31.
La buona stella
Sabato 30 giugno 2018, alle undici di mattina, mentre dormivo profondamente nella mia suite al Palace per rimettermi da una notte passata a scrivere, fui svegliato da una serie di colpi alla porta. All’inizio pensai alle cameriere venute a rifare la stanza e decisi di non alzarmi. Ma poiché il mio visitatore insisteva, alla fine andai ad aprire ancora mezzo addormentato. Era Scarlett.
“Va tutto bene?” mi chiese in un tono chiaramente più seccato che preoccupato.
“Benissimo, grazie. Perché?”
“Dovevamo cenare insieme ieri sera. Ma probabilmente lei aveva di meglio da fare.”
“Accidenti, me ne sono completamente dimenticato! Sono davvero dispiaciuto.”
“Sono dispiaciuta anch’io. Ho aspettato per un’ora al ristorante come un’idiota.”
“Perché non ha chiamato direttamente in stanza, sarei venuto subito?”
“È proprio quello che ho fatto, ma era occupato. Secondo la reception, aveva certamente lasciato la cornetta staccata. Allora sono venuta qui e ho bussato alla porta. Non mi ha aperto nessuno. Probabilmente era andato a divertirsi altrove!”
“No, le assicuro che ieri sera ero qui, nella mia stanza...”
“La smetta con le sue storie!” mi interruppe Scarlett. “Può passare le serate come vuole, ma non mi prenda per una stupida!”
“Le assicuro che non le ho dato buca di proposito. Stavo lavorando al mio romanzo, mi sono fatto completamente trasportare.”
“Al punto che non mi ha sentito bussare?”
“Quando mi concentro sulla storia, vengo completamente assorbito. È come se ci fossi anch’io nel romanzo, all’interno dello scenario. E ci sono tutti quei personaggi attorno a me...”
“Ma per chi mi ha preso?” disse lei, esasperata.
“Eppure è la verità,” le assicurai. “È come se fossi in un altro mondo. Senta, mi lasci rimediare: ceniamo insieme stasera. La prego!”
Vedendola esitare, insistei.
“La prego! Mi farebbe molto piacere.”
“D’accordo,” cedette alla fine. “Ma l’avviso che la scusa del libro funziona una sola volta, non due.”
“Promesso.”
Quella sera, dopo avere scritto per tutta la giornata, incontrai Scarlett al ristorante italiano dell’albergo.
“Grazie di essere venuta,” le dissi.
“Pensava che le avrei tirato un bidone?”
“Me lo sarei meritato.”
“Ho l’impressione che più il suo libro va avanti, meno riesco a vederla,” replicò lei.
“È che mi lascio prendere dal romanzo.”
“Le succede spesso?”
“Con ogni romanzo,” confessai.
“È piuttosto sconfortante scoprire che per lei sono meno interessante del suo libro.”
“Le chiedo scusa.”
Per cambiare argomento, le porsi un pacchetto. Ero andato alla libreria del paese per comprarle un regalo.
“A proposito di libri,” dissi, “le ho portato qualcosa da leggere.”
Scartò il pacchetto: era una copia di Via col vento.
“Era uno dei libri preferiti di Bernard,” spiegai. “Mi ha raccontato di averlo letto durante la guerra. Doveva avere circa quattordici anni, e mentre fuggiva in macchina con la madre e il fratello, leggeva Via col vento seduto sul sedile posteriore. Si diceva che l’aviazione italiana bombardasse i convogli di civili e Bernard, immerso nella lettura, sperava che non lo uccidessero prima che avesse finito il libro. Diceva che era un grande romanzo.”
“Cos’è che fa grande un romanzo?” chiese Scarlett.
“Secondo Bernard, un ‘grande romanzo’ è un quadro. Un mondo che si offre al lettore, il quale si lascerà catturare da questa immensa illusione creata con colpi di pennello. Il quadro mostra della pioggia e ci si sente bagnati. Un paesaggio glaciale e innevato, e ci si sorprende a rabbrividire. E diceva: ‘Sa chi è un grande scrittore? Un pittore. Nel museo dei grandi scrittori, di cui tutte le librerie posseggono la chiave, ci aspettano migliaia di tele. Se ci entri una volta, diventerai un habitué.’”
