43.
Personale e confidenziale
Quindici anni prima. Il Gran Weekend
Anastasia arrivò al Palace de Verbier a fine mattinata. Invece di unirsi all’allegra baraonda dei colleghi, percorse da cima a fondo l’albergo alla ricerca di Lev. Lo cercò al bar, nelle sale, in piscina; perlustrò i piani e salì fino alle soffitte dove si trovavano le camere dei dipendenti e dove lui l’aveva portata un anno prima. Era lì che avevano fatto l’amore per la prima volta e si erano promessi di non lasciarsi mai. Bussò alle porte, ma nessuna si aprì. Chiamò disperatamente: “Lev! Lev!”, ma ottenne in risposta solo silenzio. Scese di nuovo nella grande hall, interrogò tutti i dipendenti dell’albergo e della banca che incrociò: nessuno aveva visto Lev.
Alla fine si appostò accanto all’entrata del Palace, osservando le macchine che andavano e venivano. All’improvviso vide arrivare a bordo di un taxi Sol Levovitch. Si precipitò fuori e scese i gradini dell’albergo.
“Signor Levovitch!” gridò.
Lui si voltò. Lo trovò pallido e dimagrito da quando l’aveva visto l’ultima volta.
“Anastasia?”
La fulminò con lo sguardo. Era lei che aveva tanto turbato suo figlio Lev. Non era la ragazza giusta per lui. Si vergognava del suo nome, inventava storie sul loro conto. Prima di lei Lev non aveva mai pensato di andarsene. Prima di lei era felice della sua vita, sempre sorridente, sempre contento. Era stata lei ad allontanarlo da Verbier, lei che lo aveva fatto diventare un banchiere, lei che l’aveva trasformato in un estraneo.
Dal suo sguardo, Anastasia comprese che Sol sapeva qualcosa.
“Signor Levovitch, devo parlare con Lev.”
“Gli ha dato un dispiacere enorme, ieri sera.”
“Si tratta di un terribile malinteso. Dovevo vederlo, ma sono stata trattenuta. È una lunga storia, ma devo assolutamente parlargli. Dov’è?”
“Temo che sia troppo tardi,” si rammaricò Sol.
“Signor Levovitch, è molto importante. Devo parlare con Lev. Mi dica dov’è, ormai ho soltanto lui nella vita. La prego!”
“Sfortunatamente se n’è andato. Ignoro dove sia. Non ha voluto dirmi niente.”
Gli occhi di Anastasia si riempirono di lacrime.
“Se lo vede, gli dica che devo parlargli, la supplico. È stata mia madre a trattenermi ieri sera. Gli dica che è stata mia madre: lui la conosce, capirà.”
* * *
Quella sera a Verbier, ore dieci. Ancora nessuna notizia di Lev.
Anastasia aveva passato la giornata chiusa nella sua magnifica camera al Palace pagata dalla banca. Non aveva mai avuto una camera così tutta per sé. Le era capitato, in passato, di dormire nel letto di un grande albergo di montagna con quei giovani di illustri famiglie a cui la madre cercava di sposarla. Oggi, per la prima volta, quella camera era solo per lei. Ma, disperata perché non aveva notizie di Lev, non ne aveva approfittato. Nelle ultime settimane si era immaginata spesso con lui in quella camera, tra quelle lenzuola, nell’immensa vasca da bagno di marmo. Dov’era?
All’improvviso udì bussare delicatamente alla porta.
“Anastasia?” sentì dire dall’altra parte. “Sono Macaire.”
Andò ad aprire.
“Stai bene?” s’informò Macaire. “Non ti ho vista per tutto il giorno.”
“Sto bene.”
Lui notò i suoi occhi arrossati.
“Hai pianto?”
Per tutta risposta, lei scoppiò in singhiozzi. Macaire entrò nella stanza e la strinse tra le braccia per confortarla.
“Sto così male, Macaire,” mormorò.
“Dov’è che ti fa male? Vuoi che chiami un dottore?”
“Non è nulla che un medico possa curare: ho il cuore spezzato.”
“So cosa significa, ho il cuore spezzato anch’io. Credevo davvero che saresti venuta da me al Lion d’Or, ieri sera.”
Non parlarono più. Le parole non erano necessarie. O non erano sufficienti. Si sedettero sul bordo del letto e rimasero a lungo in silenzio, lei versando tutte le lacrime che aveva in corpo e lui soffrendo, sapendola così vicina eppure così lontana. Alla fine, quando se ne andò, le mormorò: “Anastasia, non riesco a immaginare la mia vita senza di te.”
“Macaire, io...”
