7.
Al servizio della Confederazione

Al quinto piano dell’Hôtel des Bergues, nella suite 515 che occupava tutto l’anno, Lev Levovitch faceva il nodo alla cravatta contemplando dalla finestra il lago Lemano che si offriva alla sua vista.

Era assorto. Pensava a lei. Non riusciva a pensare ad altro che a lei. Si domandava se aveva trascorso il fine-settimana con lui perché l’amava veramente o per noia.

Si sistemò la giacca del completo a tre pezzi, poi si assicurò nel riflesso di uno specchio di aver fatto bene il nodo Windsor e ne approfittò per studiare compiaciuto la sua bellezza sfacciata. Su un vassoio d’argento, un bricco di caffè americano. Levovitch se ne versò una tazza, ma ne bevve appena un sorso: era molto in ritardo, doveva andare. Afferrò il sacchetto di croissant che aveva ordinato poco prima e si diresse verso il bagno.

In un’immensa vasca con vista sulla città, una donna si rilassava, persa nei suoi pensieri. Aveva preso la sua decisione. Era follemente innamorata di lui, ma doveva troncare prima che le cose si spingessero troppo oltre. Non poteva permettersi di proseguire quella relazione adultera. Se si fosse venuto a sapere, sarebbe stata un’umiliazione terribile per suo marito, e Lev avrebbe avuto delle noie in banca. Aveva lavorato così tanto per arrivare fin lì. Meglio mettere fine subito a quella storia. Prima che tre vite venissero distrutte. Le si spezzava il cuore, ma era meglio per tutti.

In quell’istante Lev apparve nella stanza da bagno, vestito come un principe. Non poté fare a meno di ammirarlo. Reggeva in mano un vassoio d’argento con caffè e croissant, che depose sul bordo della vasca.

“La sua colazione è servita, signora,” disse, sorridendo. “Ma vista l’ora, posso ordinarti un pranzo, se preferisci. Io purtroppo devo scappare, sono già molto in ritardo. Resta qui finché vuoi. Sei a casa tua.”

Posando su di lui i suoi occhi azzurri, lei disse, in un tono che si sforzò di mantenere asciutto:

“È finita, Lev.”

Lui ne fu molto stupito:

“Cosa vuoi dire, Anastasia?”

“Voglio dire che ho chiuso con te. È finita.”

Levovitch accolse quelle parole con un sorriso luminoso.

“Non puoi farlo,” disse, divertito.

“E perché no?” si stupì lei.

“Perché noi ci amiamo,” rispose, come se fosse una cosa ovvia. “Noi ci amiamo da sempre. Ci amiamo come non ci siamo mai amati prima. L’amore che ci unisce è l’unica cosa che abbia senso nelle nostre vite.”

Senza negarlo, lei liquidò quelle parole con aria irritata.

“Io ho un marito, Lev! E non ho nessuna intenzione di fargli del male. Non posso passare il fine-settimana in albergo con te a tuo piacimento! Qualcuno finirà per vederci, e tutta la città ne sarà al corrente. Sai come circolano in fretta le voci, qui! E questo ti causerà grossi problemi.”

Lui fece una smorfia sdegnosa:

“Me ne infischio dei problemi. Non metterò la mia carriera davanti ai nostri sentimenti!”

Anastasia sentì che lui stava di nuovo prendendo il sopravvento, che avrebbe finito per convincerla. Così si fece violenza e cercò di ferirlo.

“Quali sentimenti?” ribatté. “Io non ti amo, Lev,” mentì. “Se ti avessi amato, mi sarei fidanzata con te quindici anni fa.”

All’inizio lui rimase in silenzio, incassando il colpo. Poi, con voce calmissima, disse:

“Ti propongo di cenare assieme questa sera e di parlarne tranquillamente.”

“No, no! Noi non ci vedremo più! Io non voglio più continuare! Capisci quello che ti sto dicendo? Non voglio più vederti!”

“La mia non era una domanda, ma un’affermazione. Ci ritroviamo tra poco. Diciamo qui alle otto?”

“Ti ho detto di no, Lev!” esclamò Anastasia.

Uscì dalla vasca da bagno, rivelando un corpo perfetto, e si avvolse in un accappatoio. Afferrò il cellulare posato sulla toletta e compose il numero del marito, che rispose dopo un solo squillo. Lei si sforzò di assumere una voce tenera e innamorata.

