Volevo solo aiutarti. Sistemerò tutto, vedrai. Mi appresto a tornare al Palace nelle vesti di Tarnogol: il signor Rose mi ha tenuto una camera accanto a quella di Abel Ebezner, e gli dirò...”

“Tu non farai proprio niente!” s’infuriò Lev. “Tu dimenticherai questo personaggio di Tarnogol!”

“Convincerò Abel Ebezner a nominarti banchiere. Lasciami fare, per favore!”

“Ma lo sarò comunque a partire da gennaio, non appena Macaire diventerà ufficialmente vicepresidente! Non ho bisogno del tuo aiuto, capisci? Non mi serve!”

“È proprio questo il problema,” mormorò Sol.

“Quale?”

“Che non hai più bisogno del mio aiuto. Hai sempre avuto bisogno di me: sono tuo padre. Ma adesso te la sbrighi da te. Non hai più bisogno di me, ed è dura da accettare.”

Lev non riusciva ancora a capacitarsene.

“Non posso crederci: era tutto una gigantesca farsa!”

“Non era una farsa!” protestò il padre.

“Chiamalo uno spettacolo di clown, se preferisci,” ribatté Lev, profondamente ferito da quella menzogna. “Tutti quei clienti che passavano il tempo a tessere le mie lodi, che mi hanno fatto sentire orgoglioso del mio lavoro, non erano che un enorme raggiro. Ah, come dovevate ridervela tu e il signor Rose, come ve la sarete spassata alle mie spalle!”

“No,” protestò Sol. “Quei personaggi servivano a controllare la qualità del servizio al Palace.”

“Era un mezzo per tenermi al Palace!” gli rinfacciò Lev.

“No,” assicurò il padre.

Lev era fuori di sé. Si sentiva tradito e umiliato allo stesso tempo.

“Ah, la tua ridicola ossessione di essere un attore!” si arrabbiò. “Non è stato un banchiere a uccidere la mamma, è stato un comico! Per colpa tua e dei tuoi ridicoli spettacoli la mamma se n’è andata! Per colpa tua è morta!”

“Lev, no, te ne prego! Perdonami, pensavo di fare bene.”

“Hai rovinato tutto!” urlò Lev. “Non sei altro che un pagliaccio!”

“Non sono un pagliaccio!” esclamò Sol.

“Se non sei un pagliaccio, chi sei, con quel costume addosso?”

“Sono tuo padre.”

“Non sono certo che tu sia il padre che volevo.”

A quelle parole Sol, ferito nel profondo, schiaffeggiò il figlio. Colpito dal gesto più che dalla violenza della sberla, Lev si portò una mano alla guancia.

“Perdonami...” supplicò Sol, che si pentì subito del suo impeto di collera.

Lev indietreggiò verso l’uscita.

“Aspetta!” urlò il padre. “C’è una buona ragione se ho fatto tutto questo. C’è una cosa di cui non ti ho mai parlato...”

Ma Lev non voleva più starlo a sentire. Scappò. Aveva voglia di sparire. E soprattutto aveva bisogno di conforto. Aveva bisogno di Anastasia. Doveva ritrovarla. Saltò sul primo treno per Ginevra. E mentre viaggiava da Martigny verso Ginevra, il treno che incrociò in direzione opposta, proveniente dalla città del Piccolo Lago, portava Anastasia a Martigny, da dove contava di raggiungere Verbier per ritrovare Lev.

Lev passò la giornata a vagare per Ginevra. All’appartamento di Olga von Lacht: nessuno. A casa sua: nessuno. La aspettò a lungo al Remor: nessuno. Si recò in ciascuno dei posti che lei amava frequentare. Invano. Come ultima risorsa, tornò a casa della madre di Anastasia. Non c’era ancora nessuno. Attese a lungo nella tromba delle scale l’arrivo di qualcuno. Verso le sette apparve Olga von Lacht, di ritorno dal lavoro. Non appena la vide, Lev si alzò, raddrizzando la schiena per recitarle la solita scena di Romanov. Ma prima che potesse aprire bocca, Olga si mise a urlare: “Come osi venire qui? Topo di fogna!”

Unì alla parola il gesto e cominciò a tempestare Lev di colpi con la borsetta.

“Signora von Lacht,” esclamò Lev, “la smetta! Che cosa le prende?”

