49.
La mattina dell’omicidio

La mattina dell’omicidio

Domenica 16 dicembre, alle sette e mezzo, Macaire fu svegliato da alcuni colpi alla porta. Emerse a fatica dal sonno. I colpi erano insistenti. Alla fine si alzò e si infilò la vestaglia. Nel corridoio della suite, al momento di aprire, posò il piede su un pezzetto di carta. Qualcuno aveva fatto scivolare sotto la porta un biglietto per lui. All’inizio Macaire pensò a una comunicazione dell’albergo, poi riconobbe la calligrafia di Anastasia. Con il cuore in tumulto, lesse le poche righe scribacchiate di fretta.

Macaire,

Parto per sempre.

Non tornerò più. Non cercare di ritrovarmi.

Perdonami.

Vivrò per sempre col peso di ciò che ho fatto.

Anastasia

All’improvviso ci furono altri colpi alla porta. Prima di aprire, Macaire infilò il biglietto nella tasca della vestaglia: si ritrovò davanti un poliziotto in uniforme. Nel corridoio regnava un’agitazione infernale.

“Cosa succede?” chiese Macaire.

Il poliziotto lo fissò con aria circospetta:

“Non ha sentito il baccano che regna da un’ora?”

“Ieri sera ho preso dei sonniferi,” spiegò Macaire, palesemente mezzo addormentato.

“Questa notte c’è stato un omicidio,” annunciò il poliziotto.

“Come?”

Macaire non capiva niente. Gli girava tutto intorno, aveva mal di testa, come in un brutto sogno.

“Chi è morto?” chiese.

“Un cliente su questo piano. Non ha sentito niente?”

“No, niente. Ma gliel’ho detto, ho preso dei sonniferi.”

Macaire accennò a fare un passo nel corridoio per vedere cosa succedeva, ma il poliziotto glielo impedì.

“L’accesso all’albergo è sbarrato, i clienti hanno l’obbligo di restare nelle loro camere. Tenga la porta aperta, per favore! Tra poco verrà a parlarle un ispettore.”

Dalla soglia, Macaire vide Lev, anche lui davanti alla porta della sua camera, intento a osservare il trambusto.

“Lev, cosa succede?” chiese Macaire.

“Si tratta di Jean-Bénédict,” rispose Lev, livido in volto. “È stato trovato morto stamattina.”

“Come? Jean-Béné è morto?”

“È stato ucciso a colpi d’arma da fuoco.”

Macaire, in preda allo shock, si sedette su un divano: era la migliore notizia possibile. Non riusciva a capacitarsene. Se Jean-Bénédict era morto, allora lui era presidente? La profezia di Tarnogol alla fine si era avverata? Aveva perduto Anastasia, ma sarebbe diventato presidente!

Un poliziotto in borghese dall’aspetto giovanile e dalla corporatura atletica si presentò alla porta della suite di Macaire.

“Ispettore Favraz, Polizia Giudiziaria,” dichiarò, mostrando il tesserino che portava al collo. “Posso farle qualche domanda?”

Macaire lo invitò a entrare nella stanza. Su sua richiesta, gli fornì un documento d’identità e gli indicò la propria funzione all’interno della banca. Il poliziotto annotò scrupolosamente tutto ciò che diceva in un taccuino e gli spiegò che Jean-Bénédict era stato assassinato a colpi di pistola. Macaire era sbigottito.

“Lei non ha sentito niente?” si stupì il poliziotto.

“Dormivo,” spiegò Macaire.

“Ci sono stati due spari a pochi metri dalla sua camera, e lei dormiva come un ghiro?”

“Prendo dei sonniferi. A che ora è successo?”

“Dobbiamo ancora stabilirlo. Mi hanno parlato di un’intossicazione avvenuta ieri sera. Lei è stato colpito?”

“No,” rispose Macaire. “Non ho bevuto nessun cocktail.”

