24.
Giovinezza di Lev Levovitch
Trentacinque anni prima, a Ginevra
“Lev, Lev!”
Sentendo il suo nome, il bambino che usciva da scuola si girò e, appena vide la madre, si precipitò tra le sue braccia.
“Come sta il mio piccolo principe?” gli chiese lei in italiano.
“Sto bene, mamma,” rispose lui, abbracciandola.
Tutti i giorni, lei lo accompagnava a scuola al mattino e andava a riprenderlo nel pomeriggio. Quei due tragitti quotidiani a piedi in compagnia della madre erano i momenti che preferiva della giornata.
Camminavano mano nella mano. Il loro appartamento, situato al 55 di route de Florissant, era a pochi minuti a piedi da lì. Attraversavano il Parc Bertrand, risalendo il grande viale fiancheggiato di alberi centenari, ed erano a casa.
Arrivati nel loro piccolo appartamento al sesto piano, Dora, la madre di Lev, metteva a scaldare del latte e poi prendeva una brioche, la tagliava in due, la imburrava abbondantemente e ci aggiungeva uno strato di quadratini di cioccolato. Per Lev, la brioche e il cioccolato sarebbero rimasti per sempre associati al ricordo della madre.
Dora lavorava al consolato italiano di Ginevra, in rue Charles-Galland. Dieci anni prima, quando era ancora nubile, abitava nel quartiere delle Eaux-Vives. Si recava a piedi al lavoro e lungo la strada si fermava al Café Léo, sul carrefour de Rive, per bere un cappuccino e mangiare un croissant alle mandorle. Era stato così che aveva conosciuto Sol Levovitch, che lavorava lì come cameriere, ed era diventato suo marito e il padre di Lev.
Quando gli domandavano che cosa facesse di mestiere, Sol Levovitch rispondeva che era un attore comico e cercava di affermarsi come umorista. Nel frattempo aveva trovato un impiego al Café Léo, che gli serviva per sostentarsi e gli aveva permesso di conoscere Dora.
Dieci anni prima Dora si era lasciata rapidamente conquistare dal fascino di quel giovane cameriere colto e dal sottile umorismo. La mattina, al caffè, la faceva ridere talmente tanto che doveva pregarlo di fare delle pause nelle sue spiritosaggini per bere il cappuccino senza strozzarsi.
“L’uomo che sa farti ridere, sa farti vivere, perché non c’è cosa più bella,” le aveva detto una mattina Sol.
“E perché?” aveva chiesto lei, divertita.
“Perché la risata è più forte di tutto, perfino più forte dell’amore e delle passioni. La risata costituisce una forma di perfezione immutabile. Non la rimpiangi mai, la vivi sempre pienamente. Quando finisce, sei sempre soddisfatto: ne vorresti ancora, ma senza reclamarne di più. Perfino il ricordo delle risate è sempre piacevole.”
Erano diventati ben presto una coppia. Dora sapeva che la vita con Sol le sarebbe piaciuta. Non avrebbero mai navigato nell’oro, ma sarebbero stati felici. Con lui rideva dalla mattina alla sera. Nel pomeriggio, terminato il turno al Café Léo, Sol lavorava con accanimento ai suoi spettacoli, perfezionando i testi, la mimica, il trucco. I personaggi assurdi e burleschi che metteva in scena erano di una comicità irresistibile. La sera e nei fine-settimana batteva i cabaret della regione, e si era guadagnato una piccola fama, anche se questo non gli fruttava molti soldi.
“Un giorno avrò un successo enorme e ti regalerò tutto questo,” prometteva Sol a Dora quando passeggiavano romanticamente nell’elegantissima rue du Rhône, passando davanti alle vetrine delle case di moda parigine.
“Non me ne importa niente,” rispondeva lei. “Non si riempie una vita con dei pezzi di stoffa.”
“Ma questi sono dei belliiiiissimi pezzi di stoffa!” esclamava Sol con la voce roca di uno dei suoi personaggi, facendola scoppiare a ridere.
Poi nacque Lev. Il loro unico figlio.
Trascorsero alcuni anni.