“Togliti dai piedi, mascalzone! Farabutto! Impostore! Io so tutto!”

“Signora von Lacht,” supplicò Lev, “devo assolutamente parlare con Anastasia. Ho passato la giornata a cercarla.”

Olga trattenne il suo ultimo colpo: Anastasia non era con Lev? Dove se n’era andata, allora? Decise di approfittare di quell’occasione per allontanare Lev dalla figlia.

“Anastasia non vuole più vederti,” disse Olga. “Ama un altro. Un uomo ricco! Potente! Non un miserabile facchino! Levati di torno, hai capito?”

Lev se ne andò sconsolato.

Quella sera, dopo ore passate a vagare senza meta, Lev, scosso dagli ultimi avvenimenti, ritornò al Palace de Verbier.

Era mezzanotte passata quando un taxi lo lasciò davanti al Palace. Nella hall deserta si imbatté in suo padre che sembrava aspettarlo. Era stato così che Sol, nel tentativo disperato di trattenere il figlio, gli aveva dato le lettere che aveva falsificato per fargli credere che Anastasia amasse Macaire.

Il padre si era considerato un vigliacco ad agire così. Tarnogol probabilmente avrebbe fatto di meglio. Ma lui non era più Tarnogol. A quel punto era soltanto Sol.

E Lev, colpito dritto al cuore da quella che credeva una lettera di rottura, aveva cercato di dimenticare il suo dolore tra le braccia di Petra.

* * *

A distanza di quindici anni da quegli avvenimenti, nella camera 623 del Palace de Verbier, Jean-Bénédict interruppe il racconto di Lev.

“Cos’è questa storia delle lettere?” chiese.

Anastasia ripeté le spiegazioni date a Lev quando, un anno prima, si erano rivisti dopo i funerali di Abel Ebezner.

“Avevo scritto due lettere,” disse. “Una indirizzata a Lev, per dichiarargli il mio amore, e l’altra a Macaire, per fargli capire che non provavo nessun sentimento per lui. Ma il padre di Lev, a cui avevo affidato quelle lettere, le ha falsificate.”

“Ha ritagliato i due nomi e li ha invertiti,” aggiunse Lev. “Io mi sono ritrovato con una lettera d’addio e ho pensato che Anastasia volesse farsi una vita con Macaire. La sera successiva, durante il gran ballo, ho visto Anastasia e Macaire che si baciavano e ne ho avuto conferma.”

“È stato Macaire a baciarmi!” protestò Anastasia, che quindici anni dopo ancora provava il bisogno di difendersi. “Io non me l’aspettavo!”

“Non ricordo che la cosa ti abbia infastidito!” la rimproverò Lev.

“Avanti, piccioncini,” intervenne Jean-Bénédict, “non bisticciate! Voglio conoscere il seguito, e soprattutto voglio sapere per quale ragione tuo padre, Lev, avrebbe invertito i nomi su quelle lettere per farti dubitare dell’amore di Anastasia.”

“Perché era gravemente malato, e non voleva morire da solo.”

* * *

Quindici anni prima, nella sala da ballo

Dopo avere visto Anastasia e Macaire che si baciavano, Lev si era voluto vendicare facendo lo stesso con Petra. Anastasia, turbata dalla scoperta della sua nuova conquista, aveva lasciato precipitosamente la sala.

In mezzo a quella allegra folla, con Petra che lo abbracciava stretto, Lev si era sentito venir meno. Rivedere Anastasia, e soprattutto assistere a quel bacio tra lei e Macaire, lo aveva scosso. Una cosa era saperlo dalle lettere che aveva letto, un’altra era vederli insieme.

Lev lasciò a sua volta la sala. Quello non era posto per lui: non c’entrava niente con quei banchieri. Pensò che suo padre aveva ragione: la banca lo aveva cambiato. Aveva voglia di tornare a essere un semplice impiegato d’albergo. Di vivere di nuovo lì. In quella bolla protetta. Di non lasciare mai più il Palace. In fin dei conti, ammise tra sé, l’unica persona che aveva sempre voluto il suo bene era il padre.

Uscendo dalla sala da ballo, si imbatté nel signor Rose, che era chiaramente al corrente di quello che era successo tra Sol e il figlio.