Macaire si morse subito la lingua. Il poliziotto lo fissò con aria diffidente.

“Perché mi parla dei cocktail? Mi hanno detto che si trattava di una probabile intossicazione alimentare.”

A quel punto la conversazione si interruppe perché ci fu trambusto in corridoio. L’ispettore Favraz andò immediatamente a controllare. Dall’uscio della sua suite, Macaire lo vide precipitarsi nella camera di Horace Hansen e uscirne gridando ai colleghi: “Ha un attacco di cuore, chiamate l’ambulanza!” Dopo qualche minuto di confusione, due infermieri arrivarono al piano e vennero accompagnati nella suite di Horace Hansen, dove si fermarono a lungo. Questi alla fine ne uscì disteso su una barella, inerte, bianco come un cencio, con una maschera per l’ossigeno sul volto. L’ispettore Favraz assisteva gli infermieri, reggendo una flebo col braccio teso. Entrarono nella cabina dell’ascensore e le porte si richiusero su di loro.

Nell’ascensore, il poliziotto ebbe l’impressione che Horace Hansen cercasse di dire qualcosa. Avvicinò l’orecchio alla sua bocca e lo udì mormorare ripetutamente: “Levovitch presidente... Levovitch presidente.” Senza comprendere cosa potesse significare, il poliziotto prese nota di quelle parole enigmatiche per non dimenticarle.

Il giorno spuntava lentamente su Verbier. I lampeggianti blu dei veicoli d’emergenza illuminavano la facciata del Palace. Attorno all’ingresso principale si agitavano agenti di polizia, ispettori, addestratori di cani ed esperti della Scientifica. Dietro di loro, trattenuti dai nastri gialli, scalpitavano decine di curiosi e di giornalisti, impazienti di sapere cosa fosse successo. “È stato assassinato uno dei pezzi grossi della Banca Ebezner,” si diceva. Un omicidio a Verbier. Era una cosa senza precedenti!

Contemplando con sgomento quella baraonda dalle grandi vetrate, il signor Rose e alcuni dipendenti si lamentavano: le prenotazioni sarebbero state annullate. Era l’inizio della stagione sciistica e nessuno sarebbe voluto venire in un albergo dove era appena stato commesso un omicidio. Il Palace rischiava il fallimento.

* * *

Quattro mesi dopo, in quell’inizio di aprile, nel suo ufficio di presidente della Banca Ebezner, Macaire ripensava spesso alla cupa domenica di dicembre che aveva visto la scomparsa di due generazioni di Hansen. Poche ore dopo l’assassinio del figlio, Horace Hansen era deceduto all’ospedale di Martigny in seguito all’infarto. La morte violenta del figlio gli aveva inferto il colpo fatale. Quanto a Sinior Tarnogol, terzo membro del Consiglio, si era volatilizzato. Aveva lasciato a Jean-Bénédict una lettera, trovata nella cassaforte della camera di quest’ultimo, nella quale dichiarava di dimettersi con effetto immediato e di trasferire le sue azioni e dare il suo voto a Macaire Ebezner.

Così, nelle settimane successive all’omicidio di Jean-Bénédict Hansen, Macaire non solo aveva recuperato le azioni di Tarnogol, ma anche quelle di suo padre: poiché il Consiglio era stato decimato, il notaio incaricato dell’esecuzione del testamento di Abel Ebezner aveva dovuto constatare che le volontà di questi non potevano più essere rispettate e che, di conseguenza, le sue azioni spettavano all’unico erede.

Macaire era così diventato, di fatto, presidente della Banca Ebezner, poiché possedeva più dei tre quarti del capitale, il che faceva di lui uno dei banchieri più ricchi e più potenti di Ginevra. Era ammirato e invidiato. Ma si era fatto anche una reputazione piuttosto sulfurea: doveva la sua nuova gloria all’assassinio del cugino. Come se non bastasse, le indagini della polizia sembravano su un binario morto, e anche se niente incriminava direttamente Macaire, tutti coloro che lo incrociavano per strada si chiedevano inevitabilmente cosa fosse successo quella famosa notte tra il 15 e il 16 dicembre nella camera 622 del Palace de Verbier. Macaire Ebezner aveva ucciso suo cugino per assumere il controllo della banca di famiglia?