I grattacapi quotidiani e le bollette da pagare si accumularono poco per volta. Sol era sempre più preoccupato per i suoi spettacoli che andavano sempre meno bene, perché lui non si rinnovava e il pubblico aveva una terribile impressione di déjà-vu. Convinse Dora a investire i loro pochi risparmi in una piccola tournée in Francia che avrebbe dovuto far decollare la sua carriera, ma che si rivelò un fiasco totale.
Dora aveva sempre meno voglia di ridere. Ogni volta che lei voleva affrontare un argomento serio, Sol rispondeva con una battuta.
Lev visse un’infanzia felice fino a undici anni, perché i suoi genitori gli risparmiarono le liti. Quando, a fine giornata, nella piccola cucina la tensione saliva, Dora e Sol, che non volevano discutere davanti al figlio, dicevano: “Mamma e papà vanno al ristorante.” Uscivano, affidando Lev alla gentile vicina di pianerottolo, e andavano al Parc Bertrand, dove si accapigliavano per ore.
All’inizio non andarono spesso “al ristorante”.
Poi ci andarono più di frequente.
E alla fine quasi tutte le sere.
E mentre Lev immaginava i genitori in un grande ristorante, come nei film americani che gli faceva guardare la vicina gentile, nell’oscurità del parco, Dora e Sol litigavano a non finire.
“Forse è ora di porre fine alla tua carriera di attore, almeno temporaneamente,” diceva Dora, “e di dedicare più tempo a lavorare e portare a casa un po’ di soldi.”
“Questa carriera è la mia vita!” protestava Sol.
“No, Sol, la tua vita sono tua moglie e tuo figlio, non rinchiuderti per interi fine-settimana a provare delle parti che poi reciti in sale vuote affittate a nostre spese. Senza contare tutto quello che spendi per i costumi, il trucco e compagnia bella!”
“Ma è il mio sogno!” urlava lui.
“Non possiamo più permetterci i tuoi sogni!”
“Una vita senza sogni non è vita!”
“A ogni modo, io questa vita non voglio più farla, Sol,” lo avvisava Dora. “Una vita passata a correre dietro ai conti da pagare, senza mai una vacanza, sempre a stringere la cinghia. Voglio vivere! Voglio esistere!”
“Oh, la signora ha le voglie, adesso!” la sbeffeggiava Sol. “Ah, come sono lontani i bei tempi in cui vivevi d’aria e d’amore!”
“Lo sai qual è il tuo problema, Sol? Tu ami i tuoi personaggi comici più di me, più di te stesso. Ti dimentichi della realtà.”
Poiché gli avevano evitato i loro litigi, i genitori di Lev non poterono risparmiargli una totale incomprensione quando si separarono. I suoi genitori, innamorati come nei film, che passavano il loro tempo “al ristorante”, e poi dall’oggi al domani si dividevano. Fu Dora ad andarsene. Lasciando Lev con il padre.
Aveva bisogno di evadere. Di ritrovarsi. Chiese un permesso al suo datore di lavoro e partì per un viaggio attraverso l’Italia.
“Tornerò a prenderti,” promise a Lev. “Verrò a prenderti a scuola come prima. Mamma ha solo bisogno di un po’ di tempo per sé.”
A scuola, la maestra e gli altri genitori decretarono che era molto insolito che una madre se ne andasse e lasciasse il figlio con il padre. “In genere, è il papà che incontra un’altra donna,” si mormorava nei conciliaboli delle mamme che sbirciavano Sol mentre aspettava il figlio al termine delle lezioni. Quando il bambino usciva, il padre gli porgeva un piccolo sacchetto della panetteria di avenue Alfred-Bertrand.
“Che cos’è?” chiedeva il bambino.
“Una brioche al cioccolato.”
“No, la mamma mi prepara una brioche con il cioccolato dentro.”
“Be’, è una brioche al cioccolato. È la stessa cosa.”
“No, la mamma fa una brioche con il cioccolato, non una brioche al cioccolato: non è la stessa cosa,” diceva Lev, addentandola comunque.
“Quella della mamma è diversa. È meglio quando me la prepara lei,” ripeteva a ogni boccone.
“Presto sarà di nuovo la mamma a prepararti la merenda. Come piace a te.”
“Quando torna la mamma?”
“Presto.”
Ma Dora non torno mai più a prendere Lev all’uscita della scuola.
