58.
Addio Levovitch
Quando arrivò in banca quella mattina, Macaire non si sentiva così sereno da tempo. Dalla morte di Jean-Bénédict, malgrado l’accesso alla presidenza, aveva l’impressione che tutto gli sfuggisse di mano. Era stato sballottato dal succedersi degli eventi: la scomparsa di Anastasia, la lettera anonima da cui aveva appreso che lo tradiva con Levovitch e poi la scoperta che Tarnogol era una macchinazione di Jean-Bénédict. Ne era stato talmente scosso che aveva perso il sonno e l’appetito. Si era posto mille domande, aveva ripercorso quegli ultimi quindici anni come se li rivedesse in un film, sforzandosi di chiamare a raccolta i ricordi più lontani e comprendere come quella pagliacciata fosse stata possibile.
Si era figurato le teorie più improbabili. Era perfino arrivato a chiedersi se Anastasia e Jean-Bénédict fossero stati amanti e se, quindici anni prima, avessero ordito insieme un’orribile macchinazione: nelle vesti di Tarnogol, Jean-Bénédict gli aveva dato l’amore di Anastasia in cambio delle sue azioni e lui, come un idiota, si era fatto abbindolare. Anastasia, d’accordo con il cugino, aveva fatto finta di innamorarsi follemente di lui e Jean-Bénédict aveva recuperato le azioni. Per amore? Per soldi? I dividendi ricevuti ogni anno da Tarnogol erano colossali! La banca aveva un profitto annuo di centinaia di milioni di franchi, la maggior parte dei quali erano ridistribuiti ai quattro membri del Consiglio! Jean-Bénédict aveva forse promesso ad Anastasia una parte del malloppo?
In tutte quelle settimane Macaire si era torturato l’anima. Si era sentito come un fantoccio. Ma dalla sera prima, dalla telefonata con Wagner, aveva l’impressione che finalmente la ruota del destino avesse ricominciato a girare: stava per riprendere il controllo della situazione. Aveva localizzato Anastasia e, soprattutto, aveva avuto la conferma che era scappata con Levovitch. La lettera anonima diceva la verità. Si chiese chi potesse esserne al corrente. E chi gli avesse inviato quel messaggio. Ma in fondo non aveva importanza. Quello che contava adesso era la sua vendetta. Macaire poteva finalmente indirizzare la propria rabbia contro un bersaglio.
Levovitch lo aveva sottovalutato. Lo aveva preso per un idiota. Si faceva beffe di lui da mesi: non aveva lasciato Ginevra perché aveva bisogno di uno stacco, e non si era stabilito ad Atene, ma viveva in una casa in riva al mare a Corfù, dove tubava con sua moglie! Levovitch aveva previsto tutto fin dall’inizio: aveva rifiutato la presidenza per scappare più facilmente con Anastasia. Era in combutta con Jean-Bénédict? Il loro era un terzetto malefico? Oppure erano stati loro due a eliminare Jean-Bénédict?
Macaire si sforzava di non impantanarsi troppo nelle sue rimuginazioni. Di concentrarsi su ciò che era alla sua portata: distruggere Levovitch, infangarne il nome e la reputazione.
Quella mattina Macaire mise freddamente in atto il suo piano battezzato “Operazione Addio Levovitch”. L’idea era abbastanza semplice: da quello che gli aveva raccontato Charlotte, la polizia era certa che Jean-Bénédict, alias Tarnogol, avesse beneficiato di un complice all’interno della banca. Non avrebbe potuto orchestrare quell’impostura da solo, non foss’altro che per sdoppiarsi durante le sedute del Consiglio. Macaire avrebbe quindi fatto di Levovitch il complice di Jean-Bénédict. Grazie al suo stratagemma, Levovitch sarebbe stato accusato e la polizia sarebbe andata ad arrestarlo nella sua casa di sogno a Corfù. Estradato con le manette ai polsi. Caduto in disgrazia! Ormai, nelle foto in prima pagina, Levovitch non sarebbe più stato ritratto in compagnia del presidente della Repubblica francese, ma mentre scendeva da un furgone cellulare davanti al palazzo di giustizia di Ginevra. Chissà, forse gli avrebbero accollato anche l’omicidio di Jean-Bénédict! Con Levovitch condannato all’ergastolo, Anastasia, ormai sola, sarebbe tornata a chiedergli perdono strisciando.
