14.
Un segreto

Erano le dieci. In casa Ebezner covava un segreto.

Arma era stata congedata nonostante non avesse ancora finito di lavare i piatti e non avesse sparecchiato la tavola. Macaire le aveva detto che avrebbe potuto fare tutto l’indomani, che per quel giorno aveva lavorato abbastanza. Era molto insolito, e Arma aveva pensato che doveva essere successo qualcosa di grave perché il padrone si comportasse in quel modo. Al momento di andarsene, mentre si attardava davanti alla porta chiusa della sala da pranzo, aveva sentito Macaire esclamare dall’altra parte: “Non permetterò a Lev Levovitch di rubarmi la carica di presidente!” Il signore non era quindi certo di essere eletto presidente della banca? Era questo che lo preoccupava negli ultimi giorni? Aveva così deciso di spiare.

Nella sala da pranzo, Macaire e Jean-Bénédict avevano pianificato minuziosamente quella che avevano battezzato l’Operazione Ribaltamento, elaborata da Macaire secondo uno schema degno della P-30.

Dopo lunghe discussioni, per essere certi che tutto funzionasse alla perfezione, Macaire e Jean-Bénédict ripeterono scrupolosamente la partitura del loro duetto.

L’Operazione Ribaltamento avrebbe avuto luogo due giorni dopo, la sera di giovedì 13 dicembre, durante la cena di gala annuale dell’Associazione dei banchieri ginevrini nella sala da ballo dell’Hôtel des Bergues. Era una serata imperdibile, che vedeva riuniti i membri del Consiglio e i soci delle banche private di tutta la città. Il fior fiore della categoria. Jean-Bénédict doveva partecipare, accompagnato da Charlotte. Horace Hansen aveva declinato l’invito, ma Tarnogol ci sarebbe stato.

“Quindi Anastasia e io andremo a quella cena al posto vostro,” ricapitolò Macaire.

“Sì, Charlotte sarà contentissima della nostra rinuncia, perché ha dei biglietti per assistere a un concerto d’organo alla Victoria Hall con sua sorella.”

“Jean-Béné, sei certo che Anastasia e io saremo seduti al tavolo di Tarnogol?”

“Certissimo,” assicurò Jean-Bénédict. “È sempre così a quella cena. I banchieri di uno stesso istituto vengono sempre messi allo stesso tavolo.”

“Approfitterò dunque del pasto per riguadagnare la stima di Tarnogol,” spiegò Macaire. “Poi, un po’ prima della fine della serata, gli dirò che vorrei avere un colloquio riservato con lui e lo porterò fuori a fare due passi sul lungofiume, davanti all’albergo.”

“La serata finisce alle dieci,” precisò Jean-Bénédict, “è scritto sull’invito. Tu portalo fuori verso le nove e mezzo, al momento del caffè. Tutti gli invitati saranno ancora impegnati e i paraggi dell’albergo saranno deserti.”

“Quindi Tarnogol e io facciamo due passi,” riprese Macaire. “Una conversazione molto seria, gli dico che penso che dovrei essere io il presidente della banca. Camminiamo lungo il quai des Bergues, costeggiando il Rodano. A quell’ora non c’è un cane, soprattutto in dicembre. Saremo soli sul lungofiume deserto e buio.”

“Sì, tra l’illuminazione scarsa e la foschia che sale dal Rodano, non si vedrà un granché,” affermò Jean-Bénédict, che prendeva spesso il quai des Bergues quando doveva rientrare a piedi a casa dalla riva destra del fiume. “Io sarò nella mia macchina, in agguato. Fa’ in modo di camminare al centro del lungofiume. Siete distratti dalla conversazione e non prestate attenzione alla macchina che sbuca alle vostre spalle, il cui conducente ha dimenticato di accendere i fari.”