“Come stai?” gli chiese. “Sì, anche tu mi sei mancato terribilmente... Il mio fine-settimana?... No, non è andato bene. Non voglio più rivederla quella mia amica... Non fa niente, ti racconto poi. Senti, perché non andiamo a cena noi due da soli, questa sera... Scegli tu il ristorante, fammi una sorpresa... Anch’io... A dopo, non vedo l’ora.”

Riattaccò e rivolse all’amante uno sguardo soddisfatto.

“Cenerai da solo stasera, Lev,” disse. “Come hai potuto sentire, mio marito e io usciamo insieme.”

Lev rimase impassibile:

“A stasera, Anastasia. Alle otto qui. Sapere che ci rivedremo tra poche ore mi riempie di gioia.”

Detto ciò, se ne andò e scese nella hall, dove lo aspettava Alfred Agostinelli, il suo autista.

“Buongiorno, Alfred,” lo salutò Lev in tono amichevole. “Come sta in questa bella giornata?”

“Sto bene, signore, grazie,” rispose Agostinelli, scortandolo alla macchina. “E lei?”

“Sono su una nuvola, Alfred. Sono innamorato perso.”

“Lei, signore?” disse divertito Agostinelli. “Eppure mi aveva giurato che l’amore non esiste e che non si sarebbe mai innamorato!”

“È così meravigliosa, Alfred!”

L’autista avviò il motore e l’auto imboccò il lungofiume nel momento in cui Macaire giungeva all’Hôtel des Bergues, mancando di poco il loro passaggio. Nell’abitacolo, Agostinelli chiese:

“La porto in banca, signore?”

“No, al Palazzo delle Nazioni, caro Alfred. C’è la conferenza generale sui rifugiati. Ma prima devo telefonare a Cristina. Mi sono completamente dimenticato di avvisarla che stamattina non sarei andato in ufficio. La poverina deve essere preoccupata.”

* * *

“Ma certo, la conferenza generale sui rifugiati alle Nazioni Unite,” ripeté a voce alta Cristina come se fosse una cosa ovvia, posando la cornetta.

Levovitch l’aveva appena chiamata: preso dai suoi impegni, aveva dimenticato di avvisarla. Si sentì un’idiota per essersi preoccupata. Eppure aveva letto della conferenza sulla prima pagina della “Tribune de Genève”: avrebbe dovuto pensare che il suo capo ci sarebbe andato.

Compose subito il numero del cellulare di Macaire e lo intercettò mentre arrivava al quinto piano dell’albergo, scortato dal portiere che aveva convinto ad aprire la suite di Levovitch.

“Falso allarme,” gli disse Cristina, “è tutto a posto. Ho appena parlato con il signor Levovitch: si trova alle Nazioni Unite.”

“Ah, lo vede, non c’era nessuna ragione di preoccuparsi!” rispose Macaire tutto ringalluzzito. “Stavo giusto andando nella sua suite.”

Macaire fece segno al portiere che il mistero era risolto e tornarono indietro.

“Sembra che il suo umore sia migliorato, signor Ebezner,” osservò Cristina.

“Stasera ho una cenetta romantica con Anastasia,” spiegò in tono allegro. “Posso chiederle la cortesia di prenotare per me al Lion d’Or di Cologny? Tavolo per due con vista lago!”

Macaire e il portiere raggiunsero l’ascensore. Nell’istante in cui le porte della cabina si richiusero, a pochi metri da lì, la porta della suite di Levovitch si aprì e uscì Anastasia.

Nell’ascensore, Macaire osservò il portiere con una benevolenza affettata che mal dissimulava il suo senso di superiorità. Lui, il futuro presidente della Banca Ebezner, che portava sua moglie al Lion d’Or, uno dei migliori ristoranti del Cantone di Ginevra. Un tavolo con una magnifica vista sul lago Lemano. Al loro arrivo nel ristorante, sicuramente li avrebbero guardati tutti.

Si sentì elettrizzato: già si vedeva convincere Tarnogol a nominarlo presidente. Dal momento che era ora di pranzo, si diresse verso il bar dell’albergo per rifocillarsi. Vi entrò nell’istante in cui Anastasia compariva nell’atrio per poi uscire rapidamente.