“Dimmi che non mi ami, che non conto niente per te.”
“Conti,” gli assicurò lei, “ma non come vorresti contare nel mio cuore.”
Lui fece una smorfia di dolore. Poi la implorò, rifiutandosi di accettare la realtà: “Te ne supplico, riflettici ancora. Potremmo essere così felici insieme. Ti renderò felice. Ti proteggerò, non ti farò mancare mai niente. Dimmi che ci rifletterai, che c’è una speranza.”
Lei non ebbe la forza di rispondere.
Lui continuò: “Domani sera, al ballo, vivrò uno dei momenti più importanti della mia vita. Ho bisogno che tu sia lì al mio fianco. Almeno come amica.”
“Ci sarò,” promise lei con un filo di voce.
Quando Macaire lasciò infine la stanza, Anastasia si sedette alla piccola scrivania. In uno dei cassetti trovò della carta da lettera e delle buste con lo stemma del Palace. Scrisse due lettere. Una per Lev. E l’altra per Macaire. In fondo, pensò, erano le due persone che avevano veramente contato nella sua vita.
Due lettere, brevi, perché tutto fosse detto.
Due lettere, come se potesse scrivere il proprio destino.
Era all’incirca mezzanotte quando lasciò la sua camera, con le due buste in mano, e scese nella hall del Palace. Era deserta. Un’unica sagoma, inquieta, scrutava fuori attraverso la grande porta girevole. Era Sol Levovitch, che aspettava disperatamente suo figlio e non si era mosso da lì. Avevano litigato a Martigny e Lev era scappato in preda alla collera. Doveva parlargli. Doveva raccontargli tutto. All’improvviso si sentì chiamare.
“Signor Levovitch?”
Si voltò: era Anastasia. Gli rivolse un sorriso triste.
“Signor Levovitch,” gli disse, porgendogli la lettera per Lev. “Potrebbe consegnare questa a Lev non appena lo vedrà? È molto importante. Ne va del nostro futuro.”
“Conti su di me,” promise Sol.
“Gli dica anche,” aggiunse Anastasia, “che farò richiesta per un posto di cameriera in questo albergo. Che resterò qui ad attenderlo tutto il tempo che sarà necessario.”
Sol Levovitch, senza comprendere appieno, annuì. Notò la seconda busta che teneva in mano e lesse il nome che c’era scritto sopra: “Macaire.”
“Vuole che faccia recapitare quella lettera a qualcuno?” le propose in tono innocente.
“È... È per un cliente dell’albergo. Macaire Ebezner, non conosco il numero della sua camera.”
“Posso fargliela portare. Solo se lo desidera, naturalmente.”
“È tardi,” fece notare Anastasia.
“Lo faranno domattina presto.”
“Bisogna consegnarla a lui personalmente. È molto importante.”
“Sarà fatto.”
Lei esitò un istante. Pensava che fosse vile non darla direttamente lei a Macaire, ma sapeva che l’avrebbe letta in sua presenza e avrebbe riattaccato con le suppliche. Non aveva più la forza di sopportare quelle manfrine. Affidò la lettera a Sol e si allontanò.
Sol Levovitch andò a sedersi nel suo ufficio. Aprì le due buste e lesse le lettere.
Lesse prima la lettera di Anastasia a Lev. Ne fu costernato, si sentì attanagliare dall’angoscia. Poi lesse quella per Macaire e pensò che si poteva fare qualcosa.
Afferrò una lente di ingrandimento, un paio di forbici e un tubetto di colla, prese le due lettere e ritagliò abilmente la prima riga di ciascuna di esse. Una volta che ebbe terminato, si intrufolò negli uffici dell’amministrazione dove le fotocopiò con una macchina a colori di ultima generazione. Dalla fotocopiatrice uscirono due nuove lettere: il risultato era perfetto. A meno di studiarle con una lente d’ingrandimento, era impossibile accorgersi che il testo scritto in blu era solo una copia.
Nell’istante in cui Sol raggiunse nuovamente il suo posto di osservazione all’entrata del Palace, arrivò Lev.
“Lev,” disse Sol, accogliendolo nella grande hall, “finalmente sei tornato! Sono stato così in pensiero.”
Lev gli lanciò un’occhiata torva.
“Sono tornato solo per vedere Anastasia. Devo parlarle.”
“Aspetta... Ci sono cose di cui dobbiamo discutere.”
“Cosa vuoi?” chiese Lev in tono secco. “Vuoi forse spiegarmi a che gioco giochi?”
“Sono molto malato, Lev.”
“Malato? Che genere di malattia?”