Macaire era al corrente delle voci e si sforzava di non prestarvi attenzione. Tanto più che davanti a lui erano tutti sorrisi e salamelecchi. Le persone che incrociava in città si precipitavano a salutarlo rispettosamente e a blandirlo. E questo per una ragione ben precisa: poiché Jean-Bénédict era figlio unico e non aveva avuto figli, Horace e lui erano morti senza lasciare eredi. Gli Hansen erano stati sradicati. Il regolamento della Banca Ebezner prevedeva che le loro azioni venissero rilevate dall’istituto per essere cedute in seguito a due nuovi membri del Consiglio designati dal presidente.

Per la prima volta in trecento anni di esistenza, il Consiglio della Banca Ebezner non sarebbe più stato composto esclusivamente da membri delle famiglie Ebezner e Hansen. Per tutti i giovani lupi della finanza, era un’occasione unica. Macaire era ormai l’uomo più in vista di Ginevra, e il più corteggiato.

Macaire, il figlio poco amato di Abel, era diventato il più potente degli Ebezner.

Il più ricco degli Ebezner.

Il più grande degli Ebezner.

Cosa provava adesso? Noia. Disgusto. In fondo, se n’era sempre fregato di quella banca. Adesso che aveva raggiunto il vertice assoluto, si ricordava per quale ragione, quindici anni prima, aveva ceduto le sue azioni.

Era stato felice soltanto con Anastasia.

Senza di lei, la sua vita non aveva più alcun gusto.

Voleva ritrovarla.

Voleva riconquistarla.

Dov’era?

In quello stesso momento, ad alcune migliaia di chilometri da Ginevra, sull’isola di Corfù, in Grecia.

Anastasia uscì dal mare color smeraldo e afferrò l’asciugamano che aveva lasciato sulla spiaggia. Era felice come non mai e si notava: era splendida, magnifica e raggiante, bagnata dal sole e soprattutto dall’amore di Lev. Si asciugò e si diresse verso l’imponente casa che si ergeva dietro di lei, protetta dalle rocce e a strapiombo sul Mar Ionio.

Quando erano arrivati lì, a dicembre, era stata una passione folle. La passione di ritrovarsi, la passione di stare insieme tutto il tempo, di non doversi più nascondere. Le passeggiate mano nella mano nella città vecchia di Corfù, le camminate lungo la spiaggia. E quella casa! Anastasia non aveva mai visto niente di simile.

Lev voleva che fosse tutto perfetto – ed era tutto perfetto.

Lev ci teneva che fossero sempre belli: avevano preso d’assalto le boutique di lusso di Atene. “Ci metteremo in ghingheri tutte le sere!” aveva detto. Lei l’aveva trovata un’idea meravigliosa. La loro camera da letto, grande come un salone, dava su due cabine armadio da cui si accedeva a due immense stanze da bagno. Ciascuno rinchiuso nella sua, si separavano per poi ritrovarsi, ancora più belli, ancora più profumati, ancora più desiderosi. Ancora più sublimi.

Si preparavano a lungo, seguendo un interminabile rituale. I sensi all’erta, sentivano crescere l’eccitazione nell’attesa dell’incontro man mano che il tempo avanzava.

Lev cominciava con una serie di piegamenti sulle braccia, seguiti da una lunga doccia al termine della quale passava in rivista ogni centimetro quadrato del suo corpo scolpito. Sistemava, acconciava, tagliava, andava a caccia della più piccola imperfezione, scrutando il minimo pelo ribelle.