“Lev,” disse il signor Rose, “devo parlarti. Si tratta di tuo padre.”

“Lo so. Credeva di far bene e di aiutarmi con il suo personaggio di Tarnogol.”

“Non voglio parlarti di questo. Lev, tuo padre ha un cancro.”

Lev si fece livido: questa volta suo padre non gli aveva raccontato una fandonia.

“Allora non è una sua invenzione,” mormorò.

“Sta per morire,” gli confidò il signor Rose.

“Perché non me ne ha parlato prima?”

“Non voleva preoccuparti, pensava che se la sarebbe cavata. Sfortunatamente non c’è più niente da fare. Sta per morire e non ha altri che te. Gli restano pochi mesi di vita.”

All’improvviso Lev ebbe voglia di rivedere il padre, di abbracciarlo forte. Di non perdere più un solo secondo del tempo che gli restava da trascorrere con lui.

La sera del ballo della Banca Ebezner Sol avrebbe dovuto essere al Palace. Ma Lev non lo trovò nel suo ufficio e nessuno dei dipendenti a cui chiese di lui l’aveva visto. Lev pensò che probabilmente era nel suo appartamento. Ci andò, bussò a lungo, ma nessuno gli aprì. La porta non era chiusa a chiave e decise di entrare. Ma il posto era deserto. Chiamò: nessuna risposta. Evidentemente suo padre non era lì. Volle fare un’ultima verifica nella camera da letto. Vuota anche quella. Ma invece di lasciare la stanza, provò l’impulso di entrare nella privacy di suo padre. Aprì il grande armadio a muro che si trovava di fronte al letto. Quale non fu la sua sorpresa quando scoprì, su un ripiano, una serie di volti in silicone posati su teste di manichini. I volti di clienti che lui aveva servito. Più in basso, degli oggetti alla rinfusa che servivano da accessori per i suoi personaggi: orologi, gioielli, occhiali, sigarette. E in mezzo a tutto ciò, il famoso libro rilegato che suo padre conservava così gelosamente e nel quale annotava tutte le sue idee. Lev lo aprì e, scorrendo le pagine, vi trovò sotto forma di schizzi e annotazioni tanti clienti che aveva incontrato al Palace. Il padre aveva tratteggiato i volti, prima di farne fare degli stampi e poi delle maschere di silicone. Lev comprese che quei personaggi esistevano veramente: Sol Levovitch aveva scritto le loro storie personali, i lor tic linguistici, le loro idiosincrasie e le loro esigenze, per mantenere una coerenza in occasione di ciascuno dei loro soggiorni.

Passando in rassegna quei volti di silicone, Lev osservò a lungo quello di Tarnogol. Era affascinato. L’afferrò e si accomodò davanti alla toeletta che troneggiava nella stanza, dove per anni suo padre si era trasformato per muoversi in incognito all’interno del Palace. Lev si rese conto che il padre gli aveva insegnato tutto: conosceva i gesti e gli atteggiamenti, sapeva come trasformare la sua voce rendendola più convincente. Pensò che, nell’ultimo anno, lui stesso si era crogiolato nell’impostura facendosi passare per Lev Romanov. In fondo, non aveva fatto che mettere in pratica gli insegnamenti del padre. Era un attore. Erano veramente una stirpe di attori. Erano i Levovitch.

Metà dell’armadio serviva da guardaroba per i vestiti dei personaggi. Lev identificò senza difficoltà gli abiti di Tarnogol e li indossò: erano foderati con inserti di tessuto e di gommapiuma, che lo fecero apparire più corpulento e ne incurvarono la schiena. Era stupefacente.

Poi applicò sul proprio volto quello di silicone. La plastica aderì ai contorni della mascella, si adattò agli occhi e alle labbra. Sistemò i capelli grigi e le sopracciglia folte. Il risultato era sconcertante: era Sinior Tarnogol. Si allenò per qualche istante a parlare e muoversi in quel nuovo involucro corporeo. Si rese conto che era in grado di imitare alla perfezione il personaggio che Sol aveva creato sotto il nome di Tarnogol: la sua voce, il suo modo di muoversi, i suoi tic linguistici. Esattamente come il padre gli aveva insegnato. Comprese che suo padre lo aveva preparato a dargli il cambio. Comprese anche che Sol non era semplicemente un attore molto dotato: era un vero drammaturgo, l’anima del teatro personificata. Un artista immenso.