In banca attese pazientemente che Cristina si assentasse dall’ufficio per la pausa mattutina. Non appena ebbe via libera, Macaire scese di un piano senza farsi vedere. Quindi si intrufolò nell’ufficio di Levovitch che, nonostante la sua partenza per la Grecia, per il momento era rimasto intoccato. Aprì uno dei cassetti della scrivania e vi infilò i due corpi del reato che lo avrebbero incriminato: il fazzoletto su cui era ricamato il nome di Sinior Tarnogol, che Macaire aveva prelevato quella famosa sera in cui era tornato da Basilea. All’interno del fazzoletto aveva nascosto l’anello di fidanzamento restituitogli da Anastasia prima di scappare. Era stato quell’anello a suggellare, quindici anni prima, il patto con Tarnogol. Era stato Tarnogol a darlo a Macaire la sera in cui si erano incontrati al Palace de Verbier, assicurandogli che la donna a cui lo avesse regalato avrebbe ricambiato il suo amore. E lui era così innamorato e disperato che ci aveva creduto. Nascose il fazzoletto in mezzo a una pila di fascicoli e se ne andò in tutta fretta.
Quando Cristina tornò dalla pausa, Macaire era al telefono. La porta dell’ufficio era spalancata e lei sentì la sua conversazione.
“Ne sono certo, Lev,” disse Macaire nella cornetta, “ti avevo dato il fascicolo Stevens. Sei sicuro di non averlo portato ad Atene con te?... Be’... è una bella seccatura... D’accordo, tienimi al corrente...”
Macaire riagganciò e sospirò rumorosamente, come se fosse molto contrariato.
“Qualcosa non va?” non poté trattenersi dal chiedere Cristina.
“Levovitch ha smarrito il fascicolo di un cliente. È questo il problema quando si sta sempre in giro. Gli avevo affidato dei documenti molto importanti, ma non si trovano da nessuna parte. Dice che non sono nel suo ufficio ad Atene.”
“E nel suo ufficio qui?” suggerì Cristina. “Vuole che scenda a dare un’occhiata?”
“Ah, non ci avevo pensato!” ammise Macaire. “Vengo con lei, è più semplice.”
Pochi istanti dopo, Macaire e Cristina raggiungevano il quinto piano e i loro vecchi uffici. Entrarono in quello di Levovitch. Macaire si diresse subito verso l’armadio a muro. Cristina ripiegò sui cassetti della scrivania. All’improvviso rimase interdetta.
“Tutto bene, Cristina?” le chiese Macaire, che la stava osservando.
“Non so.”
Macaire andò in brodo di giuggiole e si avvicinò.
“Ha trovato la pratica Stevens?”
“No,” disse. “Ho trovato questo fazzoletto, con un anello dentro.”
“Sinior Tarnogol. Membro del Consiglio,” lesse Macaire sul ricamo del fazzoletto. “Cosa vuol dire?... E questo anello? Perché Levovitch conserva un fazzoletto e un anello di Tarnogol nella sua scrivania?”
“Si direbbe un anello da donna,” fece notare Cristina, osservando il diametro della fascia. “E questa pietra è piuttosto femminile. Sembra uno zaffiro. Non ricordo di avere mai visto Tarnogol portare uno zaffiro.”
Sentendo che il suo espediente non funzionava, Macaire enfatizzò la menzogna.
“Eppure, ora che vedo questo anello, sono certo di averlo visto portare a Tarnogol appeso a una catenina d’oro. Me ne ricordo perfettamente: ero a casa sua e sono rimasto colpito da questo gioiello.”
Cristina fissò il suo capo.
“Lei è stato a casa di Tarnogol?”
Macaire si morse la lingua: aveva detto troppo.
* * *
Al termine della giornata, nella sede della Polizia Giudiziaria in boulevard Carl-Vogt.
“Grazie, signor Ebezner, di avere trovato il tempo per venire,” disse il tenente Sagamore, facendo accomodare Macaire in una stanza degli interrogatori. “Mi voglia scusare se la ricevo in un luogo così poco accogliente, ma non c’è nessuna sala-riunioni disponibile.”
“Non si preoccupi, tenente. È sempre interessante vedere ciò che c’è dietro le quinte. Sembra di essere in una serie poliziesca.”
Sagamore sorrise.
“Quindi lei ha trovato un anello appartenente a Sinior Tarnogol nell’ufficio di Lev Levovitch, è così?”
“In effetti’,” precisò Macaire, “è stata la mia segretaria a trovarlo. Cercavamo un fascicolo e le è capitato tra le mani. È stata lei, del resto, a suggerirmi di contattarla.”
“Sì, le ho parlato poco fa. Mi ha detto che lei ha riconosciuto il gioiello, è esatto?”
Macaire pensò che se non voleva cacciarsi in un ginepraio doveva giocare d’astuzia.
“Devo anzitutto dirle che Charlotte Hansen, la vedova di Jean-Bénédict Hansen, mi ha informato poche settimane fa che suo marito avrebbe interpretato Sinior Tarnogol e che quest’ultimo sarebbe stato solo un colossale inganno.”