Pensava di partire solo per qualche settimana. Era un’avventura di cui aveva bisogno. Con un banchiere d’affari milanese conosciuto un giorno al consolato, che la portò a fare un giro della Toscana. Le prime due settimane si sentì terribilmente in colpa e sola senza Lev. Poi la sensazione di libertà finì per prevalere. Al mattino si svegliava in alberghi di lusso e prendeva il caffè contemplando il sole che sorgeva lento su una delle più belle campagne del mondo. Si sentiva viva. Finalmente aveva l’impressione di vivere. Voleva che quella sensazione durasse ancora, e il viaggio fu prolungato con un giro della Puglia, e poi della Sicilia. Voleva tanto vedere l’Etna, e il banchiere, per far colpo su di lei, affittò un elicottero. Ma il velivolo terminò la sua corsa in fondo al Mediterraneo. La marina italiana recuperò tre cadaveri: quelli del pilota, del banchiere e di Dora.
All’anulare di Dora trovarono l’anello di fidanzamento che le aveva regalato il marito. Lo portava ancora al dito, come se non fosse tutto finito. Sol diede l’anello al figlio. Fu l’unico ricordo della madre che conservò.
* * *
Quando Lev ebbe quattordici anni, il padre decise di dare nuovo slancio alla sua carriera di comico traslocando a Zurigo – dove i suoi spettacoli non conobbero però maggiore successo – e poi a Basilea, dove trovò un lavoro abbastanza ben pagato al bar del Grand Hotel Les Trois Rois.
Lev terminò gli studi secondari a Basilea con due anni di anticipo. Nonostante gli incoraggiamenti dei professori, conquistati dalle sue doti, il padre lo convinse a non perdere tempo in studi inutili.
“I prof dicono che potrei diventare qualcuno di importante e guadagnare un sacco di soldi,” spiegò Lev.
“Figlio mio, se i soldi fossero di qualche utilità, lo si saprebbe. I ricchi sono ricchi perché sono dei ladri, non dimenticarlo mai.”
“Sì, papà.”
“Ci hanno rubato tua madre, il nostro bene più prezioso.”
“Sì, papà.”
“Piuttosto ti insegnerò a fare il comico. Porteremo in scena uno spettacolo assieme. La mamma sarebbe fiera di noi.”
Quell’estate, nella speranza che il figlio diventasse il grande comico che lui non era riuscito a essere, Sol gli insegnò tutto ciò che sapeva dell’arte teatrale: dalla postura alla dizione, alla fabbricazione dei costumi e al trucco. Ma una sera, mentre era di servizio al bar del Grand Hotel Les Trois Rois, Sol Levovitch fece la conoscenza del signor Rose, il proprietario del Palace de Verbier, di passaggio a Basilea per sbrigare degli affari. Quella sera il bar era deserto e il signor Rose, in vena di chiacchiere, attaccò bottone con lui. Nel corso della loro discussione, Sol finì immancabilmente per parlargli del suo lavoro di comico. Ciò bastò a convincere il signor Rose che Sol fosse l’uomo che gli ci voleva. Così gli disse: “Signor Levovitch, lei è la perla rara che cercavo da tempo. Ho un lavoro eccezionale da proporle. Sarebbe disposto a trasferirsi a Verbier?”
Il giorno dopo l’incontro con il signor Rose, Sol raccontò a Lev che gli era stata offerta una grande opportunità.
“Non posso dirti quale sarà il mio ruolo all’interno dell’albergo: ho promesso di mantenere il segreto. Ma è un ruolo molto importante. Il ruolo della mia vita.”
“Quindi ti piacerebbe andare a Verbier?” volle sapere Lev.
“Molto.”
“E io cosa farei a Verbier?” chiese allora Lev.
“Il signor Rose dice che potrebbe assumerti come facchino e che, se ti trovi bene, farai carriera. Io avrei parecchio tempo libero, e di certo anche tu, e potrei continuare a insegnarti tutto quello che so. Trasmissione, figlio mio: la trasmissione è una cosa importantissima. È così che le persone non muoiono mai veramente: anche se il loro corpo viene mangiato dai vermi sottoterra, lo spirito sopravvive attraverso qualcun altro. E così di seguito. Sai, quando sarò un po’ troppo malandato, potrai prendere il mio posto al Palace. E dopo tuo figlio prenderà il tuo. Tutto quello che posso dirti è che saremo una grande stirpe di comici. Saremo i nuovi Pitoëff!”