“Quando ti sei posizionato dietro di noi,” continuò Macaire, “accendi i fari e dài una strombazzata col clacson. È il segnale per me. Io afferro Tarnogol per il braccio e lo tiro a me con tutte le forze. Finiamo tutti e due per terra, in una caduta spettacolare. Tu acceleri subito, sfrecci accanto a noi a tutta velocità come se non ci avessi visti e prosegui a razzo per la tua strada. Tarnogol allora capirà che gli ho appena salvato la vita. Dovrà riconoscere di che tempra sono fatto. Non vedo proprio come dopo un episodio simile potrebbe negarmi ancora la presidenza.”

Dopo un lungo silenzio, Jean-Bénédict manifestò una reticenza:

“E se sbaglio manovra e lo investo?” chiese preoccupato.

“Impossibile. Non dimenticare le istruzioni: tu ti avvicini a noi molto lentamente, per non farti sentire. Acceleri solo dopo aver suonato il clacson, nel momento in cui tiro Tarnogol verso di me. Quando tu acceleri, noi già non saremo più sulla tua traiettoria. Ci sfiorerai, e questo darà un’impressione di velocità, ma non sarà che un’illusione. Non può succederci niente.”

“E se qualcuno prende la targa?”

“Mettiti sufficientemente lontano dall’albergo, in modo che i dipendenti non possano vederti. E prima di passare all’azione, assicurati che non ci sia nessuno in strada. Il lungofiume è sufficientemente lungo perché io prolunghi la nostra passeggiata finché non sarai certo che non ci sono testimoni. Quanto a Tarnogol, rotolerà per terra con me e non avrà tempo di vedere nulla. Mentre si rialza, tu sarai già lontano. Hai un modello d’auto estremamente comune, nessuno potrà risalire a te. E poi, puoi sempre mettere un po’ di neve sulla targa, non so se mi spiego!”

“E se Tarnogol preferisce camminare sul marciapiede?” chiese ancora Jean-Bénédict.

“Ci penso io a portarlo dove deve stare. Questa è una mia responsabilità. La tua è assicurarti che non ci siano testimoni. Una volta che questi due elementi combaciano, dammi il segnale suonando il clacson: io tirerò bruscamente Tarnogol a me e tu ti dileguerai. È semplicissimo.”

Jean-Bénédict non si sentiva tranquillo.

“Non so se ho voglia di farlo. Questa storia potrebbe prendere una brutta piega. Ho l’impressione che tu stia un po’ esagerando,” disse alla fine.

“Andiamo, non è niente: è solo una messinscena,” disse Macaire per convincere il cugino.

“È qualcosa di più di una semplice commedia,” ribatté Jean-Bénédict.

Macaire assunse un’aria seccata.

“Sai cosa? Se vuoi piantarmi in asso, fa’ pure. Credevo che la nostra amicizia fosse più salda. Ieri mi hai detto che avresti fatto di tutto per aiutarmi. A quanto pare hai cambiato idea. Non aspettarti poi che io ti tratti in maniera corretta una volta che sarò diventato presidente.”

Questa minaccia convinse definitivamente Jean-Bénédict.

“Resta inteso,” aggiunse Macaire, “che la nostra piccola operazione deve rimanere un segreto assoluto. Nessuno deve saperne niente, comprese le nostre mogli.”

Macaire aveva, suo malgrado, pronunciato quest’ultima frase in un tono di estrema gravità e si sforzò subito di distendere l’atmosfera con una risata allegra. Non voleva ammetterlo di fronte a Jean-Bénédict per non spaventarlo ancora di più, ma non gli sfuggiva certo che quell’operazione comportava seri rischi. E tuttavia, era anche l’operazione dell’ultima chance.

Arma aveva appena raggiunto il suo piccolo appartamento nel quartiere delle Eaux-Vives. Abitava da sola in un bilocale all’angolo tra rue de Montchoisy e rue de Vollandes. Aveva lasciato con discrezione la casa degli Ebezner dopo aver ascoltato tutto il racconto del piano di Macaire e Jean-Bénédict. Era preoccupata. Si domandava come sarebbe andata a finire quella storia.