Lev, in tutto e per tutto identico a Tarnogol, si guardò a lungo allo specchio. Si sentiva fiero. Fiero di essere un Levovitch. Allora volle assolutamente che suo padre lo vedesse così. Voleva dimostrargli che era come lui. Che non era diverso.

Se suo padre non era lì, doveva per forza essere al Palace. Lev tornò laggiù. Lasciando l’appartamento, ebbe cura di portare con sé il suo bene più prezioso, quell’oggetto che si trovava nella tasca del suo pantalone sin dalla sera prima: l’anello di fidanzamento di sua madre, che aveva pensato di regalare ad Anastasia all’Hôtel des Bergues.

Di ritorno al Palace, Lev poté constatare immediatamente il realismo della sua nuova identità: i dipendenti non si accorsero di nulla e lo salutarono con deferenza. Lui si divertì a manifestargli un disprezzo tarnogolesco. Fu l’occasione per esercitare la voce e l’accento, rispondendo con un “Levatevi di torno!” a tutti quelli che gli domandavano “Come sta?” Dietro il suo volto di silicone, Lev non cessava di meravigliarsi: che faccia avrebbe fatto suo padre quando lo avrebbe visto! Ma il padre era introvabile. Dopo avere vagato per un po’ nella grande hall, Lev uscì a fumare una sigaretta sugli scalini davanti all’ingresso dell’albergo.

In quello stesso istante, Macaire lasciava la sala da ballo al primo piano, con le azioni della banca tra le mani, e raggiungeva la hall del Palace. Senza Anastasia, la sua serata era rovinata. Si sentiva triste. Si sentiva solo. Era disposto a dare tutto l’oro del mondo per stare con lei. Aveva bisogno di prendere una boccata d’aria e uscì sui gradini dell’ingresso.

Vedendo Macaire varcare la soglia del Palace, Lev gli lanciò un’occhiata furiosa, prima di rendersi conto che lui evidentemente non l’aveva riconosciuto.

“Buonasera, signore,” lo salutò educatamente Macaire nel momento in cui si incrociarono.

Lev notò che aveva la faccia triste. Allora gli rivolse la parola, imitando la voce e l’accento di Tarnogol:

“Qualcosa non va, mio giovane amico?”

Macaire si voltò. “Faccende di cuore,” rispose, felice che qualcuno notasse che non stava bene.

“Capita,” disse.

Macaire fissò il suo interlocutore.

“Ci conosciamo?” chiese a Tarnogol.

“No, non credo...”

“Sì, lei è venuto alla Banca Ebezner poche settimane fa.”

“Conosce quella banca?” si informò Tarnogol.

“Se la conosco?” fece Macaire, divertito dalla domanda. “Sono Macaire Ebezner,” disse, tendendo la mano a Tarnogol. “Sono il nuovo vicepresidente della Banca Ebezner.”

Si scambiarono una calorosa stretta di mano.

“Sinior Tarnogol. Molto lieto di conoscerla. Non mi piace vedere un bel giovane come lei con la faccia triste. C’è qualcosa che posso fare per lei?”

Macaire sospirò. “Ah, se potesse farmi amare dalla donna che amo,” disse. “Si chiama Anastasia, e darei qualunque cosa per stare con lei.”

A quelle parole, Lev comprese che Macaire non sapeva di essere stato scelto da Anastasia. Non aveva mai ricevuto la lettera d’amore che gli aveva scritto. Anastasia voleva farsi una vita con lui, ma lui non lo sapeva. E poiché dopo il loro bacio era scappata dalla sala da ballo, doveva sentirsi respinto.

Lev pensò allora che aveva l’opportunità di prendersi gioco di Macaire, senza immaginare neppure per un istante quali sarebbero state le conseguenze. Spacciandosi per Tarnogol, gli rivelò in tono confidenziale: “Posso aiutarla a conquistare questa Anastasia.”

“Come?” implorò Macaire, chiaramente pronto a tutto.

“Costa molto caro,” l’avvisò Tarnogol. “Non so se ne ha i mezzi.”

Senza lasciarsi impressionare, Macaire agitò la busta che teneva in mano.

