56.
Sotto sorveglianza

Inizio di maggio. Nel caldo di metà pomeriggio, Anastasia gironzolava da sola nel centro storico di Corfù. Lev era assente per tutta la giornata. Da quando, un mese prima, aveva accettato di assumere la direzione della filiale ateniese della Banca Ebezner, tutti i martedì lasciava Corfù all’alba e rientrava per cena. Quel martedì, su richiesta di Macaire, Lev si era recato a Ginevra per fare il punto della situazione.

A millecinquecento chilometri da lì, Ginevra era bagnata da un generoso sole primaverile.

Seduti a un tavolino all’aperto della Red Ox Steak House, nel boulevard des Tranchées, Macaire e Lev terminavano di pranzare. Erano gli ultimi clienti: erano arrivati tardi, perché Macaire non aveva voluto rinunciare alla seduta settimanale dal dottor Kazan e aveva scelto quel ristorante proprio perché si trovava vicino allo studio dell’analista.

“Sono davvero contento che ti piaccia Atene,” disse Macaire a Lev. “Una città gradevole, no?”

“Molto. Ci sto bene.”

“Dove abiti esattamente?”

“Nel quartiere di Kolonaki, accanto al Licabetto, non lontano dal centro.”

Macaire gli rivolse uno sguardo falsamente complice.

Lev guardò l’ora.

“Tra poco devo scappare a prendere l’aereo,” disse, “a meno che tu non abbia ancora qualcosa da dirmi.”

“No, credo che ci siamo detti tutto. Grazie per essere venuto fin qui.”

I due uomini si strinsero la mano, e Lev se ne andò.

Macaire lasciò a sua volta il ristorante, ma invece di dirigersi verso la banca, risalì rue de l’Athénée fino al Parc Bertrand e si sedette su una panchina in uno dei viali, come gli aveva indicato Wagner. Questi si fece vivo pochi minuti dopo e prese posto accanto a lui. Finsero di non conoscersi, e Wagner si immerse nella lettura del giornale che aveva portato con sé.

“Ho infilato la capsula nella sua borsa,” mormorò Macaire.

“Non se n’è accorto?”

“Era al bagno.”

Wagner sorrise con aria soddisfatta.

“Entro poche ore sapremo esattamente se Levovitch è ad Atene e se Anastasia è con lui.”

“Grazie del suo aiuto, Wagner.”

“La P-30 glielo doveva, Macaire.”

* * *

Quella sera, a Corfù, mentre il sole tramontava, Lev e Anastasia bevevano un bicchiere di vino sulla terrazza, ammirando il tramonto. Una domestica stava accendendo attorno a loro decine di candele. Presto sarebbe stata servita la cena.

I due amanti erano troppo assorbiti l’uno dall’altra per notare, ad alcune decine di metri da lì, l’uomo che li osservava dalle grandi rocce che si stagliavano sopra la casa, fotografandoli con un teleobiettivo.

Nello stesso momento, a Cologny, in casa Ebezner Arma aveva appena finito di preparare la cena.

“Ha fame, signore?” chiese al padrone che stava stappando una bottiglia di vino.

Riempì due bicchieri e ne porse uno ad Arma.

“Sì, ho fame,” rispose lui, “ma non ho voglia di cenare da solo. Mi farebbe compagnia?”

Sorpresa da quella proposta, all’inizio Arma rimase senza parole, ma poi si riprese profondendosi in un “Grazie tante” e si diresse verso la piattaia per aggiungere un coperto a tavola.

“Su, Arma,” le disse allora Macaire, “ha lavorato abbastanza per oggi. La porto a cena fuori. Al Lion d’Or: che cosa ne dice?”

“È troppo chic per me,” replicò Arma. “Sono in grembiule.”

“Ma no, sta benissimo.”

“Non posso andare a cena fuori così,” insisté lei. “La accompagnerò un’altra volta.”

“Perché non va a cercarsi qualcosa nel guardaroba di Anastasia? Tutte le sue cose sono ancora lì. Avete più o meno la stessa taglia, no? Prenda tutto quello che vuole. Scelga lei. E faccia pure con calma, non ho fretta.”