Si preparò un tè e si accomodò in salotto per sfogliare la copia della “Tribune de Genève” che si era portata dalla casa dei padroni. Gli Ebezner le permettevano sempre di prendere il giornale al termine della giornata di lavoro.

Osservò attentamente la grande foto in prima pagina che quella mattina, durante la colazione, aveva tanto contrariato il signore. Due uomini camminavano fianco a fianco nel parco della Perle du Lac sorridendosi come complici, circondati da guardie del corpo, sotto gli sguardi stupiti delle altre persone. Arma riconobbe senza difficoltà uno dei due uomini: era il presidente della Repubblica francese. Il secondo, un uomo bellissimo ed elegante, si chiamava Lev Levovitch.

Leggendo quel nome, Arma alzò gli occhi dal giornale, sbigottita: all’improvviso tutte le tessere del puzzle si erano ricomposte nella sua testa.

Se quel tipo sul giornale – quel Levovitch – aveva fatto infuriare tanto il signore quella mattina, era perché voleva impossessarsi della sua carica di presidente. Era lo stesso nome che il signor Macaire aveva pronunciato mezz’ora prima nella sala da pranzo: “Non permetterò che Levovitch mi rubi la carica di presidente!” Lev Levovitch, con un nome del genere non potevano essercene due a Ginevra! Il che significava che questo Lev Levovitch del giornale era anche l’amante della signora. Non c’era alcun dubbio.

Il giorno prima, durante quella misteriosa telefonata arrivata a casa Ebezner, la signora aveva detto al suo interlocutore: “Sei completamente pazzo a chiamarmi qui, Lev!” Arma se ne ricordava perfettamente. Era stato quel Lev a spedire l’enorme mazzo di rose bianche. Quando la signora aveva aperto la porta, nel pomeriggio, sembrava conoscere l’uomo venuto a portare i fiori, che aveva l’aria di essere un autista. “Da parte di Lev,” aveva detto l’uomo. La signora pensava che Arma non l’avesse visto, ma lei aveva visto tutto! Il mazzo era accompagnato da un biglietto: non appena la signora l’aveva letto, era andata a chiudersi in bagno, prima di prendere il largo, sicuramente per raggiungerlo.

Lev Levovitch era al tempo stesso l’amante della signora e colui che voleva rubare la presidenza della banca al signore!

Arma sentì montare la collera. Afferrò una penna e, con gesto rabbioso, coprì di tratti neri il volto di Lev prima di strappare a pezzettini la foto per farlo sparire del tutto. Ah, come lo odiava, quel rovinafamiglie che metteva a soqquadro la vita del suo padrone!

Poi, smarrita, afferrò dal tavolino in salotto la foto del signor Ebezner che conservava in una bella cornice argentata. La rimirò a lungo. Doveva risalire a qualche anno prima: Macaire aveva l’aria talmente serena. Era elegante, in smoking, probabilmente a una serata di gala. Arma aveva trovato quella foto a casa degli Ebezner, in una scatola relegata sul fondo di un armadio, traboccante di immagini che da anni aspettavano di essere riordinate. Macaire era così bello in quello scatto, e nessuno poteva ammirarlo! Era sconfortante. Si era accordata da sola il permesso di prendere la foto e da allora la conservava religiosamente.

Arma accarezzò il volto di carta e vi depose un bacio. Il suo Macaire, quell’uomo così eccezionale. Gli sorrise, poi gli sussurrò quella parolina dolce che lui amava tanto: “Micino.” Pensò di essere la sola ad amare veramente Macaire.

Prese un album cartonato posato sul tavolino del salotto nel quale conservava gelosamente tutti gli articoli che ripercorrevano la successione di Ebezner padre e quella che lei considerava l’ascesa di Macaire. Come faceva quasi tutte le sere, li passò in rassegna.