“Le vede queste? Sono azioni della Banca Ebezner! Sa quanto valgono, solamente in dividendi annui? Quindi mi creda, ho di che pagare i suoi servigi. Quanto vuole?”

“È disposto a fare un patto con il diavolo?” chiese Tarnogol.

La parola “diavolo” spaventò Macaire, ma non si tirò indietro.

“Sono disposto a tutto,” assicurò.

E allora Tarnogol, reagendo prontamente, gli disse: “Le sue azioni in cambio di Anastasia.”

Seguì un silenzio. Per un attimo Macaire parve esitare, ma si riprese subito e, fissando Tarnogol, rispose in tono fermo: “Accetto. Se lei riesce a farmi amare da Anastasia, le darò le mie azioni. Non so che farmene dei soldi, signor Tarnogol! L’unica cosa che voglio è l’amore di Anastasia.”

* * *

Quindici anni più tardi, Lev era quasi sollevato di poter rivelare il segreto che aveva custodito per tutto quel tempo.

“Non avevo niente da perdere. All’inizio pensavo semplicemente di giocare un brutto scherzo, poi mi resi conto che forse quello che stavo realizzando era un colpo da maestro. Avrei ottenuto la carica di vicepresidente della banca. Immaginate la beffa per Macaire, che pensavo mi avesse portato via Anastasia. E poi, se funzionava, sarei diventato – già così giovane – infinitamente ricco. Quella sera credevo di fregare Macaire. In realtà, mi sono fregato con le mie stesse mani,” spiegò a Jean-Bénédict Hansen.

* * *

Quindici anni prima

Macaire entrò nella sua camera al Palace, seguito da Tarnogol.

“Si accomodi,” gli disse, offrendogli una poltrona, mentre lui si sistemava dietro il piccolo scrittoio della camera.

Aprì un cassetto, estrasse un foglio e una penna e iniziò a redigere un contratto secondo tutti i crismi legali. Poche righe con le quali cedeva le sue azioni a Sinior Tarnogol.

“Questo contratto è valido?” si preoccupò Tarnogol. “Non voglio tiri mancini.”

“Non si preoccupi,” lo rassicurò Macaire. “Ho studiato legge e so quello che faccio. È perfettamente valido.”

Mise il documento nella cassaforte della camera, assieme alle sue azioni. Poi disse: “Se, come mi promette, grazie a lei otterrò l’amore di Anastasia, le renderò questo contratto firmato assieme alle mie azioni.”

“Come faccio a essere certo che non verrà meno ai suoi impegni?” chiese Tarnogol.

“Sono un uomo di parola,” disse Macaire. “Può fidarsi di me.”

L’occasione era troppo ghiotta, e Lev decise di afferrarla. Se funzionava, era il colpo del secolo! Si mise la mano in tasca e, toccando con la punta delle dita l’anello di sua madre, disse: “Ritroviamoci tra quindici minuti davanti agli ascensori del terzo piano.”

Un quarto d’ora dopo Macaire attendeva, scalpitante d’impazienza, nel corridoio del terzo piano, dove si trovava la camera di Anastasia. All’improvviso si aprì una porta nascosta e apparve Tarnogol.

“Lei è il diavolo!” rabbrividì Macaire.

“Mi segua,” ordinò Tarnogol, trascinando Macaire in un corridoio di servizio conosciuto solo dai dipendenti.

Al riparo da sguardi altrui, Tarnogol estrasse dalla tasca l’anello e lo mise nella mano di Macaire. Per un attimo, Lev esitò a separarsi dall’anello della madre. Ma pensò che se il suo sotterfugio fosse fallito, lo avrebbe recuperato. E se invece avesse funzionato, avrebbe avuto di che comprare i più grossi diamanti sino alla fine dei suoi giorni.

“Regali questo anello ad Anastasia,” disse a Macaire. “La chieda in moglie. Lei accetterà.”

Macaire si precipitò verso la camera di Anastasia. Giunto davanti alla porta, rimase immobile per un istante, senza osare bussare.

Nella stanza, Anastasia, sola, prostrata sul letto, piangeva disperata. Tradita da Lev che le aveva preferito Petra, cacciata dalla madre che non voleva più saperne di lei, si sentiva abbandonata da tutti. Una volta finito il Gran Weekend, non avrebbe avuto più nemmeno una casa. Non sapeva cosa ne sarebbe stato di lei. Era arrivata quasi a pensare di mettere fine a tutto e buttarsi dalla finestra.