Lei sorrise.
“Parlo un po’ di Bernard nel libro,” le confidai.
“Cosa ne avrebbe pensato lui?”
“Ne sarebbe stato al tempo stesso lusingato e imbarazzato. Mi avrebbe detto: ‘Se la cosa può farle piacere.’ Come tutti i grandi, era modesto. Non amava essere al centro dell’attenzione. Per esempio, non amava festeggiare il suo compleanno. Era nato il 9 maggio. Ovviamente, quel giorno gli telefonavo lo stesso per fargli gli auguri. In fondo, credo che non amasse il compleanno perché gli ricordava la sua età. Gli ricordava che era nato nel 1926. Quando i giornali lo chiamavano ‘il Vecchio Editore’, si imbestialiva. Un giorno, prendendo posto a bordo di un aereo che doveva riportarlo a Parigi da Milano, dove mi aveva accompagnato per festeggiare l’edizione italiana di uno dei miei romanzi, lo steward gli aveva chiesto di cambiare posto con una giovane donna. ‘Perché?’ aveva domandato Bernard. ‘Perché lei è seduto accanto a un’uscita di sicurezza ed è troppo vecchio. Il regolamento lo proibisce. Bisogna avere la forza di aprire l’uscita di sicurezza.’ ‘Io ho più forza della signorina,’ aveva assicurato Bernard. ‘Dovete scambiarvi di posto, signore,’ aveva insistito lo steward. ‘Propongo di fare braccio di ferro con la signorina,’ aveva preteso allora Bernard. ‘Chi vince può sedersi in questo posto.’ Lo steward aveva rifiutato e aveva costretto Bernard a cambiare posto. Dopo non gli era passata per una settimana. ‘Ma si rende conto!’ mi aveva detto. Io però non volevo rendermene conto. Volevo credere che Bernard sarebbe vissuto per sempre. Volevo credere che fosse indistruttibile.”
Ci fu un momento di silenzio.
“Mi ricordo del suo ultimo compleanno,” ripresi. “Nel maggio dell’anno scorso. Otto mesi prima della sua morte. L’ho chiamato per fargli gli auguri, e questa volta non si è arrabbiato. Al contrario, mi ha risposto in tono divertito: ‘Lo sa, Joël, mi dico che se un poliziotto controllasse la mia carta d’identità per strada, guarderebbe stupito la mia data di nascita e mi domanderebbe: «Ma cosa ci fa lei ancora qui?»’”
“E cosa gli ha risposto lei?” chiese Scarlett.
“Ho riso. Ho detto che alla fine ci avrebbe seppelliti tutti. Non per rassicurarlo, ma perché lo pensavo veramente. Malgrado i nostri sessant’anni di differenza, malgrado la sua età, avevo l’impressione che fosse eterno. E poiché mi ero convinto che Bernard ci sarebbe stato sempre, mi sono ripromesso che sarebbe stato il mio solo editore.”
“Cosa vuol dire?”
“Nell’editoria è come in amore. Puoi amare davvero una sola volta. Dopo Bernard non ci sarà nessun altro. Dopo il successo del mio secondo romanzo tutti pensavano che avrei lasciato le Éditions de Fallois per pubblicare con una casa editrice più prestigiosa. ‘Che cosa farà adesso?’ mi chiedevano regolarmente. ‘Avrà certamente ricevuto delle offerte dai più grandi nomi dell’editoria francese.’ Ma quelli che mi ponevano questa domanda non avevano capito che il più grande nome dell’editoria francese era Bernard.”
* * *
Parigi, maggio. Otto mesi dopo l’immenso successo del mio secondo romanzo.
Un giornalista era andato a intervistare Bernard presso la sede delle Éditions de Fallois, al 22 di rue La Boétie. Bernard non amava le interviste, ma a volte, quando glielo chiedevo, accettava di prestarsi al gioco. Nella stanza ero presente anch’io.