Anastasia amava il regno del suo bagno. Si immergeva nell’immensa vasca, dall’acqua piacevolmente bollente e ricca di schiuma profumata. Aveva disposto delle candele tutt’attorno e leggeva a lungo in un’atmosfera tranquilla. Poi usciva, si pettinava arricciandosi i capelli, si assicurava che le unghie delle mani e dei piedi fossero smaltate alla perfezione. E infine sceglieva un abito. “Mai lo stesso!” pretendeva Lev. “Quando non ce ne sono più, ce ne sono ancora!” Le faceva recapitare doni in continuazione.

Al mattino, Lev era in piedi fin dall’alba. Andava a correre sulle colline dell’isola, poi lavorava nel suo piccolo studio al pianoterra.

Anastasia, una volta alzata e pronta, lo raggiungeva e facevano colazione insieme, nella sala da pranzo nei mesi invernali, e sulla terrazza nella bella stagione. Si concedevano torta al formaggio, dolci greci e croissant ancora caldi che una panetteria consegnava loro tutte le mattine.

Dopo avere fatto pochi passi sulla spiaggia deserta, Anastasia salì gli scalini scavati nella roccia che conducevano alla casa. Mentre arrivava sulla terrazza, Alfred le portò un caffè, un bicchiere d’acqua e della frutta tagliata a pezzi.

“Grazie, Alfred,” gli sorrise, prendendo la tazza di caffè. “Mi ha letto nel pensiero. A che ora rientra Lev?”

“Verso la fine del pomeriggio,” rispose Alfred, guardando l’ora.

Dal loro arrivo a Corfù, Lev doveva recarsi regolarmente a Ginevra su richiesta di Macaire che lo credeva ad Atene. Lev aveva spiegato ad Anastasia che non poteva scappare come un bandito. “La cosa desterebbe dei sospetti,” aveva detto. Anastasia non aveva ben compreso di quali sospetti parlasse. Ma poco le importava, le brevi assenze di Lev erano una deliziosa tortura: ancora più desiderio al ritorno, ancora più amore, ancora più passione. Chi avrebbe creduto che fosse possibile!

E poi si trattava al massimo di qualche mese. Almeno così aveva detto Lev. All’inizio si era parlato di dimissioni rapide, poi lui aveva fatto marcia indietro, dicendo che non poteva abbandonare i suoi clienti dall’oggi al domani. “Non sarebbe professionale,” aveva spiegato. “A che pro essere professionale quando si danno comunque le dimissioni?” aveva replicato lei. “Questione di principio,” aveva detto lui.

La voce di Alfred strappò Anastasia ai suoi pensieri.

“Cosa desidera mangiare questa sera, signora? Sono appena arrivati del pescato fresco e delle magnifiche aragoste.”

“Spaghetti all’aragosta?” suggerì Anastasia.

“Mi sembra un’ottima scelta,” approvò Alfred.

Anastasia contemplò il mare che si offriva alla sua vista. Ancora non riusciva a credere che adesso Lev e lei vivevano lì, in quella casa da sogno, con la caletta privata e il personale così premuroso.

Sperava di non dover mai lasciare quel posto.

A Ginevra, all’ultimo piano della Banca Ebezner, Cristina socchiuse la porta dell’ufficio di Macaire.

“È arrivato Lev,” annunciò in tono serioso.

“Lo faccia entrare,” rispose Macaire, alzandosi per accogliere il visitatore.

Lev entrò nella stanza. Si abbracciarono di slancio.

“Salve, vecchio mio! Che piacere vederti.”

“Il piacere è mio, signor presidente!” rispose Lev, sorridendo.

Macaire scoppiò a ridere.

“Te ne prego, non è il caso tra noi! E poi, so quello che ti devo. Non dimentico che eri pronto a rinunciare alla presidenza per lasciarmi il posto.”

Macaire indicò con la mano due poltrone e i due uomini si accomodarono.

“Posso offrirti un drink? Un whisky?”