“Ho un cancro. Non mi resta più molto da vivere.”
“Perché dovrei crederti?”
“Perché è la verità.”
Sol si rendeva conto che il figlio ce l’aveva a morte con lui. Temeva che se ne sarebbe andato lontano, e questo pensiero lo spaventava. Suo figlio era l’unica cosa che aveva. Non voleva morire da solo. Non voleva passare i suoi ultimi mesi senza nessuno al suo fianco. Era il suo più grande terrore. Solo qualche mese, non chiedeva altro. Poi Lev avrebbe avuto tutta la vita per trovare un’altra Anastasia. C’erano tante donne, ma un solo figlio.
A quel pensiero, Sol si infilò la mano in tasca e decise di mettere in atto il suo piano, pur considerandolo codardo.
“Non voglio abbatterti ancora di più,” disse Sol, “ma stasera ho visto Anastasia al braccio di un altro. Rideva, sembrava felice. Sembrava innamorata.”
“Non credo a una sola parola!” disse Lev, turbato.
“Un certo Macaire,” aggiunse Sol. “È lui quello di cui mi hai parlato, no? Quello che ha raggiunto ieri al Lion d’Or, non è così? Poco fa ho intercettato due lettere che Anastasia ha lasciato alla reception, una per te e l’altra proprio per questo Macaire.”
Sol mostrò le due buste che teneva in mano.
“Da’ qua!” disse perentorio Lev.
“Dopo quello che ho visto tra Anastasia e quel ragazzo, non vorrei che fossero brutte notizie,” lo avvisò il padre.
“Dammele!” pretese Lev, strappando le lettere di mano al padre.
Le aprì precipitosamente, le lesse e si accasciò su un divanetto. Poi, in un gesto di rabbia, le appallottolò e le scagliò contro il muro. Il padre raccolse le lettere che aveva contraffatto e fece finta di scoprirne il contenuto in quel momento:
Mio Macaire,
non amo che te. Scappiamo insieme. Andiamo lontano da Ginevra.
Me ne infischio del tuo grande destino in banca, me ne infischio dei soldi.
Tutto ciò che voglio è stare con te.
Ti amo per sempre.
Anastasia
Lev, mio Lev,
avrei dovuto avere il coraggio di dirtelo in faccia, ma te lo scrivo: non voglio stare con te. È la ragione per la quale non sono venuta ieri sera. Avresti dovuto capirlo. Contrariamente a ciò che tu pensi, non abbiamo un futuro insieme.
Non volermene. Sai che ti voglio bene.
Spero che mi perdonerai.
Con tutto il mio affetto,
Anastasia
“Vuole quello ricco,” disse Sol con aria rattristata. “Tu sei solo un povero, e resterai povero. Mi dispiace molto, ma sei soltanto un Levovitch, figlio mio.”
Lev si sentì vacillare dal dolore. Si alzò e barcollò, come se gli avessero sparato, in direzione della grande porta del Palace.
“Dove vai?” gli chiese il padre.
“A fare un giro.”
“Aspetta!”
“Ho bisogno di stare da solo.”
Varcò la porta e scese i gradini dell’albergo, con il padre che gli andava dietro.
“Aspetta, Lev!” supplicò Sol, temendo che il figlio potesse fare qualche sciocchezza.
Ma Lev scappò nella notte. I suoi passi affondavano nella neve fresca, l’aria fredda gli sferzava il viso. Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Urlò come se avesse perso tutto. Prese a correre, senza una meta, senza ragione, e sbucò sulla strada principale del paese di Verbier.
Era tutto spento. Accese una sigaretta, fece qualche passo nell’oscurità e si imbatté in un bar ancora aperto. Dalla vetrina, la vide. Sola al banco. Con il cuore che gli batteva forte, varcò la porta per raggiungerla. Lei non lo notò subito. Si sedette al banco accanto a lei, che all’improvviso girò la testa e gli sorrise. Lui ricambiò il sorriso.
“Buonasera, Petra,” disse.
“Buonasera, Lev,” rispose lei.
Ordinò vodka per due e bevve fissando gli occhi della giovane donna che ardevano di desiderio per lui. Se Anastasia voleva Macaire, che partisse pure con lui! Poteva avere qualsiasi donna. Gli bastava uno schiocco delle dita per sostituirla. Le avrebbe dimostrato chi era Lev Levovitch, e che non aveva motivo di vergognarsi del suo nome. Si protese verso Petra e la baciò. Lei rispose subito al bacio con passione. Si fermò solo per sussurrargli: “Da quanto aspettavo questo momento!” Si baciarono di nuovo.
La notte era tutta per loro.