Macaire chiese di essere sistemato a un tavolo in disparte: aveva bisogno di riflettere con calma, doveva trovare una strategia per convincere Tarnogol. Pensò a tutto ciò che aveva realizzato nel più grande segreto durante gli ultimi dodici anni e si rese conto che ancora una volta la Banca Ebezner lo fuorviava. Tutto per colpa di suo padre. Era a causa sua che vedeva uno psicoanalista due volte alla settimana. Il padre l’aveva sempre considerato un incapace. Sul suo letto di morte, un anno prima, Macaire era stato sul punto di rivelargli il suo segreto. Per dimostrargli chi era veramente. Ma all’ultimo si era ingarbugliato e non ci era riuscito. Per paura che il padre non gli credesse, probabilmente. Da allora, rimpiangeva e riviveva nella mente quella scena che non aveva mai avuto luogo. Gli avrebbe detto: “Sai, papà, da dodici anni non faccio soltanto il banchiere. Conduco una doppia vita e nessuno sa quello che mi accingo a rivelarti.” Immaginava il volto stupefatto del padre nell’apprendere il suo segreto.

A quel pensiero, osservò divertito gli altri clienti nel ristorante: nessuno di loro avrebbe mai sospettato che, dietro la sua aria placida ed elegante di banchiere, si celasse in realtà un collaboratore dei servizi segreti svizzeri. Tutta quella storia sapeva di romanzo di spionaggio. Del resto, rifletté, gli appunti del suo quaderno sarebbero stati un’ottima base per future memorie. Da pubblicare in età avanzata, dopo essersi ritirato dalla carica di presidente, ma prima di morire, per godersi l’ondata di shock suscitata dal libro. Già immaginava i titoli dei giornali: “Macaire Ebezner, presidente della Banca Ebezner e membro dei servizi segreti.”

Macaire scacciò subito quelle fantasticherie. Non gli avrebbero permesso di rivelare niente.

Da dodici anni, nascondendosi dietro i suoi affari all’estero, conduceva missioni di spionaggio per conto del governo svizzero. Più precisamente, operava per conto della P-30, un organo collegato al dipartimento della Difesa, finanziato da fondi neri e ignoto a tutti – compresa la potente commissione parlamentare sulle attività di spionaggio –, che dipendeva direttamente dal Consiglio Federale.

Le origini della P-30 risalivano a un programma segreto messo in atto dalla NATO durante la Guerra Fredda. Temendo un’invasione dell’Europa occidentale da parte delle armate del Patto di Varsavia, i paesi dell’Alleanza avevano organizzato, ciascuno per conto proprio, delle reti clandestine formate da civili addestrati a resistere a un’occupazione da parte del blocco dell’Est. Dal Portogallo alla Svizzera e alla Svezia, unità dormienti erano state create un po’ dappertutto: c’era il Lok greco, il Gladio italiano, il Plan Parsifal dei francesi, il Comité P in Belgio, mentre la Svizzera aveva la P-26.

Il governo elvetico, fortemente ispirato da questo modello, aveva pensato di declinarlo per difendere i propri interessi all’estero. E così aveva creato la P-30, con la missione di selezionare civili cui far condurre operazioni di spionaggio governative.

Mentre un agente dei servizi segreti doveva crearsi un’identità di sana pianta, con tutte le difficoltà e le trappole inerenti a tale esercizio, i cittadini medi che componevano l’effettiva forza della P-30 potevano condurre operazioni senza doversi inventare un alias né mentire, perché la copertura era la loro esistenza reale.

Macaire, in qualità di banchiere e col pretesto degli appuntamenti di lavoro, poteva viaggiare senza destare alcun sospetto.

A partire dal suo reclutamento, aveva operato in seno alla divisione economica della P-30, raccogliendo preziose informazioni sulle intenzioni dei paesi europei che erano stufi di vedere i loro contribuenti sottrarsi al fisco, nascondendo i propri capitali nelle casseforti delle banche elvetiche. Questo spinoso problema era stato affidato alla P-30 perché era legato fondamentalmente ai paesi vicini, con i quali la Svizzera non aveva intenzione di creare attriti inviando sul posto membri dei servizi segreti ufficiali.

Macaire aveva quindi girato tutta l’Europa per partecipare a dibattiti e conferenze dedicati alle nuove regolamentazioni bancarie, ai paradisi fiscali o alla cooperazione internazionale in materia di fiscalità. Aveva ascoltato, annotato, registrato. Tra un intervento e l’altro, aveva allacciato contatti con alti funzionari, ambasciatori, avvocati d’affari, dipendenti delle agenzie fiscali locali. Intrattenere questi rapporti non lo esponeva ad alcun rischio: se destava dei sospetti, se la polizia lo interrogava, lo consideravano semplicemente un banchiere intraprendente che cercava di arricchire la propria clientela. Nessuno scandalo di stato, nessun incidente diplomatico che potesse offuscare l’immagine della Svizzera, paese di persone compite e ben educate, guardiano delle convenzioni internazionali, madrepatria dei mattinieri e dei lavoratori.