MORTO IL BANCHIERE ABEL EBEZNER

Il presidente della Banca Ebezner è morto domenica sera a ottantadue anni. Ha lasciato un’impronta nel mondo bancario di Ginevra.

ABEL EBEZNER:

LA SCOMPARSA DI UN GRANDE BANCHIERE

Carismatico e brillante, ma anche irascibile, ecco cosa si diceva di Abel Ebezner, un uomo che precorreva i tempi, pur restando rispettoso delle tradizioni. Sotto la sua guida, la banca di famiglia è diventata il fiore all’occhiello del sistema bancario privato elvetico, distanziando nettamente gli abituali motori delle piazze finanziarie ginevrina e zurighese. Come vuole la tradizione della Banca Ebezner fin dalla sua fondazione, dovrebbe essere in linea di principio suo figlio Macaire, che già opera all’interno dell’istituto come gestore patrimoniale, a succedergli.

CHI SARÀ IL SUCCESSORE DI ABEL EBEZNER?

Secondo alcune voci Abel Ebezner avrebbe deciso di non nominare personalmente suo figlio Macaire presidente della Banca Ebezner, lasciando al Consiglio il compito di eleggere il successore.

FULMINE A CIEL SERENO NELLA BANCA EBEZNER

Il legale della famiglia Ebezner, l’avvocato Peterson, ha confermato durante una conferenza-stampa le disposizioni prese da Abel Ebezner. Spetterà proprio al Consiglio della banca la responsabilità di nominare il nuovo presidente dell’istituto. “Abel Ebezner resta un visionario anche nel momento del trapasso,” ha spiegato l’avvocato con la solita verve. “Per il bene della banca, ha preferito abbandonare delle tradizioni obsolete e nepotistiche per indirizzarsi verso un’elezione che assegnerà d’ora innanzi la poltrona presidenziale non più su base ereditaria, bensì secondo la competenza per la direzione di una banca così importante.”

SABATO PROSSIMO MACAIRE EBEZNER

SARÀ NOMINATO PRESIDENTE DELLA BANCA EBEZNER

Non vi sono più dubbi: sarà proprio Macaire Ebezner, 41 anni, a prendere in mano le redini della più importante banca privata svizzera, di cui è unico erede. La notizia è stata confermata in maniera indiretta da un membro influente della banca che desidera rimanere anonimo. “Soltanto un Ebezner può dirigere la Banca Ebezner,” ha affermato.

Secondo alcuni, questa nomina affidata al Consiglio altro non sarebbe che un colpo di genio del defunto Abel Ebezner che, senza rompere con la tradizione, garantisce al figlio una maggiore legittimità. Per altri, si tratterebbe soprattutto di un enorme espediente pubblicitario messo in atto dalla Banca Ebezner, che è riuscita in tal modo a calamitare su di sé l’attenzione di tutti.

Arma richiuse l’album con un gesto furioso.

Come poteva la signora fare una cosa del genere al signore? Tradirlo – e per di più con quel tipo che voleva strappargli la carica di presidente? Come poteva tradirlo così? Nei dieci anni in cui era stata al servizio degli Ebezner, Arma era stata orgogliosa di condividere la vita quotidiana di quella che era ai suoi occhi una coppia modello, che incarnava le sue stesse aspirazioni. Ma la signora adesso aveva rovinato tutto. E la delusione di Arma era altrettanto grande dell’ammirazione che aveva sempre provato per lei. Fino ad allora l’aveva considerata una persona fuori del comune: bella, vivace, intelligente, spiritosa, dotata in tutto e per tutto. La donna che chiunque notava immediatamente alle feste e ai cocktail. Proprio quello che ci voleva per sedurre un uomo straordinario come il signore. Ed era per questa ragione che, malgrado i sentimenti che nutriva per il padrone, Arma era sempre stata incapace di provare la benché minima gelosia verso la signora. Era troppo superiore, troppo inarrivabile. Cos’era mai in confronto a quella principessa russa, lei, la piccola domestica albanese, che stava tutta la giornata in grembiule?

