42.
Il Grande Ribaltamento

Sabato 15 dicembre. Il giorno prima dell’omicidio

Undici e mezzo di sera. Il Palace de Verbier aveva ritrovato la consueta calma, ma c’era il silenzio desolato che segue un cataclisma. Nella sala da ballo, i dipendenti dell’albergo si davano da fare per cancellare le tracce del caos che vi aveva regnato fino a poche ore prima.

Tutti gli intossicati, distribuiti nei diversi ospedali della regione, erano salvi. La maggior parte di loro sarebbe rimasta sotto osservazione per la notte. Una semplice precauzione, perché ormai non c’era più nessun caso che destasse preoccupazione. Per fortuna non si erano registrate vittime. I medici avevano parlato di intossicazione alimentare. Probabilmente qualcosa negli stuzzichini. Il salmone? Il foie gras? La polizia aveva allertato le autorità sanitarie, e nelle cucine dell’albergo erano in corso dei prelievi. Il signor Rose, allarmato, faceva vuotare le celle frigorifere e buttare tutto il cibo che c’era. “Non voglio correre rischi!” ripeteva alla brigata di cuochi, che promettevano a loro volta di dare una lavata di capo ai fornitori, anche se non capivano cosa potesse essere accaduto: tutti i prodotti che utilizzavano erano di prima qualità e assoluta freschezza.

Nella sua suite al sesto piano, Lev chiudeva la valigia sotto lo sguardo inquieto di Anastasia.

“Sei sicuro di stare bene?” gli chiese.

Lev era appena tornato dall’ospedale di Sion. Dopo essere stato visitato dai medici, si era sentito rapidamente meglio. Gli avevano consigliato di restare sotto osservazione, ma lui aveva voluto tornare subito al Palace.

“Va tutto bene,” assicurò ad Anastasia. “Non preoccuparti.”

“Te la senti di viaggiare? Possiamo aspettare domani.”

“Non aspettiamo più. È da troppo che rimandiamo questo momento.”

Lei assentì: Lev aveva ragione. Accanto alla porta, la sua borsa, pronta da giorni, testimoniava le partenze mancate. Dovevano andarsene. Adesso. Sparire insieme. Dimenticare Ginevra, la banca e tutto quello che era accaduto negli ultimi quindici anni.

“Non so cosa sia successo,” disse Lev, “ma dubito che questi malori siano dovuti a una semplice intossicazione.”

“Perché?” chiese Anastasia.

“Perché io sono stato male anche se non ho mangiato niente. Ho bevuto solo una coppa di champagne e qualche sorso di un cocktail a base di vodka che ho trovato disgustoso e ho buttato subito. Faccio fatica a credere che al Palace servano un liquore adulterato. E poi, la cosa più strana è che Macaire, Tarnogol, Jean-Bénédict e Horace Hansen non sono stati male.”

“Ne sei sicuro?” si informò Anastasia.

“Certissimo. Li ho visti. Erano tutti piegati in due, tranne loro.”

“Cosa significa?” si chiese lei a voce alta, ripensando al diario di Macaire e ai suoi progetti funesti per riprendere le redini della banca.

“Non ne ho la più pallida idea,” disse Lev. “Ma penso che stia succedendo qualcosa di molto strano, Anastasia. Non so cosa, ma prima lasceremo questo maledetto Palace, meglio starò.”

Sarebbero partiti tra un’ora. Alfred era stato avvisato. Sarebbe venuto a prenderli a una delle entrate di servizio del Palace perché nessuno li vedesse. Li avrebbe portati all’aeroporto di Sion. Lì li attendeva un aereo privato. Era tutto programmato.

“Un aereo privato con quale destinazione?” chiese Anastasia.

“Vedrai,” le sorrise Lev.

Anastasia ricambiò il suo sorriso. Con una mano in tasca, giocherellò con l’anello di fidanzamento regalatole a suo tempo da Macaire. All’improvviso pensò che non voleva più fuggire senza dirgli addio. Voleva porre fine alla loro storia così come era cominciata, proprio lì, in quell’albergo, quindici anni prima.

“Devo sistemare un’ultima cosa,” disse. “Finisci di riempire la tua valigia, torno subito.”

Nella sua suite, Macaire esultava. Seduto su una poltrona, guardava emozionato il certificato azionario al portatore che una mano anonima aveva fatto scivolare sotto la porta. Tarnogol aveva mantenuto la parola e gli aveva restituito ciò che gli spettava. Quindici anni più tardi, Macaire tornava al suo legittimo posto.

All’improvviso bussarono alla porta. Macaire chiuse il certificato nella cassaforte e andò ad aprire. Era Anastasia. Aveva l’aria abbattuta. Lui capì subito.

“Prego,” le disse, come se fosse un’estranea.

Lei entrò nella stanza, si sedette su una poltrona ed estrasse dalla tasca un oggetto che posò su un tavolino basso. Macaire riconobbe subito lo zaffiro che le aveva dato per chiederla in moglie. Era da anni che non vedeva quell’anello.

“È tutto finito,” mormorò.