Perfino in caso di indagine approfondita, era impossibile stabilire un legame tra Macaire e un qualsiasi organo governativo: per scrupolo di sicurezza e di anonimato, l’unico contatto che avesse con la P-30 era il suo referente all’interno dell’organizzazione: un uomo di Berna dall’accento duro che si chiamava Wagner, con il quale si incontrava sempre in un luogo pubblico. Al di fuori di questo, ignorava tutto del funzionamento della P-30, compresa la sede del quartier generale a Berna. Era una struttura totalmente impermeabile e irreperibile.

Per Macaire, l’avventura della P-30 era cominciata nel segreto di un salottino privato della Banca Ebezner dove Wagner, spacciandosi per un probabile nuovo cliente, era andato per incontrarlo e reclutarlo. Era stata la sola e unica volta che era venuto in banca. Quel giorno, non appena si erano ritrovati soli, Wagner aveva spiegato che non si trovava lì per aprire un conto, ma era stato inviato dal governo svizzero.

“La Svizzera ha bisogno di lei,” aveva detto a Macaire. “E lei deve renderle un piccolo favore.”

Si era limitato a parlare di un favore, senza ovviamente menzionare né la P-30 né altro. Aveva quindi spiegato che tra il Regno Unito e la Svizzera covava un piccolo conflitto diplomatico.

Un tagliatore di diamanti indiano che si trovava a Londra, Ranjit Singh, era sospettato da Scotland Yard di riciclare, attraverso la propria attività, denaro proveniente da un traffico d’armi. Gli inglesi presumevano che il denaro transitasse su un conto aperto presso la Banca Ebezner e, in segreto, esercitavano pressioni sulla Svizzera non solo per ottenerne conferma, ma soprattutto per avere accesso a vari trasferimenti di soldi.

Berna si rifiutava di costringere ufficialmente una banca a consegnare informazioni su un proprio cliente: ne andava della credibilità di tutta l’istituzione bancaria elvetica. Ma non prestare manforte a un’indagine internazionale sul riciclaggio di denaro avrebbe potuto intaccare la buona reputazione della piazza finanziaria svizzera. In compenso, nulla impediva che gli inglesi ricevessero quelle informazioni da una terza fonte anonima, cosa che avrebbe risolto tutta la faccenda.

Comprendendo le allusioni del suo interlocutore, e ansioso di aiutare il proprio governo, Macaire si era impegnato a frugare tra i fascicoli della banca e passare a Wagner copie degli estratti-conto del tagliatore di diamanti.

L’Operazione Nozze di Diamante, com’era stata battezzata, fu un vero successo. Pochi giorni più tardi, Macaire scoprì in prima pagina sulla “Tribune de Genève” questa notizia:

SCOPERTO UN TRAFFICO D’ARMI INTERNAZIONALE

A GINEVRA

Scotland Yard ha arrestato ieri a Londra un importante trafficante d’armi internazionale. Sfruttando la sua professione di tagliatore di diamanti, l’uomo faceva transitare il denaro su una banca privata di Ginevra. I suoi conti sono stati posti sotto sequestro.

Il giorno in cui l’articolo era uscito, Jean-Bénédict era piombato nell’ufficio di Macaire con una copia del giornale.

“L’hai letto questo?” aveva chiesto il giovane Hansen al cugino.

“Sì.”

“Ebbene, non ci crederai, ma la banca privata è la nostra!”

“Ah sì?” si era stupito Macaire.

“Ma sì, ti dico! La polizia federale aveva informato il Consiglio della situazione qualche settimana fa. Ovviamente non potevo dirti niente, era top secret.”

“È ovvio, top secret,” aveva ripetuto Macaire, continuando a recitare la parte del finto tonto.

Quello stesso giorno Macaire si era appena accomodato al caffè che frequentava abitualmente quando, con sua sorpresa, aveva visto Wagner sedersi al tavolino accanto.

“Grazie a lei l’Operazione Nozze di Diamante è riuscita perfettamente,” aveva detto Wagner, senza alzare gli occhi dalla lista. “D’altronde, lei ha il genere di profilo che cerchiamo. La cosa potrebbe interessarle?”