All’improvviso udì dei colpi alla porta. Si alzò a fatica per andare ad aprire e si ritrovò davanti Macaire, con un ginocchio poggiato per terra, che le porgeva un anello con zaffiro.

“Anastasia von Lacht, vuole sposarmi?” le chiese.

Lei non esitò quasi. La risposta non le venne dal cuore, ma dalla paura di rimanere sola e, soprattutto, dal bisogno di gentilezza, quel bisogno viscerale di essere amata. Aveva sofferto abbastanza. Dopo anni in cui la madre l’aveva trascinata a destra e a manca in cerca di un marito, dopo l’insuccesso delle sue relazioni con Klaus e con Lev, voleva essere amata teneramente e vivere in pace.

“Sì!” esclamò, facendo alzare Macaire per buttarsi tra le sue braccia. “Sì!”

A pochi passi da lì, nascosto dietro un angolo, Tarnogol osservava la scena. Sotto la maschera, Lev piangeva.

* * *

A distanza di quindici anni da quei fatti, nella camera 623 del Palace de Verbier, all’improvviso Anastasia comprese e disse a Lev: “L’anello che Macaire mi ha dato era l’anello che tu mi avevi destinato?”

“Sì. Era quello di mia madre.”

Lei si coprì la bocca con le mani in un gesto disperato.

“L’ho restituito a Macaire poco fa...”

“Non è grave,” la rassicurò Lev.

Anastasia non riuscì a trattenere le lacrime, mentre Jean-Bénédict Hansen era rimasto sbalordito dal racconto che aveva appena ascoltato.

“Macaire ha mantenuto la promessa,” riprese Lev. “Quella sera stessa mi consegnò il contratto e le azioni. Un mese più tardi, Tarnogol muoveva i suoi primi passi come membro del Consiglio della banca, mentre io, Lev Levovitch, venivo promosso banchiere da Abel Ebezner, che non ha mai sospettato nulla. Va detto che Tarnogol era spesso in viaggio, per così dire, e io avevo spesso appuntamento con vari clienti, in un salotto della banca a Ginevra o all’estero. Non mi era difficile destreggiarmi tra le due agende. Non avevamo praticamente occasione di incrociarci. I soldi dei dividendi hanno fatto il resto, per costruire il personaggio: mi è stato sufficiente passare una bustarella a un dipendente del servizio anagrafe per ottenere, in base a un passaporto falso di una repubblica sovietica che mio padre aveva fatto contraffare, un autentico permesso di soggiorno per Tarnogol, che si è stabilito definitivamente a Ginevra. Ha fissato il proprio domicilio in una residenza privata al 10 di rue Saint-Léger, che all’inizio ho preso in affitto e in seguito ho acquistato. Era solo uno scenario di cartapesta: avevo ammobiliato soltanto l’ingresso, la scalinata e i saloni del primo piano, visibili dalla strada. Il resto è sempre stato vuoto e disabitato.”

Jean-Bénédict si alzò e fece qualche passo nella suite.

“È stupefacente, Lev! Tu sei un genio! Un genio assoluto! Ti rendi conto? Ci hai abbindolati tutti! Fino a una settimana fa terrorizzavi quel povero Macaire destinando la presidenza della banca a Lev Levovitch. È stata una mossa brillante: una volta eletto presidente, sarebbe bastato che Tarnogol desse le dimissioni dal Consiglio e nessuno avrebbe mai saputo niente. E tu saresti stato il presidente della Banca Ebezner, il primo dirigente dell’istituto a non essere un Ebezner.”

“Niente affatto,” lo contraddisse Lev. “Volevo mettere alle strette Macaire per convincerlo a fare lo scambio inverso: la presidenza in cambio di Anastasia. Avevo finalmente ritrovato Anastasia, dopo quindici anni che erano stati una traversata del deserto. Volevo che Macaire ci lasciasse tranquilli. Se lei lo avesse abbandonato, avrebbe fatto delle scenate: l’avrebbe ricattata minacciando il suicidio, sarebbe stato capace di rovinare tutto.”

Jean-Bénédict squadrò Lev.

“Per poco Macaire non ti ha ammazzato.”

“Lo so.”

Jean-Bénédict scoppiò a ridere.