“Sì, è quello che pensiamo,” confermò Sagamore.
“Non le nascondo che questa notizia mi ha sconvolto. Soprattutto perché ero molto vicino a mio cugino. Da allora non ho avuto pace e ho continuato a pensare a tutti i momenti che ho trascorso con Tarnogol, per cercare di ricomporre le tessere di questo puzzle. Ecco perché, quando ho visto quel gioiello, ho avuto subito un flash.”
“Ha visto portare quel gioiello a Tarnogol?”
“Sì, esatto.”
“E dove?” chiese Sagamore. “In banca?”
Macaire ebbe un’esitazione. Non aveva nessuna voglia di spiegare alla polizia cosa ci faceva a casa di Tarnogol. Ma non poteva nemmeno cambiare la versione che aveva dato a Cristina: se Sagamore l’aveva interrogata su quel punto, era necessario che le loro due versioni coincidessero.
“Gliel’ho visto portare a mo’ di ciondolo un giorno in cui avevo dovuto recarmi a casa sua. Mi aveva stupito questo anello femminile che conservava come un talismano, per questo lo rammento. Sul momento ho pensato che si trattasse del ricordo di un amore perduto o qualcosa del genere.”
“In quale occasione si è recato a casa di Tarnogol?” volle sapere Sagamore.
Macaire assunse un’aria noncurante.
“Mi aveva invitato. Non rammento che si trattasse di un’occasione speciale. Era poco prima dell’elezione del nuovo presidente della banca, immagino che volesse intrattenersi con i diversi potenziali candidati.”
“Signor Ebezner,” disse allora Sagamore, “è in grado di descrivermi nel dettaglio l’interno della residenza privata di Sinior Tarnogol?”
Macaire si stupì di quella domanda. Si chiese se fosse un test per verificare l’autenticità delle sue affermazioni. Sagamore aveva certamente perquisito la residenza privata di Tarnogol e dunque conosceva la disposizione delle stanze. Decise quindi di fare un resoconto preciso e dettagliato.
“Era di sera, abbiamo cenato. Piuttosto tardi. Un buffet freddo. Molto elegante. Salmone, caviale, pietanze raffinate. Era tutto di gran classe.”
“Il posto,” lo interruppe Sagamore. “Potrebbe descrivermi il posto? I mobili, le diverse stanze...”
“Ricordo che appena entrati ci si trovava direttamente davanti a un ascensore e a un’immensa scalinata di marmo bianco. Ho visto soltanto il salone in cui Tarnogol mi ha ricevuto. Era al primo piano. Almeno tre saloni uno di fila all’altro. Separati da pareti amovibili. Quello in cui ci trovavamo era magnificamente tappezzato. Ricordo i divani sui quali eravamo seduti, molto confortevoli, di velluto blu. C’era un tavolo rotondo accanto alla finestra sul quale era apparecchiato il buffet. Un tavolo Luigi XIV. O un altro Luigi, roba d’antiquariato comunque!”
“C’è qualcosa in particolare che l’ha colpita? Per esempio un oggetto, un quadro, un’opera d’arte.”
Macaire si prese un attimo di riflessione e poi disse: “Su una parete c’era un enorme quadro, stretto e lungo, che raffigurava una veduta di San Pietroburgo. Me ne ricordo bene perché Tarnogol l’ha commentato a lungo, parlandomi delle origini della sua famiglia.”
Dopo che Macaire ebbe finito la sua deposizione e lasciato la stanza degli interrogatori, Sagamore raggiunse una stanza attigua dalla quale Cristina aveva potuto assistere su uno schermo a tutta la scena.
“Allora,” le chiese Sagamore, “che ne pensi?”
“Non ne ho la più pallida idea. Sembra dire la verità. Oppure è un attore straordinario. Ma non posso fare a meno di chiedermi se fosse lui il complice di Jean-Bénédict Hansen. E se fosse stato lui a interpretare Tarnogol quando doveva mostrarsi in presenza di Jean-Bénédict? Adesso che sa che suo cugino è stato smascherato, infila degli oggetti nell’ufficio di Levovitch per discolparsi. Dopotutto è una felice coincidenza che mi abbia chiesto di frugare nei cassetti della scrivania e che io mi sia imbattuta in quell’anello e quel fazzoletto. Stento a credere che si sia trattato di un caso.”
Sagamore annuì.
“Pensi che la sua descrizione della residenza privata sia puntuale?”
“Difficile a dirsi,” ammise Cristina.
Quando la polizia aveva perquisito la casa di Tarnogol dopo l’omicidio, l’aveva trovata vuota. Il mobilio era scomparso, come se qualcuno avesse voluto cancellare ogni traccia. L’unica cosa che era stata trovata era uno scatolone di cartone dimenticato in un armadio con alcuni effetti personali appartenuti a Jean-Bénédict Hansen. Un vicino aveva riferito che alcuni camion di traslocatori avevano portato via tutto il giovedì prima dell’omicidio. Ma era stato impossibile risalire alla ditta di traslochi.