“Vada per un whisky,” accettò Lev.

Macaire tese il braccio per afferrare una massiccia bottiglia di cristallo. Versò un po’ del suo contenuto in due bicchieri, poi entrambi gli uomini brindarono con aria complice.

“Volevi vedermi?” chiese alla fine Lev.

“Sì,” disse Macaire, di colpo serissimo. “Come vanno le cose ad Atene?”

Per giustificare la sua partenza, Lev aveva spiegato a Macaire che non se la sentiva più di rimanere a Ginevra ora che lui era presidente. Che aveva voglia di cambiare aria. Aveva bisogno di rinnovarsi e di nuovi progetti. Per assicurare una transizione morbida con i suoi clienti, avevano deciso che Lev non avrebbe annunciato immediatamente la sua partenza, che avrebbe lavorato a distanza e sarebbe passato regolarmente in banca, giustificando le lunghe assenze con sviluppi all’estero.

“Ascolta,” disse Macaire a Lev, dopo che questi gli ebbe fatto un breve ragguaglio. “Ho molto riflettuto su quello di cui mi hai parlato: la tua voglia di dare le dimissioni, la sensazione di avere chiuso qui. Ma per essere onesto, ho ancora bisogno di te in banca. Per una questione di stabilità. Tu hai nel tuo portafoglio alcuni dei nostri clienti più grossi. Ho paura che se te ne vai si trasferiscano altrove. La banca è stata già molto scossa dall’omicidio di Jean-Bénédict, e l’annuncio della tua partenza la danneggerebbe.”

“Vorresti che io restassi?” si stupì Lev. “In tutta franchezza, non credo di averne voglia.”

“Sei stato contattato da un’altra banca, è così?” chiese Macaire. “Quanto ti offrono? Io ti darò il doppio! Ho bisogno di te!”

“No, non ho in programma di lavorare per un’altra banca. Ho soltanto voglia di cambiare aria. E poi adesso sei presidente, hai il tuo ufficio al sesto piano. Se ritorno, per me non sarà più lo stesso stare da solo al quinto.”

“Lev,” propose Macaire, “perché non prendi in carico la filiale di Atene? Potresti svilupparla. Hai una consistente clientela greca, sarebbe assolutamente giustificato. Potresti continuare a gestire i tuoi clienti da laggiù e, quando è necessario, ti sarà facile tornare a Ginevra o andare ovunque in Europa.”

“I locali della banca ad Atene non sono entusiasmanti,” obiettò Lev. “Non voglio passare le mie giornate lì.”

“Lavorerai da casa, se vuoi. Dovrai passare in sede solo una volta alla settimana per assicurarti che tutto vada bene.”

Lev ebbe un attimo di esitazione.

“Non voltarmi le spalle!” lo implorò Macaire. “Sei uno dei pilastri di questa banca! Non posso cominciare la mia presidenza perdendo il mio miglior gestore. Che figura ci farei? Te ne supplico...”

“D’accordo,” accettò alla fine Lev. “Ma non mi impegno per più di un anno.”

“Un anno va già bene,” assicurò Macaire, rivolgendogli uno sguardo pieno di gratitudine. “E se la situazione ti va a genio, potrai prolungare finché vorrai.”

Lev accettò. I due uomini suggellarono l’accordo con una stretta di mano e brindarono di nuovo.

Quando Lev se ne andò, Macaire fece un sorriso di sufficienza, da cui traspariva un senso di superiorità. Pensò che la debolezza di Lev era la sua gentilezza. La prima parte della trappola si era richiusa su di lui.

Macaire aprì il primo cassetto della scrivania e ne estrasse la lettera che aveva ricevuto a casa pochi giorni prima. Una lettera anonima che gli aveva fatto risputare il caffè quando l’aveva letta. Sul foglio, una sola frase:

Anastasia è scappata con Lev Levovitch.

L'enigma della camera 622
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