Dopo alcune domande di una banalità desolante, il giornalista prese un’aria sorniona e chiese a Bernard, sottintendendo che avrei senza dubbio ceduto alle sirene dei grandi nomi di Saint-Germain-des-Prés: “Pensa che pubblicherà il prossimo romanzo di Joël?”
Io mi feci scarlatto di rabbia e dovetti trattenermi per non scacciarlo a pedate nel didietro. Bernard, invece, sorrise con sguardo malizioso e rispose: “Se il prossimo romanzo di Joël non sarà buono, non lo pubblicherò.”
Non dimenticherò mai quella frase: riassume il rapporto che per tutti questi anni ho avuto con Bernard.
Bernard mi faceva un contratto per un libro, senza vincolarmi in alcun modo per il seguente.
“Un libro alla volta,” mi diceva. “Se non ha voglia di lavorare con me, non la obbligherò di certo.”
Al che gli rispondevo: “E io non le chiedo nessun anticipo. Mi pagherà per quello che vendo. Se il libro ha successo, tanto meglio per tutti. E se non ha successo, ci saremo almeno divertiti.”
“Il successo sta nel piacere di lavorare insieme!” mi ricordava allora Bernard.
I nostri contratti, del resto, ci preoccupavano talmente poco che li firmavamo all’ultimo minuto, spesso quando il nuovo romanzo era già in tipografia.
Più che fare il mio successo, Bernard mi insegnò a gestirlo, soprattutto ricordandomi in continuazione che era ancora da costruire. Un po’ come un allenatore di boxe che fa la predica al suo pupillo dopo un primo round discreto: “Era solo la prima ripresa, ne restano ancora undici.”
E così, un anno esatto dopo l’uscita del mio secondo romanzo, mi scrisse questa e-mail:
Caro Joël,
oggi si festeggia un anniversario. Il 19 settembre 2012 Harry Quebert faceva il suo ingresso in tutte le librerie della Francia, del Belgio e della Svizzera.
Non vado pazzo per gli anniversari, ma questo mi diverte, perché dimostra fino a che punto nella vita tutto è correlato e concatenato e assume un significato più importante.
Quel giorno, il 19 settembre, mi ricordo di essere passato dalla libreria Fontaine per vedere se il libro era in vetrina. C’era. Certo, non doveva essere così dappertutto, perché noi avevamo stravolto tutte le regole e le abitudini per preparare quest’uscita, ma in quella libreria erano amici, li avevamo avvisati in anticipo, e si trovava in vetrina.
Mentre lo guardavo con piacere, mi era tornato in mente quel bel passaggio di Proust in cui racconta della morte di Bergotte:
“Venne condotto alla sepoltura; ma, durante l’intera notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate, e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione.”
Che lezione trarre da tutto questo? Che lei ha pubblicato appena due libri per il momento, e che per poterli vedere un giorno, disposti a tre a tre, nelle vetrine di una libreria, deve scriverne ancora parecchi.
Spero che li guarderemo insieme e che ci ricorderemo del giusto monito di Proust.
Mio caro Joël, sono sicuro che, come me, pensa che non si debba mai sentirsi rassicurati troppo in fretta, né adagiarsi su effimeri successi, ma a ogni modo, ripensando all’anno appena trascorso, mi sembra che non sia stato poi tanto male.
Bernard
* * *
Alzai gli occhi dallo schermo del cellulare, nella cui memoria ero andato a ripescare l’e-mail di Bernard per leggerla a Scarlett.
“Bernard vivrà sempre in me,” mormorai.
“Cosa gli direbbe se fosse qui a tavola, di fronte a lei?” chiese Scarlett.
“Gli direi: ‘Mi manca, Bernard. Parigi non è più la stessa città da quando lei non c’è più. Lei ha cambiato la mia vita, Bernard. Non ho mai potuto ringraziarla.’ Lui avrebbe riso e mi avrebbe risposto con la sua voce calda: ‘Lo ha fatto, Joël, non si preoccupi.’ E io: ‘Sa, credo di non avere più voglia di pubblicare altri romanzi senza di lei.’ Avrebbe riso di nuovo e avrebbe concluso: ‘Ma lei scriveva da prima di conoscermi, e continuerà a scrivere dopo. D’altronde, è già nel bel mezzo di un nuovo romanzo.’”