Senza comprendere appieno le elucubrazioni del padre, Lev apprezzò l’idea di andare a vivere in montagna. E fu così che i Levovitch traslocarono in quella stazione sciistica del Canton Vallese, dove furono entrambi assunti al Palace de Verbier.
La vera mansione di Sol all’interno del Palace rimase a lungo un segreto. Ufficialmente fu assunto per aiutare il signor Rose a mantenere la buona reputazione dell’albergo. I suoi compiti in un primo momento non risultarono molto chiari agli altri dipendenti: a volte se ne stava chiuso nel suo piccolo ufficio situato dietro la hall dell’albergo, altre era in viaggio. Ma a seguito di un’indiscrezione, si scoprì che il signor Rose, avendo apprezzato l’esperienza di Sol nel settore alberghiero e la sua intraprendenza, aveva deciso di mandarlo in giro per la Svizzera e l’Europa allo scopo di visitare strutture di lusso facendosi passare per un cliente e redigere dei rapporti sulle innovazioni e le attrattive della concorrenza, fornendo idee per migliorare la qualità del servizio al Palace. Del suo nuovo collaboratore il signor Rose diceva che “aveva l’occhio e il discernimento” necessari. E Sol, contentissimo della fiducia che gli veniva accordata, sembrava felice e realizzato dalle sue funzioni. Per giunta era molto ben pagato e si sistemò in un piccolo e grazioso appartamento nel centro di Verbier.
Lev, dal canto suo, era estremamente soddisfatto della sua nuova vita a Verbier. Assunto come facchino e fattorino del Palace, aveva scoperto le gioie dell’indipendenza. Il personale del suo rango aveva diritto a una bella stanzetta nei sottotetti dell’albergo, e Sol aveva acconsentito che il figlio vi si trasferisse: dopotutto, il suo appartamento si trovava solo a pochi minuti a piedi da lì e si vedevano di continuo in albergo. Lev passava quindi la maggior parte del suo tempo al Palace, dove godeva di vitto, alloggio e servizi di lavanderia. Malgrado questa vita relativamente isolata, provava un senso di libertà che fino ad allora non aveva mai conosciuto. Le giornate non si assomigliavano mai: incontrava un mucchio di gente, aveva a che fare con clienti di tutto il mondo, passava l’inverno a sciare. Stava bene a Verbier. Lì era felice come non lo era più stato dal fortunato periodo in cui aveva vissuto con entrambi i genitori in route de Florissant. E poi c’era il signor Rose, che era particolarmente buono con lui: aveva preso subito a cuore quel giovane lavoratore volenteroso, elegante, educato, che suscitava gli elogi di tutta la clientela. Aveva scoperto per di più che il ragazzo possedeva un sapere enciclopedico e parlava un numero incredibile di lingue.
Non ci volle molto perché Lev conquistasse i clienti regolari dell’albergo. Tutti volevano essere serviti da lui. Ricche famiglie che venivano a trascorrere l’estate o l’inverno in villeggiatura al Palace reclamavano la sua presenza e la sua compagnia. In tanti si offrirono di assumerlo al proprio servizio con una paga sostanziosa, ma lui declinò sempre.
Il signor Rose, persuaso che Lev non fosse destinato a restare un semplice impiegato d’albergo, cercò di convincerlo a intraprendere degli studi. Ma Lev si rifiutò.
“Potresti fare qualsiasi cosa! Ho contatti in numerose università.”
“Non voglio lasciare mio padre qui da solo,” spiegò Lev.
“Tornerai a trovarlo.”
“Le persone che promettono di tornare, non tornano mai, signor Rose. Non se ne andrebbero, se avessero l’intenzione di tornare.”
“La vita a volte è più complicata di quanto non sembri, ragazzo mio. Tu potresti fare una carriera straordinaria.”
“A cosa serve una carriera?” chiese Lev, beffardo. “A essere ricchi? I ricchi sono dei ladri, mi hanno rubato mia madre.”