Ma la signora evidentemente non si rendeva conto di quanto fosse fortunata a essere la moglie di Macaire Ebezner. Non lo meritava più. Il signore doveva sapere tutto.

Arma rimpiangeva ora di non aver osato dire nulla al padrone. Era stata debole. Era stata vigliacca. Ma era finita!

Domani lo avrebbe avvisato.

Domani gli avrebbe detto tutto!

* * *

Quella sera, alle undici e mezzo, quando Anastasia rientrò a casa, Jean-Bénédict se n’era andato da un pezzo. Macaire stava aspettando il ritorno della moglie in salone: aveva bisogno di parlarle della cena di giovedì. Sentendola entrare nell’ingresso, si precipitò ad accoglierla.

“Buonasera, passerotta, hai passato una bella serata?”

Per tutta risposta Anastasia, scura in volto, sbatté la porta d’ingresso brontolando. Era chiaramente di pessimo umore.

“Me ne vado a letto,” disse, dirigendosi subito verso le scale.

Giusto il tempo di spegnere le luci nel salone e, quando la raggiunse nella camera padronale, si era chiusa in bagno. Macaire bussò delicatamente alla porta.

“Vorrei solo lavarmi i denti,” disse per farsi aprire.

Dall’altro lato, Anastasia fece finta di non sentire. Aprì completamente il rubinetto e si sedette sulla tazza del water. Lev le aveva dato buca. L’aveva aspettato per ore come un’idiota. Aveva cercato di contattarlo sul cellulare, all’albergo; aveva lasciato dei messaggi. Niente. Neppure la benché minima notizia. Si detestava per averci creduto, si detestava per essersi sentita tanto felice. Non sapeva più se era triste o furiosa. E adesso anche Macaire che voleva discutere.

Uscì dal bagno soltanto quando fu pronta a coricarsi. Macaire si precipitò dentro per lavarsi rapidamente i denti e poi parlare alla moglie. Ma lei si buttò a letto e si raggomitolò su se stessa, fingendo di dormire per evitare di dover fare conversazione col marito.

Quando Macaire riapparve in pigiama, trovò la moglie voltata sul fianco in posizione fetale.

“Dormi già, passerotta?” chiese, infilandosi sotto le lenzuola.

Lei non rispose. Nel dubbio, decise di parlare alla sua schiena:

“Sai, oggi c’è stato un piccolo problema in banca. Tarnogol mi ha redarguito pesantemente. Dice che non mi affiderà la presidenza. Mi resta ancora qualche giorno per convincerlo che sono l’uomo giusto. A questo proposito, potresti tenerti libera per giovedì sera? Ci sarà la cena dell’Associazione dei banchieri ginevrini all’Hôtel des Bergues. Jean-Béné e Charlotte ci cedono il posto. È una cena molto importante.”

‘Sai che barba!’ pensò lei, sforzandosi di restare totalmente immobile. ‘Ecco un’altra ridicola cena di banchieri.’ Allora Macaire le chiese:

“Dimmi, passerotta, se non diventassi il presidente della banca, mi ameresti lo stesso?”

Lei non si mosse. Di certo dormiva già della grossa. Tanto peggio per la risposta. Macaire era triste: si rendeva conto benissimo che la moglie non gli prestava più attenzione. Prese un sonnifero e in poco tempo si addormentò.