Pensai che è difficile rendere omaggio alle persone straordinarie. Perché non si sa neppure da dove cominciare. Bernard aveva dato un senso alla mia vita. Aveva sempre vegliato su di me. Era stato la mia buona stella. Ma tutte le stelle prima o poi se ne vanno.
Ero commosso, e sentivo che lo era anche Scarlett. Posò la sua mano sulla mia, affondò gli occhi nei miei. Da una parte e dall’altra del tavolo, i nostri volti si accostarono, e anche le nostre labbra. All’improvviso una voce ci interruppe.
“Signora Leonas?”
Ci voltammo. Un signore bassino in completo ci stava sorridendo.
“Mi perdoni se la disturbo, signora, sono il vicedirettore dell’albergo. Mi hanno riferito che desiderava parlare con qualcuno della direzione e volevo assicurarmi che andasse tutto bene. Mi hanno detto che aveva a che fare con la stanza in cui soggiorna.”
Scarlett rassicurò il vicedirettore spiegando che desiderava semplicemente porgli qualche domanda sui fatti della camera 622.
“Se proprio desidera,” disse allora il vicedirettore. “Anche se non si tratta di un segreto, preferirei che ne parlassimo in un luogo più discreto. Perché non ci vediamo più tardi per discuterne tranquillamente?”
Al termine della cena – un piatto di pasta assolutamente squisito, con salsa di pomodoro e basilico fresco per Scarlett; con burro e salvia per me –, il vicedirettore ci invitò a prendere un digestivo al riparo da orecchie indiscrete. Ci ricevette nell’ufficio del direttore, una stanza dall’atmosfera ovattata, arredata all’antica. Davanti al camino, quattro poltrone che si fronteggiavano offrivano una cornice propizia alla conversazione.
“So che avete interrogato il portiere a proposito della camera 622,” affermò il vicedirettore. “Ci sforziamo di dimenticare quell’episodio tragico della storia del Palace. Come le dicevo, quell’omicidio non è un segreto, ma in genere preferiamo appellarci a una pia menzogna per non spaventare la clientela.”
“Ora che ne parliamo con franchezza, che cosa può dirmi su quell’omicidio?” chiese Scarlett.
“Sfortunatamente non posso aiutarla granché: all’epoca non lavoravo ancora nell’albergo.”
“Chi era il direttore in carica?” chiese Scarlett.
“Edmond Rose,” rispose il vicedirettore. “Il proprietario storico del Palace. È stato lui a far costruire l’albergo. In seguito l’ha diretto e ne è stato l’incarnazione per decenni.”
Mentre parlava, aveva indicato un quadro appeso sopra il camino che raffigurava un uomo in uniforme militare.
“È un ritratto del signor Rose?” chiese Scarlett.
“Sì. A quel che mi hanno detto, il signor Rose era un uomo fuori del comune. Tenente colonnello della riserva nell’esercito svizzero, era dotato di un carisma naturale e sapeva farsi obbedire, ma era anche un uomo di una dolcezza straordinaria.”
“Lei sa per caso come potremmo metterci in contatto con il signor Rose?” chiesi.
“Sfortunatamente è morto da diversi anni.”
“Avremmo bisogno di parlare con un dipendente del Palace presente durante il fine-settimana dell’omicidio,” disse Scarlett.
Il vicedirettore rifletté un attimo prima di rispondere.
“Il personale si rinnova spesso, ma penso che il signor Bisnard dovrebbe essere in grado di darvi dei ragguagli. È il nostro ex responsabile dei banchetti, ha passato tutta la sua carriera qui. È andato in pensione un anno fa, ma abita sempre a Verbier. Lo incrocio spesso al mattino nel bar accanto alla posta. Lo troverete senz’altro lì.”