Macaire aveva accettato. Senza necessariamente comprendere in cosa si stesse imbarcando, ma consapevole dell’impatto che questa decisione avrebbe avuto sulla sua vita.

Aveva allora ricevuto una formazione di base, impartitagli nel corso di una settimana a Flims, sulle Alpi grigionesi. La moglie e i colleghi credevano che fosse andato a fare escursionismo da solo, per ritemprarsi. Aveva in effetti prenotato una camera con mezza pensione all’hotel Schweitzerof, dove cenava e trascorreva le notti. Tutte le mattine, per gettare fumo negli occhi, partiva con i ramponi ai piedi e le racchette in mano. Ma invece di passare la giornata a camminare, raggiungeva una baita isolata dove lo attendeva Wagner, che gli aveva insegnato le tecniche per muoversi con discrezione e pedinare qualcuno, come reagire in caso di interrogatorio da parte della polizia, come installare un dispositivo segreto d’ascolto o, ancora, come fabbricare il duplicato di una chiave con un barattolo di conserva.

Finito l’addestramento, la mattina della partenza Macaire aveva chiesto all’albergo di organizzargli un trasferimento alla stazione di Coira. Salendo a bordo della navetta che doveva condurlo lì, aveva scoperto che dietro il volante era seduto Wagner.

Durante il tragitto Wagner aveva spiegato a Macaire tutto ciò che doveva sapere sulla P-30. Poi, quando lo aveva lasciato davanti alla stazione, gli aveva detto:

“La informerò molto presto sulla sua prima missione.”

“Come mi contatterà?”

“Grazie alla musica. Io non mi chiamo affatto Wagner.”

Quando si profilava una missione, Macaire riceveva per posta un biglietto per uno spettacolo d’opera al Grand Théâtre di Ginevra. Quello era il segnale di Wagner. Macaire vi si recava, ovviamente da solo; poi nell’intervallo trovava il suo agente di collegamento nel foyer, e i due uomini andavano ad appartarsi in un angolo, al riparo da orecchie altrui. E per tutta la seconda parte della rappresentazione Wagner gli forniva gli ordini e le istruzioni.

Col susseguirsi delle missioni, e con le varie esperienze, Macaire era salito di grado all’interno della P-30. Da qualche anno lo avevano perfino incaricato di stilare dei rapporti di analisi che, gli avevano fatto sapere poi, erano stati molto apprezzati. Sulla base delle sue osservazioni, redigeva delle note di sintesi che inviava a mezzo posta, sotto forma di lunghe lettere, direttamente al Consiglio Federale, adottando uno stile sobrio che rendeva il documento totalmente inoffensivo.

Signore e signori del Consiglio Federale,

sulla base delle mie attività di banchiere e dei colloqui con i miei clienti, mi permetto di richiamare la Vostra attenzione sulla situazione attuale e sulle intenzioni dei paesi vicini e amici.

[...]

Secondo le raccomandazioni di Wagner, non bisognava mettere per iscritto niente che non potesse essere letto da chiunque. Se qualcuno avesse messo le mani su quelle lettere, avrebbe pensato semplicemente che Macaire era un banchiere preoccupato per l’avvenire della sua professione e ansioso di far conoscere le proprie opinioni e le proprie inquietudini ai vertici del paese.

Così Macaire aveva avvisato le autorità svizzere:

I francesi vogliono recuperare i loro esuli fiscali, gli italiani ambiscono a mettere le mani sul denaro nascosto nel Canton Ticino, i tedeschi controllano da vicino, i greci cercano di impedire la fuga di capitali.

Con suo grandissimo piacere, il Consiglio Federale non mancava mai di informarlo che aveva ricevuto quei rapporti tramite un messaggio elegante e riconoscente, ma altrettanto discreto.

Macaire aveva amato gli anni trascorsi nella P-30. Per la soddisfazione di servire il proprio paese, ma ancor più perché lo avevano fatto sentire vivo. Le missioni gli procuravano una sensazione inebriante. Con l’approssimarsi del suo accesso alla presidenza della banca, che gli era sembrata fino ad allora una certezza, Wagner gli aveva riferito che una volta eletto non sarebbe stato più inviato in missione. Sarebbe risultato troppo esposto. La sua carriera all’interno della P-30 stava per giungere al termine.