Sagamore fece una smorfia.
“La cruda verità è che ci mancano elementi concreti per supportare le varie tesi,” disse.
“Se solo si potesse far parlare quest’anello!” sospirò Cristina agitando una bustina di plastica con il gioiello ritrovato nel cassetto di Levovitch.
Sagamore la trovò un’ottima idea.
“Conosco qualcuno che può aiutarci!” esclamò all’improvviso. “Vieni, andiamo!”
Dieci minuti più tardi l’autocivetta di Sagamore parcheggiava davanti a una botteguccia che vendeva gioielli usati nel quartiere dei Pâquis. Malgrado l’ora tarda, il negozio era ancora aperto. Il proprietario, un certo Frank, era un tipo eccentrico, dall’aspetto poco raccomandabile, che in passato era stato coinvolto in casi di ricettazione di diamanti. In seguito era rientrato nei ranghi e ogni tanto fungeva da informatore della polizia, quando le vecchie conoscenze cercavano di rifilargli un gioiello rubato.
Sagamore e Cristina entrarono nel negozietto deserto e Frank li salutò giovialmente.
“Tenente, che piacere vederla! Viene a comprarsi un orologio?”
“Vengo in cerca di informazioni,” rispose Sagamore, appoggiando l’anello sul banco.
“Cosa vuole sapere?”
“Puoi risalire alla provenienza di questo anello?”
Frank corrugò la fronte.
“A prima vista mi sembra difficile, tenente. Ma mi faccia guardare bene.”
Prese in mano l’anello e lo studiò con una lente di ingrandimento.
“Non è un anello di grande valore,” constatò. “Non è un vero zaffiro.”
“Che altro puoi dirmi?” chiese Sagamore.
Frank osservò attentamente la pietra. Si sedette al tavolo da lavoro, cambiò lente d’ingrandimento, passò l’anello sotto diverse fonti di luce e poi disse: “Ho l’impressione che ci sia un’iscrizione nell’incastonatura, ma è nascosta dalla pietra.”
“Riesci a leggere qualche cosa?”
“No, dovrei smontarla.”
“Fallo,” ordinò Sagamore.
Frank obbedì. Staccò la pietra dalla montatura in oro e lesse quello che era stato inciso all’interno:
Kaham Bijoutier, Ginevra – 4560953
* * *
Kaham era un vecchio gioielliere che si trovava da decenni in rue Étienne-Dumont, nel cuore della Città Vecchia di Ginevra.
Gli orari di apertura della sua bottega erano aleatori e Sagamore dovette pazientare un bel po’ prima che il commerciante si decidesse ad aprire il negozio. Era un locale polveroso e buio: entrando, Sagamore pensò che il vecchio Kaham non doveva più vendere granché da parecchio tempo.
“Sono il tenente Philippe Sagamore,” si presentò il poliziotto, mostrando il distintivo.
“È della polizia?” si stupì il vecchio, strizzando le palpebre.
“Sì. Dell’Unità Crimini Violenti. Sto indagando su un omicidio.”
Il vecchio si strinse nelle spalle. Non era chiaro se la cosa non gli interessasse o se non avesse capito. Sagamore gli mostrò l’anello, la cui pietra ormai non era più fissata alla montatura.
“Vuole che glielo ripari?” chiese Kaham.
“No,” rispose Sagamore. “Questo anello proviene dal suo negozio. Ho bisogno di sapere chi l’ha comprato.”
Con sua grande sorpresa, fu facile trovare la risposta a quella domanda. Kaham, che considerava ciascuna delle sue creazioni unica, le aveva scrupolosamente numerate. Il codice di riferimento, associato al nome dell’acquirente, era riportato in giganteschi libri contabili accumulatisi nel corso del tempo. Dopo essere risalito indietro negli anni spulciando i suoi interminabili inventari, all’improvviso Kaham puntò il dito su una riga e cacciò un grido di vittoria. Lo aveva trovato.
Sagamore si precipitò a leggere la scritta:
4560953 – Anello d’oro con zircone blu.
Acquirente: Sol Levovitch.
In quello stesso momento, a Corfù. Era la fine della mattinata, Anastasia consumava una colazione tardiva sulla terrazza di casa. Seduto di fronte a lei, Levovitch leggeva il giornale. Sembrava felice e spensierato. Non osò parlargli di ciò che l’assillava sempre di più. Non riusciva a smettere di ripensare a quello che era accaduto poche ore prima dell’omicidio, quando aveva scoperto che Tarnogol era un’impostura.