Arma obbedì e salì al piano superiore. Entrò nel grande bagno dei padroni, dove tutto era rimasto al suo posto. Si truccò, si pettinò e poi scelse un abito nel guardaroba, qualcosa di semplice ed elegante. Scovò un paio di scarpe che si adattavano bene – con i tacchi non troppo alti. Quando trovò il coraggio di guardarsi allo specchio, all’inizio ebbe paura di essere ridicola.

E invece no. Era addirittura molto graziosa.

“Uau, Arma!” esclamò Macaire, guardando dalla porta socchiusa.

Lei si fece rossa come un peperone.

“È sicuro che vada bene, signore? Non sono ridicola?”

“È... sublime.”

Arma aveva il cuore che le scalpitava in petto. Emozionata, seguì con passo solenne il padrone, che la condusse a bordo della sua macchina sportiva fino al ristorante, al centro di Cologny, aprendole la portiera con galanteria.

Li fecero accomodare a un tavolo in terrazza, con una delle più belle viste su Ginevra.

“Allora è qui che veniva spesso con la signora?” disse Arma, osservando il panorama.

“Sì,” assentì Macaire.

Arma si pentì immediatamente di avere menzionato la signora. Doveva cambiare subito argomento!

“Non ho mai visto un posto così bello,” aggiunse.

Sorrise a Macaire, che ricambiò il suo sorriso.

* * *

Dieci anni prima

Arma varcò il cancello aperto e scorse l’immensa dimora che si ergeva in fondo al vialetto. Fino a quel giorno non era ancora mai venuta a Cologny, e tantomeno nello chemin de Ruth. Lungo il tragitto era rimasta molto impressionata dalle dimensioni e dallo stile delle case che aveva potuto osservare.

Suonò alla porta e una giovane donna bellissima l’accolse con un sorriso. Era Anastasia.

“Buongiorno, signora,” si presentò timidamente Arma. “Vengo per l’annuncio.”

“Prego, entri. La stavamo aspettando.”

Arma fu condotta nel salone. Si sentì a disagio seduta su un divano così bello. Poi nella stanza entrò un uomo, che lei trovò magnifico.

“Ecco mio marito Macaire,” disse Anastasia.

“Buongiorno, signore,” lo salutò Arma, affascinata. “Io mi chiamo Arma.”

“Grazie di essere venuta, Arma,” sorrise Macaire. “L’agenzia di collocamento ci ha detto che lei è una perla rara. Ci siamo appena trasferiti in questa casa e abbiamo bisogno di qualcuno che se ne occupi a tempo pieno. Lei è giovane, ma dispone di solide referenze. Sarebbe pronta a fare un tentativo?”

“Sarebbe un onore, signore,” rispose Arma.

* * *

Dieci anni più tardi Arma non si capacitava di essere seduta di fronte al signore in quel ristorante di cui aveva sentito parlare così spesso. Si meravigliò dei piatti che le servirono, del vino, del carrello dei dolci. Avrebbe voluto che quella serata non finisse mai, ma quando fu ora di andare, Macaire le disse: “Grazie, Arma.”

“Per questa sera?” si stupì lei.

“Per tutto.”

La riaccompagnò a casa nel quartiere delle Eaux-Vives e la scortò fino all’entrata del palazzo, all’angolo tra rue de Montchoisy e rue des Vollandes. Lei rientrò nel suo appartamento fremente d’eccitazione. Lui tornò a casa col sorriso sulle labbra.

Di ritorno a Cologny, Macaire passò un po’ di tempo nello studio e fumò un sigaro soprappensiero. All’improvviso squillò il telefono di casa. Eppure era tardi. Rispose e, all’altro capo del filo, sentì una melodia inconfondibile: il Lago dei cigni. Era Wagner.

Senza perdere un secondo, Macaire salì in macchina, si diresse fino alla cabina telefonica nel centro di Cologny e compose il numero trovato nel carillon. Dopo uno squillo, Wagner rispose:

“Sono a Corfù,” disse a Macaire. “Li ho ritrovati.”

“A Corfù? Anastasia e Lev sono insieme a Corfù?”

“Sì. Ho scattato delle foto. Gliele farò avere.”

Macaire riagganciò col cuore in tumulto. La lettera anonima diceva quindi il vero: Anastasia l’aveva lasciato per Lev. Sentì crescere la rabbia dentro di sé.

Era scoccata l’ora della vendetta.

E sapeva esattamente cosa avrebbe fatto.

L'enigma della camera 622
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