Per quella che doveva essere la sua ultima operazione, era stato inviato a Madrid. Un informatico della Banca Ebezner ormai in pensione, che si era poi trasferito laggiù, era sospettato di voler vendere alle autorità fiscali spagnole i nomi dei clienti che nascondevano soldi in Svizzera. Questo genere di delatori era l’assillo delle banche elvetiche e una peste che il governo voleva sradicare. Macaire doveva confermare se, come pensavano i servizi segreti svizzeri, questo informatico era effettivamente un traditore, e soprattutto recuperare la lista dei clienti prima che avesse luogo la transazione con il fisco spagnolo.

Quest’ultima operazione era condotta in collaborazione con i servizi segreti della Confederazione e usciva dal quadro abituale delle missioni della P-30. A Madrid, Macaire si era incontrato con un certo Perez, un agente infiltrato sotto copertura in Spagna, che passava ufficialmente per un impiegato dell’ambasciata svizzera.

Le istruzioni erano semplici: Macaire aveva avvertito l’ex collega informatico della sua venuta a Madrid e gli aveva proposto di incontrarlo. L’ex collega aveva accettato con piacere quella rimpatriata e sembrava felice di rivedere Macaire, di cui conservava un ottimo ricordo.

Il giorno prima della visita all’informatico, Macaire si era incontrato con Perez al Museo del Prado, davanti al dipinto El 3 de mayo en Madrid di Goya. Dopo aver stabilito il contatto, Perez aveva seguito Macaire a distanza fino all’appartamento che quest’ultimo aveva affittato per il fine-settimana (più discreto degli alberghi che erano pieni di telecamere e dove i passaporti dei clienti venivano sistematicamente fotocopiati al momento della registrazione). Era stato nel segreto di quel grazioso appartamento ammobiliato nel quartiere di Salamanca che Perez gli aveva fornito i dettagli dell’operazione.

“Quando sarà a casa di quel tipo, finga di avere bisogno di andare al bagno per eclissarsi e perquisire il suo appartamento,” aveva suggerito Perez.

“Cosa devo cercare esattamente?” aveva chiesto Macaire.

“Una lista di nomi, lettere, appunti: qualunque cosa che permetta di stabilire con certezza che quell’uomo è la talpa che cerchiamo. Non dimentichi di controllare nella cassetta del gabinetto.”

L’indomani, giunto davanti al palazzo dell’informatico, Macaire aveva visto Perez in appostamento che leggeva il giornale seduto su una panchina. Come se temesse qualcosa.

I due uomini avevano naturalmente finto di non conoscersi, e Macaire era andato a suonare a casa dell’informatico al quarto piano. Era stato accolto calorosamente dall’ex collaboratore e da sua moglie, che conservavano un ricordo commosso di Ginevra. L’atmosfera era così conviviale che Macaire ne aveva ricavato la certezza quasi assoluta che quell’uomo non fosse la talpa. Ciononostante aveva seguito le istruzioni ricevute: col pretesto di un’impellenza fisica, aveva piantato in asso gli ospiti per fare un rapido giro dell’appartamento. La prima stanza che aveva ispezionato era la camera da letto, dove aveva frugato rapidamente negli armadi e in un piccolo cassettone. Ma non ci aveva trovato niente. Avrebbe voluto perquisire anche la camera seguente, adibita a studio, ma al momento di varcarne la soglia, era stato sorpreso dalla voce dell’informatico:

“Il bagno è in fondo a destra,” aveva detto.

Macaire aveva sussultato.

“Grazie,” aveva farfugliato, “avevo capito male.”

Era stato aprendo la cassetta dello sciacquone che aveva trovato, in un sacchetto di plastica debitamente sigillato, un lungo elenco di clienti spagnoli della Banca Ebezner. Non riusciva a crederci: quell’uomo era un traditore.

Aveva buttato il sacchetto nel gabinetto, azionando più volte lo sciacquone, si era infilato la lista nell’elastico dei boxer, poi era tornato in salotto sforzandosi di non lasciar trasparire il suo nervosismo. Dopo aver terminato il caffè, si era accomiatato.

Aveva lasciato di buon passo l’edificio. Mentre scendeva gli scalini della stazione della metropolitana più vicina, Perez lo aveva raggiunto.

“Allora?” aveva chiesto.

“È proprio il nostro uomo,” aveva confermato Macaire. “Ho recuperato la lista dei clienti.”

Avevano preso la metropolitana insieme, ed era stato un errore. Quando erano scesi dal vagone, Perez si era accorto che erano seguiti.