“Lo so,” rispose lui con dolcezza.

Anastasia fu presa in contropiede, non si aspettava quella risposta.

“So che vedi qualcuno, Anastasia,” proseguì lui. “Lo scorso fine-settimana non eri a casa della tua amica Veronica a Vevey. Lo so perché prima di partire per Madrid volevo farti consegnare laggiù i tuoi cioccolatini preferiti. Mi sono detto che ti avrebbe fatto piacere. Ho trovato il numero di telefono di Veronica nella vecchia rubrica che custodisci tanto gelosamente e l’ho chiamata per avere il suo indirizzo. Ma Veronica è cascata dalle nuvole: mi ha detto che erano secoli che non vi vedevate. E non è stata la vicina a regalarti i fiori. C’è qualcun altro nella tua vita.”

Macaire aveva parlato con voce perfettamente calma, fissando Anastasia con una tale intensità che lei dovette distogliere lo sguardo.

“Perché non mi hai detto niente?” chiese alla fine in tono sommesso.

“Forse perché fino a quando non te ne avessi parlato, potevo sperare che non fosse vero. Al mio ritorno da Madrid, domenica sera, ho chiesto ad Arma di restare a casa con te questo fine-settimana. Ufficialmente perché a te non piace stare da sola, ma in realtà era per sorvegliarti. Per poter stare qui senza immaginare che nel frattempo tu fossi a letto con un altro.”

Si guardarono in silenzio. Era quasi mezzanotte. Macaire comprese che la profezia di Tarnogol si era avverata con assoluta precisione: ciò che era iniziato quindici anni prima, adesso si era appena concluso. Aveva dato. E aveva tolto.

“Sono stato felice con te,” disse Macaire.

“Anche io,” assicurò lei.

“Chi è?” le chiese dopo un attimo di esitazione, senza essere certo di voler sentire la risposta.

“Non ha importanza.”

“Hai ragione: non ha importanza. L’amore non è tanto un’alchimia quanto l’opera del tempo. L’amore è soprattutto duro lavoro. Ti auguro di lavorare abbastanza da amare ed essere amata.”

Ad Anastasia sfuggì una lacrima, che le colò lungo la guancia. Lo amava, ma come si ama un fratello, non come un amante. Gli sorrise e si lasciò invadere dai ricordi della loro giovinezza. Dell’uomo buono che era stato. Si guardarono ancora a lungo.

All’improvviso, alcuni colpi energici alla porta li fecero sussultare.

“Macaire, apri!” ordinò in tono minaccioso Jean-Bénédict. “So che sei lì!”

Macaire sbiancò e ordinò ad Anastasia di nascondersi nel bagno. Poi andò ad aprire al cugino, che entrò di slancio nella suite.

“Vuoi sapere l’ultima? Tarnogol è appena passato da me. Mi ha consegnato una lettera di dimissioni: lascia la banca con effetto immediato! Dice anche che le sue azioni tornano a te e che ti dà il suo voto perché il Consiglio ti nomini presidente! Con il mio voto e il suo, quindi, sei eletto presidente. Congratulazioni, signor presidente!”

Macaire fece un sorriso vittorioso. Anche Anastasia, che dal bagno sentiva tutto, sorrise. Era felice per Macaire. Avrebbero ricominciato daccapo, ciascuno per conto proprio. Ma a quel punto Jean-Bénédict annunciò: “Peccato che il presidente sarò io!”

Macaire aggrottò la fronte.

“Che vai dicendo?” chiese.

“È da trecento anni che gli Hansen vengono considerati dei buoni a nulla dagli Ebezner. Vi siete sempre creduti superiori. Ma adesso è finita! A partire dal 1° gennaio la Banca Ebezner diventerà Banca Hansen. Sull’edificio di rue de la Corraterie verrà scolpito il mio nome. Perché tu mi darai le azioni che ti ha restituito Tarnogol. E queste azioni, aggiunte alle mie e a quelle di mio padre, ci mettono in una posizione blindata. La banca ormai appartiene agli Hansen.”

“Tu dài i numeri!” tuonò Macaire.

Jean-Bénédict scoppiò in una risata perfida.

“Sei tu che dài i numeri, Macaire. Sei sempre stato solo un perdente. Volevi tradire la banca, hai tentato di uccidere Tarnogol e hai avvelenato tutti, pazzo che non sei altro! Dovrei denunciarti alla polizia, ma non lo farò se mi consegni immediatamente le tue azioni.”

“Non hai nessuna prova di ciò che affermi!”

“Sei veramente pronto a correre questo rischio? Per il momento tutti pensano che il salmone affumicato non fosse fresco. Non si andrà oltre. Ma basta che io riveli tutto alla polizia e l’indagine verrà chiusa in quattro e quattr’otto: le telecamere dell’albergo ti hanno sicuramente ripreso mentre mettevi la bottiglia di vodka nel bar. E dopo il responsabile dei banchetti ti ha visto cercarla come un forsennato. Se parlo, tutti confermeranno le mie dichiarazioni. Vedo già i titoli dei giornali: ‘Macaire Ebezner, l’avvelenatore’.” E chiaramente divulgherò anche quel video di te che cerchi di vendere liste di clienti al fisco italiano. Sai che scandalo!”