Anastasia era ancora sveglia quando il russare del marito risuonò in tutta la stanza. Si girò verso di lui e osservò il suo gentile dormiglione. Si sentì cattiva: era arrabbiata con Lev e a farne le spese era Macaire. Sarebbe andata a quella serata giovedì e l’avrebbe aiutato a riguadagnare la stima di Tarnogol. Avrebbe continuato ad amarlo se non fosse stato eletto presidente della banca? Presidente o no, era da tempo che non provava più alcuna passione per lui. Ma poi, ne aveva mai provata? A sedurla era stata la sua gentilezza: sotto delle apparenze talvolta ruvide, Macaire era un uomo fondamentalmente buono, con un animo retto e un cuore generoso. Quando aveva accettato la sua proposta di matrimonio, era così giovane e ingenua. Aveva un bisogno vitale di gentilezza. Aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lei. Bisogno di curare le piaghe della vita, di scappare lontano da sua madre. Macaire era un uomo che non le avrebbe mai fatto del male. Sempre pieno di premure, sempre a farsi in quattro per lei. Ma gli uomini che si fanno in quattro sono uomini conquistati, e la passione non sopravvive alla conquista.

Adesso aveva bisogno di passione. Aveva trentasette anni e ancora tutta la vita davanti a sé. Una vita che non voleva più condividere con Macaire. Voleva dei figli, ma non con lui. Ora se ne rendeva conto. Per tutti quegli anni aveva preso la pillola di nascosto, pensando che fosse a causa di sua madre se non voleva avere figli. E Macaire aveva consultato tutti gli specialisti della città, convinto che dipendesse da lui! Ma adesso si sorprendeva a sognare di avere un figlio da Lev.

Perché diavolo Lev non era venuto all’appuntamento? La prendeva in giro? E se avesse lasciato Macaire e non avesse funzionato con Lev? Si sarebbe ritrovata senza niente. La miseria era la sua più grande paura. Cercò di rassicurarsi pensando che avrebbe trovato un lavoro, se la sarebbe cavata. Avrebbe vissuto una vita modesta. Senza menzogne. In fondo, tutto questo non era che una grande menzogna. Tutto per colpa di sua madre. Forse avrebbe dovuto consultare quel dottor Kazan, di cui Macaire diceva sempre meraviglie. Lui avrebbe senz’altro potuto aiutarla a vederci più chiaro.

Tutti quei pensieri non fecero che alimentare la sua insonnia. Macaire, a giudicare dal suo russare, dormiva profondamente. Anastasia decise di andare in cucina a prepararsi una tisana. Prima di lasciare la camera, prese la piccola pistola dorata che conservava in fondo a un cassetto del comò. In quella grande casa, di notte aveva paura. C’erano già stati alcuni furti nel quartiere. Era stato Macaire a comprarle quell’arma, due o tre anni prima, dopo che i vicini erano stati derubati durante il sonno. Voleva che lei si sentisse al sicuro quando lui si assentava per i suoi viaggi d’affari. Aveva perfino fatto incidere sul calcio “Anastasia”. Era un bell’oggetto.

Infilò l’arma nella tasca della vestaglia e scese in cucina.

Avrebbe continuato ad amarlo se non fosse stato eletto presidente? Ma lei sapeva che non sarebbe diventato presidente fin dal giorno prima della morte di Ebezner padre. Ripensava spesso all’ultima sera di Abel Ebezner.

Circa un anno prima. Inizio di gennaio

Il medico aveva chiamato Macaire e Anastasia al capezzale di Abel, pronosticando che gli rimanevano appena poche ore di vita. Entrando nella grande dimora patrizia di Collonge-Bellerive, Anastasia fu colpita dall’odore di morte che l’aveva già invasa.

Abel era nel suo letto, smagrito e rigido, ma con la mente ancora lucida. Lei gli posò un bacio sulla fronte, lui le prese la mano e le fece un complimento, come sempre. Si sorrisero affettuosamente. Era sempre andata molto d’accordo con il suocero. Dopo avergli dato un altro bacio sulla fronte, lasciò la stanza per concedere un attimo di intimità a Macaire e suo padre. Ma poiché era rimasta dietro la porta socchiusa, aveva sentito tutto della loro ultima conversazione.