Seduto al tavolo nel ristorante dell’Hôtel des Bergues, Macaire, ripensando a quell’episodio madrileno in cui se l’era cavata ammirevolmente, si persuase di possedere tutte le risorse necessarie per convincere Tarnogol a eleggerlo presidente della banca. Bastava agire come se si trattasse di un’operazione della P-30. Quali istruzioni gli avrebbe dato Wagner, se così fosse stato? Si lanciò in una profonda riflessione. Si chiese se esistesse qualche manuale di self-help che potesse essergli d’aiuto. All’improvviso gli venne un’idea.

* * *

Alle tre Macaire piombò nell’ufficio del cugino Jean-Bénédict e gli gettò sulla scrivania una delle copie del libro che aveva appena comprato in una libreria del centro.

“Ho la soluzione!” esclamò Macaire, al colmo dell’eccitazione.

“Che soluzione?” chiese Jean-Bénédict.

“Ho trovato il metodo perfetto per convincere Tarnogol.”

Jean-Bénédict prese in mano il volume: Dodici uomini arrabbiati.

“Sai,” spiegò Macaire, dandosi un tono da erudito, “è la storia del processo fatto a un ragazzino accusato di avere ucciso il padre e che i dodici membri di una giuria popolare si accingono a dichiarare colpevole e mandare sulla sedia elettrica. Mentre undici dei giurati sono convinti del verdetto, uno di loro, con un semplice dubbio, riesce a capovolgere la situazione e far cambiare idea a tutti gli altri. Ebbene, mi ispirerò a questa storia: rigirerò Tarnogol come una frittata, tu e tuo padre vi accoderete, e la bilancia penderà in mio favore.”

“Lo hai letto?” s’informò allora Jean-Bénédict.

“In parte,” rispose Macaire a disagio.

“Non è che invece hai visto il film che ne hanno tratto?” chiese Jean-Bénédict. “Credo che sia stato trasmesso in TV la settimana scorsa.”

“D’accordo, è vero: ho visto il film l’altro giorno,” confessò Macaire, un po’ stizzito per essersi fatto smascherare. “Però sapevo che era tratto da un libro!”

“Un testo teatrale,” tenne a precisare Jean-Bénédict che, aprendo il volume, ne constatò la forma.

“Okay, d’accordo, chi se ne frega!” lo rimbrottò Macaire. “E poi, per essere del tutto onesto, ho dormito per metà del film e non ho nessuna idea di cosa succeda. Quindi bisogna leggere con la massima urgenza questa roba e trarre ispirazione. Annotare gli argomenti, fare degli elenchi eccetera eccetera.”

“Devo prendere il treno delle quattro per Zurigo,” gli comunicò Jean-Bénédict, guardando l’orologio. “Approfitterò del viaggio per leggerlo.”

“Tu e Charlotte venite sempre a cena da noi, domani sera?” chiese Macaire.

Una volta al mese, i coniugi Hansen e i coniugi Ebezner si ritrovavano a cena, ora a casa degli uni, ora a casa degli altri.

“Certo che verremo,” confermò Jean-Bénédict. “Mi fermo a Zurigo solo stasera – ho una cena con alcuni clienti – e già domani mattina sarò di ritorno col primo treno.”

“Domani sera, allora, voglio un rapporto sulla tua lettura, mio caro cugino!” disse Macaire.

“Ai suoi ordini, caro futuro presidente!” replicò Jean-Bénédict, facendo battere marzialmente i tacchi prima di afferrare un piccolo trolley e lasciare la banca per andare alla stazione. Macaire tornò nel suo ufficio, animato da un’energia presidenziale e convinto di trovare gli argomenti che avrebbero fatto cambiare parere a Tarnogol.

Sulla scrivania l’attendeva ancora la pila della corrispondenza arretrata. Invece di occuparsene, però, Macaire preferì cominciare a leggere la sua copia di Dodici uomini arrabbiati, tanto per ricavarne già qualche argomento utile da sfruttare, casomai avesse incrociato Tarnogol nei corridoi. Ma alle quattro meno un quarto, Cristina irruppe bruscamente nel suo ufficio.

“Che succede ancora?” chiese Macaire, leggermente infastidito. “Sto lavorando!”

“Mi perdoni, signor Ebezner, ma sull’agenda del signor Levovitch è segnato alle quattro un appuntamento molto importante. Sono quasi le quattro e il signor Levovitch non c’è, e non riesco a rintracciarlo in nessun modo. Probabilmente lo avranno trattenuto al Palazzo delle Nazioni Unite. Che devo fare?”