Macaire chiuse gli occhi e si accasciò su una poltrona.

“È finita per te, Macaire!” disse Jean-Bénédict.

Macaire non aveva scelta. Dopo una lunga esitazione, si diresse verso la cassaforte ed estrasse la busta di Tarnogol. Jean-Bénédict se ne impossessò e verificò, esultante, che all’interno ci fosse il documento che certificava il possesso delle azioni.

“Non potrai essere presidente,” gli disse allora Macaire. “Mio padre ha espressamente vietato che un membro del Consiglio potesse succedergli.”

“Ma grazie a te la famiglia Hansen adesso detiene la maggioranza delle azioni. Siamo noi a designare o revocare il presidente. Ormai abbiamo il controllo della banca e possiamo decidere del suo destino. Beninteso, tu approverai pubblicamente questi cambiamenti. E ovviamente darai le dimissioni dalla banca. Penso addirittura che sia nel tuo interesse andartene da Ginevra e stabilirti altrove. Con quello che ti ha lasciato tuo padre, per te i soldi non sono un problema. Dovresti approfittarne e farti una nuova vita. Molto lontano. Non voglio più vederti, caro cugino!”

Macaire tremava. Aveva perso e lo sapeva. Jean-Bénédict gli diede una pacca condiscendente sulla spalla.

“Hai preso la decisione giusta. Domani mattina organizzerò una conferenza stampa per annunciare i grandi cambiamenti. Leggerò la lettera di dimissioni che mi ha consegnato Tarnogol e spiegherò che tu lasci la banca per ragioni personali, affidandomi il timone. La gente penserà che hai un tumore: è una cosa che impietosisce sempre. Be’, buonanotte, caro cugino! Dormi bene.”

Se ne andò e Anastasia, che aveva ascoltato tutto, uscì dal bagno livida in volto.

“Scacco matto,” le disse Macaire, soffocando un singhiozzo. “Ho perso tutto.”

Anastasia tornò precipitosamente nella camera di Lev.

“Anastasia, cosa ti succede?” si preoccupò lui, vedendo la sua faccia stravolta.

“Lev, è un disastro!”

“Che succede, santo cielo?”

“Macaire ha fatto una sciocchezza enorme.”

I nervi a pezzi, scoppiò in singhiozzi. Lui la strinse tra le braccia, confortandola.

“Macaire ha cercato di uccidere Tarnogol avvelenando la sua vodka,” spiegò, “ma per errore la bottiglia è stata utilizzata per preparare dei cocktail.”

“Quindi è stato un avvelenamento generale?”

“Sì.”

“Eppure non ci sono vittime,” osservò Lev.

“Macaire pensa che le dosi servite fossero troppo piccole per essere mortali, per fortuna! Si è sfiorata una tragedia terribile. Jean-Bénédict ha scoperto le macchinazioni di Macaire e l’ha ricattato per assumere il controllo della banca. Lo ha appena obbligato a cedergli la presidenza.”

Anastasia rimase per un breve istante in silenzio, come se riflettesse. Poi disse: “C’è una sola persona che possa impedirlo.”

“Chi?”

“Tarnogol. Vado a parlargli.”

“Adesso?”

“Ha dato le dimissioni,” spiegò. “Sa di essere in pericolo, probabilmente starà facendo anche lui le valigie. Devo parlargli prima che lasci l’albergo. Macaire mi ha detto che era nella camera accanto.”

“Tarnogol è pericoloso,” la mise in guardia Lev.

“Lo so.”

La risposta brusca di Anastasia sorprese Lev.

“Lascia che ti accompagni,” disse allora.

“No, Lev. Non ti immischiare, per favore! È una faccenda tra me e Tarnogol. Lui... mi ha rubato una parte della mia vita. È a causa sua che ho sposato Macaire! È a causa sua che tu e io...”

Interruppe la frase a metà. Non aveva voglia di parlarne. Uscì nel corridoio e bussò alla porta accanto. Nessuna risposta. Pochi istanti dopo vide filtrare da sotto un raggio di luce, come se qualcuno si fosse appena svegliato e l’avesse accesa.

Si accostò al battente e – senza alzare la voce, per non allertare il resto del piano – disse: “Tarnogol, so che è lì dentro, apra!”

Dopo qualche secondo Tarnogol aprì la porta in vestaglia: evidentemente lo aveva tirato giù dal letto.

“Cosa succede?” chiese Tarnogol.

“Succede che lei e io dobbiamo parlare,” disse Anastasia, entrando nella suite.

Piantò il suo sguardo di leonessa feroce negli occhi di Tarnogol ed ebbe una repentina visione. Quegli occhi li riconosceva. Si ricordò ciò che aveva detto quella stessa mattina, a Ginevra, al tenente Sagamore: “Gli occhi non mentono.” All’improvviso capì e si scagliò contro di lui.

L'enigma della camera 622
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