Abel Ebezner assunse il tono scostante con cui era solito rivolgersi al figlio e gli disse:

“Eccomi giunto al termine della mia vita. A dover fare un bilancio umano, ho avuto un unico figlio, e sei tu. Se l’avessi saputo, avrei cercato di farne almeno due. Hai dato tanti dolori a tua madre, lo sai. Pace all’anima sua!”

“Ho cercato di fare del mio meglio, papà.”

“Be’, avresti potuto impegnarti di più!”

“Mi dispiace, papà.”

“È facile dispiacersi, ma non aggiusta niente. Comunque, al momento di andarmene in vacanza per sempre, volevo parlarti della presidenza della banca.”

“Ti ascolto, papà!” disse Macaire, lasciando trasparire nella voce una punta di eccitazione.

“Sai bene che non intendo permettere a Tarnogol di assumerne le redini! Quindi ho previsto nelle mie ultime volontà di interrompere la modalità di trasmissione della presidenza che ha sempre prevalso sin dai tempi di Antiochus Ebezner e, per la prima volta in trecento anni di esistenza della banca, decidere io stesso chi sarà il mio successore, come i miei poteri di presidente mi consentono di fare.”

“È un’ottima idea, papà,” si congratulò Macaire con la voce di un cagnolino che aspetta la sua ricompensa.

“Non serve a niente adularmi, Macaire, non ti nominerò presidente! Quindici anni fa mi hai umiliato come non mai cedendo a Tarnogol le azioni che ti avevo trasferito! Hai disonorato il tuo nome e la tua famiglia facendo entrare nel Consiglio quel pazzo, quel buzzurro senza maniere e senza pudore che puzza di denaro sporco. Te la farò pagare per tutta la vita. E chiaramente, è fuori questione che Tarnogol, l’attuale usurpatore della vicepresidenza, o quell’idiota di tuo cugino Jean-Béné, e ancor meno quell’arrogante di suo padre, diventino presidenti! Ho dunque deciso che sarà il Consiglio della banca a nominare il mio successore, purché non sia nessuno di loro. Così posso andarmene in pace. Quanto a te, ti ho già dato una quantità spropositata di soldi, ho pagato la tua gigantesca casa, hai ricevuto un’eredità da tua madre, erediterai tutto ciò che è mio: non avrai problemi per il resto dei tuoi giorni, e sarà così anche per qualche generazione a seguire, ammesso che Anastasia e tu abbiate dei figli. Senza contare il gruzzolo che ti sarai fatto rivendendo le tue azioni a quell’essere spregevole di Tarnogol. Sai, in fondo, è stata questa la cosa che più mi ha deluso di te. Che tu sia anche venale. Appena ti ho regalato le mie azioni, sei andato subito a rivenderle al migliore offerente.”

“Non ho venduto le mie azioni, papà. Te l’ho sempre detto! Non l’avrei mai fatto! Non è mai stata una faccenda di soldi.”

“È difficile crederti, Macaire,” gli fece notare il padre. “Non hai mai voluto spiegarmi per quale ragione né a quali condizioni hai ceduto le tue azioni a Sinior Tarnogol, se non è stato per soldi!”

“Mi prenderesti per un pazzo, papà,” rispose Macaire con voce triste.

Si alzò dalla sedia e baciò suo padre in fronte per dirgli addio.

* * *

Il fischio del bollitore strappò Anastasia ai suoi pensieri. Versò l’acqua in una teiera, poi mise in infusione la tisana.

Ripensava spesso a quell’ultima scena tra Macaire e suo padre. Con cosa aveva scambiato le azioni della banca? Non lo aveva mai rivelato a nessuno, neppure a lei.

Abel era morto poco dopo che loro avevano lasciato la casa. Come se avesse aspettato per morire da solo. Anastasia pensò che Abel era sempre stato un uomo circondato e cercato da tutti, ma in fondo molto solo. Le sue esequie non avevano fatto eccezione. La cerimonia si era svolta in un gelido mattino nella cattedrale di San Pietro: la chiesa traboccava di gente. Curiosi, amici, autorità della città e del cantone, membri dell’alta società ginevrina, rappresentanti delle diverse banche del paese. Non mancava nessuno.