“Questa storia è pazzesca. Comunque, la cosa più importante è che ormai ho le azioni di Tarnogol, che Macaire mi ha gentilmente ceduto. Quanto a te, Lev – o dovrei dire Tarnogol –, poco fa mi hai consegnato la tua lettera di dimissioni. Sono ben felice di sapere che conti di sgomberare il campo. Anche Macaire lascerà la banca, mi nominerà presidente al posto suo e mi consegnerà le azioni di Abel. Alla morte di mio padre avrò l’intero capitale azionario! Sarò il banchiere più potente di tutta la Svizzera! Ecco come andranno le cose, Lev: domani reciterai la parte di Tarnogol ancora una volta. Convocheremo una conferenza stampa, con Tarnogol, Macaire, mio padre e me. Annunceremo che Macaire è stato eletto presidente, ma Macaire darà le dimissioni subito dopo e mi consegnerà le sue azioni, e poi tu annuncerai che te ne vai. Se i giornalisti fanno domande e chiedono perché, inventatevi una storia. Dopodiché ti faccio partire, Lev, e non voglio più rivederti in vita mia. Ti lascio in pace, ti faccio vivere la tua vita da qualche parte nel mondo con Anastasia: è questo che vuoi, no?”

“Affare fatto,” disse Lev. “Non chiedo altro.”

Jean-Bénédict lasciò la camera 623 per ritornare nella sua.

“E adesso?” mormorò Anastasia a Lev, quando furono soli nella stanza.

“Adesso bisogna partire e non ritornare mai più. Non preoccuparti, ho previsto tutto.”

Quella notte, alle tre, poco prima dell’arrivo dei primi dipendenti del Palace, due ombre lasciarono la suite 624, occupata da Lev.

Raggiunsero in silenzio le scale, i passi attutiti dalla spessa moquette, scesero fino al pianterreno e seguirono un corridoio di servizio in fondo al quale c’era un’uscita d’emergenza. Lev spinse la porta: fuori nevicava e soffiava un vento gelido. All’esterno, una stradina innevata. Alfred era lì, li aspettava al freddo. Dietro di lui, una grossa berlina nera con il motore acceso. Lev tenne aperta la porta per far uscire Anastasia, ma lei gli disse: “Aspettami qui, devo risalire lassù.”

“Come!?”

“Devo fare una cosa. È importante!”

“Anastasia, non... Dobbiamo andarcene prima che qualcuno ci sorprenda.”

“Lev, te ne supplico! È importante!”

Lui sospirò.

“Sbrigati allora!”

Lei ritornò all’interno. Lev lasciò richiudere la porta e rimase all’esterno con Alfred. Fuori, nessuno rischiava di vederli.

Attesero a lungo. Avevano i capelli coperti di neve, tremavano, il collo ritratto nel cappotto. Poi la porta si aprì di nuovo e apparve Anastasia. Lev resse il battente perché non si richiudesse.

“Insomma, qual era il problema?” chiese, irritato.

Lei lo fissò un istante prima di rispondere.

“Dovevo farlo.”

“Andiamo!” suggerì Alfred, aprendo la portiera posteriore dell’auto. “Non c’è tempo da perdere.”

Anastasia si infilò nel veicolo ma, quando si girò, vide che Lev non si era mosso e teneva ancora la porta aperta.

“Alfred sa che cosa deve fare,” disse.

L’autista assentì con un cenno del capo.

“Tu non vieni con me?” chiese Anastasia, inquieta.

“Io devo restare qui,” spiegò Lev.

“No, Lev,” lo supplicò lei, “non restare: avrai dei problemi!”

“Non lascerò che la banca cada nelle mani di Jean-Bénédict Hansen! Almeno questo lo devo ad Abel Ebezner.”

Malgrado le proteste di Anastasia, tornò all’interno del Palace, chiudendosi la porta alle spalle. La macchina partì con Anastasia a bordo. Nel segreto della notte, lasciò prima il Palace e poi Verbier, e scese a valle raggiungendo l’aeroporto di Sion, dove entrò direttamente sulla pista. Lì li attendeva un jet privato, pronto al decollo.

Pochi istanti più tardi, l’apparecchio si levava in volo con Anastasia a bordo, diretto a Corfù.

L'enigma della camera 622
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