“A sentirsi realizzati, penso,” rispose il signor Rose piuttosto imbarazzato.
“Io mi sento molto realizzato portando le valigie e rendendomi utile ai clienti,” affermò Lev.
“Potresti diventare un uomo importante.”
“L’importanza non è tangibile. Si misura in rapporto agli altri, non a se stessi.”
“Per favore, Lev, smettila di filosofare! Hai una sola vita, non vorrai mica passarla a portare valigie! Hai bisogno di una formazione.”
“Ho una formazione di comico. Mio padre mi insegna tutto quello che sa.”
“Se tuo padre fosse un grande attore, sarebbe alla Comédie Française, non al Palace de Verbier!”
“Non sia sgarbato, signor Rose. Mio padre la stima molto.”
“E la cosa è reciproca. Ma io mi preoccupo per il tuo futuro. Avrei quasi voglia di metterti alla porta solo per obbligarti a trovare il tuo posto nel mondo.”
“Perché vuole licenziarmi? Lavoro duro, i clienti mi apprezzano.”
“Ascolta, ragazzo mio, ecco che cosa ti propongo: ti faccio rimanere in albergo e ti insegno tutto quello che so.”
“Tutto quello che sa su cosa?” chiese Lev.
“Su come si dirige un albergo. Potrebbe sempre servirti.”
Lev accettò. Non solo per conservare il lavoro al Palace, ma perché sapeva che avrebbe potuto servirgli. Come gli diceva sempre sua madre: “Non si impara mai troppo.” Fu così che nel corso degli anni seguenti, nel più grande riserbo per non suscitare le gelosie degli altri dipendenti, il signor Rose insegnò a Lev le buone maniere e la buona creanza, e gli inculcò l’arte della raffinatezza, del buon gusto, dell’eleganza, del vino, del cibo.
Il signor Rose non si era mai sposato e non aveva figli, ma se ne avesse avuto uno, gli sarebbe piaciuto che fosse come Lev. Sarebbe arrivato un giorno in cui non avrebbe avuto più la forza di dirigere l’albergo e pensava che Lev sarebbe stato un ottimo sostituto. “Non si sa mai,” disse a Lev, con un orgoglio quasi paterno, una sera che stavano degustando dei vini pregiati, “un giorno potresti dirigere il Palace. Ne faresti sicuramente l’albergo di lusso più gettonato d’Europa.”
Per un istante Lev s’immaginò in quel ruolo. L’idea gli piacque. Amava quel posto.
Ogni settimana Lev trascorreva lunghe ore nell’appartamento del padre. Sol apriva l’enorme baule in cui conservava tutto il materiale di scena dei suoi spettacoli passati. Alcuni costumi, intaccati dalle tarme e dal tempo, necessitavano di rammendi, e i due uomini si dedicavano insieme a quei lavori di sartoria.
“Il palcoscenico non ti manca troppo?” chiese un giorno Lev.
“La vita è una grande commedia,” rispose Sol. “Prima o poi ci ritornerò.”
Sol indicò con un cenno del capo un grande libro rilegato in pelle posato su un piccolo scrittoio e continuò: “Ho parecchi personaggi in testa. Annoto tutto in quel libro per non dimenticare nulla.”
“Posso guardare?” chiese Lev.
“Un’altra volta,” gli disse il padre.
“Allora è per uno spettacolo che conservi tutto questo vecchiume?”
“No, è per regalarlo a te un giorno.”
“E cosa vuoi che ne faccia?”
“Lo regalerai ai tuoi figli.”
“E cosa se ne faranno?”
“Lo regaleranno ai loro figli.”
“E allora?” domandò Lev.
“Allora si ricorderanno di me.”
I Levovitch erano felici al Palace. Ma da quando erano arrivati loro, secondo il parere degli altri dipendenti, qualcosa era cambiato. Di colpo il signor Rose aveva occhi dappertutto. Adesso notava ogni più piccola negligenza del personale. Non poteva trattarsi di delazione da parte dei due nuovi assunti, perché alcuni fatti avevano avuto luogo nelle camere e altri al bar, in piscina o al ristorante, in assenza dei Levovitch.
Per anni il mistero sarebbe rimasto inspiegato.