Poi, secondo le volontà di Abel, la sepoltura aveva avuto luogo nella più stretta intimità. Solo tre persone avevano accompagnato il defunto fino alla fossa nel cimitero di Saint-Georges: Macaire, Anastasia e Lev. Anastasia non avrebbe mai dimenticato quel momento: assistevano, tutti e tre affiancati, nel silenzio più totale, mentre la bara si ricopriva di terra. All’improvviso Lev, senza che Macaire se ne accorgesse, le aveva preso la mano. Lei si era sentita fremere: era da quindici anni che non si rivolgevano più la parola.

Quel giorno, quando la loro pelle si era toccata, si era sentita più viva che mai.

Quel giorno si erano infine ritrovati. Dopo quindici lunghi anni.

In piedi nella cucina, Anastasia beveva la sua tisana con lo sguardo assorto, fisso sulla finestra. Si domandava dove fosse Lev. Cercò di convincersi che avesse avuto un’ottima ragione per non presentarsi all’appuntamento. Un impegno davvero importante. Qualcosa di molto serio. Alle Nazioni Unite forse? Non aveva potuto telefonare. Doveva per forza esserci una buona ragione.

Non aveva visto, al confine della proprietà, l’uomo seduto a cavalcioni sul ramo di un enorme cedro, che spiava da lontano la cucina illuminata con un binocolo incollato agli occhi.

“Sembra triste,” mormorò Lev da lassù ad Agostinelli, che stava di guardia dall’altra parte del muro di cinta.

“Dovrebbe scendere adesso, signore,” rispose l’autista, che non aveva l’aria tranquilla. “Rischia di farsi male! E poi, se ci sorprendono, la scambieranno per un malintenzionato!”

Lev cedette e lasciò il suo posto d’osservazione nello stesso modo in cui ci era salito: restando seduto sul ramo, si spostò lentamente, a forza di braccia, senza preoccuparsi di danneggiare i pantaloni, finché non raggiunse il tronco, che toccava quasi il muro di cinta. Poi si aggrappò al tronco, si alzò in piedi e passò sul bordo del muro, da cui scese facilmente appoggiandosi al tettuccio della macchina parcheggiata lì sotto. “Se posso permettermi, signore, perché ha dato buca ad Anastasia per poi passare tutta la serata a osservarla da lontano? Mi sembra evidente che avete entrambi voglia di vedervi...” gli disse Agostinelli.

“Era necessario, Alfred,” replicò Lev. “Lo sa perché l’amore è un gioco così complicato?”

“No, signore.”

“Perché l’amore non esiste. È un miraggio, un frutto della mente. Oppure, se preferisce, l’amore esiste, potenzialmente, solo quando non si concretizza. È un’emanazione della mente, fatto di speranza, attesa e proiezioni. Cosa sarebbe successo se avessi raggiunto Anastasia? Forse si sarebbe annoiata. Avrebbe trovato la mia conversazione scialba. Forse mi sarebbe rimasto un pezzetto di insalata tra i denti e lei avrebbe avuto un’immagine diversa di me.”

“O forse no, signore,” obiettò Agostinelli.

“Alfred, lo sa altrettanto bene di me: questa serata è stata perfetta perché non ha avuto luogo.”

“Ma, signore, perché ci tiene tanto che sia tutto perfetto?”

“Perché sono quindici anni che aspetto questo momento, Alfred. Quindici lunghi anni...”

“Che cosa è successo quindici anni fa?”

“Quindici anni fa ho commesso il più grave errore della mia vita. Come quel povero Macaire. Lo stesso giorno, abbiamo preso entrambi una decisione che ha rovinato le nostre esistenze.”

L'enigma della camera 622
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