“Avrebbe dovuto gestire meglio i suoi impegni!” s’irritò Macaire, che già vedeva dove voleva andare a parare Cristina e non aveva intenzione di prestarsi.

“Non può ricevere lei questa persona al suo posto?” insisté lei.

“No,” si rifiutò Macaire, “sono già sovraccarico di lavoro!”

“Probabilmente è un grosso cliente,” cercò di intercedere Cristina. “Andrà su tutte le furie quando saprà che Levovitch si è dimenticato di lui. Basta dire che è stato trattenuto e ha incaricato lei di seguire la cosa.”

“Non salverò di certo la faccia a Levovitch perché poi lui sia eletto presidente al mio posto!” replicò Macaire. “Se è un grosso cliente, che s’infuri pure e vada a lamentarsi presso il Consiglio. Così Tarnogol capirà che Levovitch non è affatto perfetto.”

Detto ciò, Macaire congedò la segretaria, che tornò alla propria postazione.

Quando, un quarto d’ora più tardi, l’“appuntamento molto importante” si presentò in anticamera, Cristina rimase sbalordita. Aveva immaginato tutto tranne questo.

L'enigma della camera 622
_0009_cover.xhtml
_0009_trama.xhtml
_0009_trama_bio.xhtml
_0010_occhiello.xhtml
_0015_dellostesso.xhtml
_0020_frontespizio.xhtml
_0030_copy.xhtml
_0045_dedica.xhtml
_0050_testo_00.xhtml
_0050_testo_01.xhtml
_0050_testo_02.xhtml
_0050_testo_03.xhtml
_0050_testo_04.xhtml
_0050_testo_05.xhtml
_0050_testo_06.xhtml
_0050_testo_07.xhtml
_0050_testo_08.xhtml
_0050_testo_09.xhtml
_0050_testo_10.xhtml
_0050_testo_11.xhtml
_0050_testo_12.xhtml
_0050_testo_13.xhtml
_0050_testo_14.xhtml
_0050_testo_15.xhtml
_0050_testo_16.xhtml
_0050_testo_17.xhtml
_0050_testo_18.xhtml
_0050_testo_19.xhtml
_0050_testo_20.xhtml
_0050_testo_21.xhtml
_0050_testo_22.xhtml
_0050_testo_23.xhtml
_0050_testo_24.xhtml
_0050_testo_25.xhtml
_0050_testo_26.xhtml
_0050_testo_27.xhtml
_0050_testo_28.xhtml
_0050_testo_29.xhtml
_0050_testo_30.xhtml
_0050_testo_31.xhtml
_0050_testo_32.xhtml
_0050_testo_33.xhtml
_0050_testo_34.xhtml
_0050_testo_35.xhtml
_0050_testo_36.xhtml
_0050_testo_37.xhtml
_0050_testo_38.xhtml
_0050_testo_39.xhtml
_0050_testo_40.xhtml
_0050_testo_41.xhtml
_0050_testo_42.xhtml
_0050_testo_43.xhtml
_0050_testo_44.xhtml
_0050_testo_45.xhtml
_0050_testo_46.xhtml
_0050_testo_47.xhtml
_0050_testo_48.xhtml
_0050_testo_49.xhtml
_0050_testo_50.xhtml
_0050_testo_51.xhtml
_0050_testo_52.xhtml
_0050_testo_53.xhtml
_0050_testo_54.xhtml
_0050_testo_55.xhtml
_0050_testo_56.xhtml
_0050_testo_57.xhtml
_0050_testo_58.xhtml
_0050_testo_59.xhtml
_0050_testo_60.xhtml
_0050_testo_61.xhtml
_0050_testo_62.xhtml
_0050_testo_63.xhtml
_0050_testo_64.xhtml
_0050_testo_65.xhtml
_0050_testo_66.xhtml
_0050_testo_67.xhtml
_0050_testo_68.xhtml
_0050_testo_69.xhtml
_0050_testo_70.xhtml
_0050_testo_71.xhtml
_0050_testo_72.xhtml
_0050_testo_73.xhtml
_0050_testo_74.xhtml
_0050_testo_75.xhtml
_0050_testo_76.xhtml
_0050_testo_77.xhtml
_0050_testo_78.xhtml
_0050_testo_79.xhtml
_0050_testo_80.xhtml
_0060_indice.xhtml