38.
L’annuncio

Sabato 15 dicembre. Il giorno prima dell’omicidio

Alle sei e quaranta nessuno era ancora stato colto da malore. Nella sala da ballo del Palace il cocktail si svolgeva nella più totale spensieratezza. Macaire e Jean-Bénédict, tenendosi in disparte, avevano scrutato ogni minimo movimento e gesto dei partecipanti prima di arrendersi all’evidenza: nessuno era stato avvelenato.

“Falso allarme,” decretò infine Macaire, sollevato. “È tutto a posto.”

Jean-Bénédict aveva i nervi a pezzi.

“È tutto a posto?” disse con voce strozzata. “Come puoi esserne così certo? Forse il veleno ha bisogno di tempo per agire.” Puntò un dito minaccioso contro il cugino. “Ti avviso, se tutte queste persone crepano...”

“Il veleno dovrebbe fare effetto in meno di un quarto d’ora,” lo interruppe Macaire. “Dovrebbero già essere morti! A mio avviso, il barman ha servito dosi talmente piccole da risultare inoffensive.”

“Anche a piccole dosi, un veleno mortale è mortale! Tu sei completamente pazzo, Macaire!”

“Non capisci,” si difese Macaire. “Tarnogol è una minaccia per la banca. Non conosci neppure un terzo di questa storia.”

“La sola minaccia che vedo qui sei tu, Macaire. Puoi scordarti che io mi lasci immischiare nelle tue macchinazioni criminali. Non c’è più niente da fare, mi senti? Levovitch è stato eletto! È lui il presidente! Vuoi prendere una pistola e ammazzarlo davanti a tutti?”

Dopo queste parole Jean-Bénédict fece per lasciare la sala.

“Dove vai?” chiese Macaire in tono secco.

“Raggiungo il Consiglio nella sala delle Alpi. Tarnogol e mio padre si staranno chiedendo che fine abbia fatto. E poi, quando tutta questa storia si metterà male, non ho particolarmente voglia che qualcuno si ricordi di avermi visto con te. Andrai a fondo da solo, Macaire. In tutti questi anni il tuo peggiore nemico sei stato tu. Se non sei presidente della banca è solamente per colpa tua.”

Jean-Bénédict se ne andò. Macaire pensò che suo cugino avesse ragione: non poteva prendersela con nessuno, solo con se stesso. Tra venti minuti Levovitch sarebbe stato eletto e lui sarebbe diventato lo zimbello della banca e di tutta Ginevra. Senza contare che adesso lo prendevano per un traditore, pronto a vendere i suoi clienti alle agenzie fiscali straniere. La P-30 non sarebbe certo accorsa in suo aiuto. Al contrario, lo avrebbe fatto a pezzettini. Era spacciato.

Fece ritorno nella sua suite da perdente. Nel frattempo erano passati a rifare la camera: il bagno era stato pulito e la scritta sullo specchio cancellata da una cameriera. Macaire si chiese dove fosse andata a cacciarsi sua moglie. Aveva l’impressione che tutto gli sfuggisse di mano. Sapeva cosa gli restava da fare. L’aveva previsto dalla sera prima.

Tirò fuori dal guardaroba il completo che si era fatto cucire per l’accesso alla presidenza. Lo indossò. Si mise i gemelli d’oro. Infilò al polso uno dei suoi orologi più preziosi, portato per l’occasione. Annodò con cura la cravatta e vi richiuse sopra un panciotto particolarmente elegante. All’interno della giacca aveva fatto ricamare: “M.E. Presidente.” Contemplò la scritta con tristezza. Si guardò nello specchio. Non si era mai trovato tanto bello. Si osservò ancora. Era così che avrebbe dovuto diventare presidente. Ed era così che sarebbe morto. Era così che sarebbe stato ritrovato. Probabilmente l’indomani. Probabilmente da una cameriera che sarebbe inciampata nel suo corpo disteso sulla moquette macchiata del suo sangue ormai secco.

Si diresse verso la cassaforte e prese la pistola. Caricò l’arma e si ficcò la canna in bocca. Quel gesto lo rasserenò. Tra qualche istante tutto sarebbe finito. Finalmente. Non ne poteva più. Chiuse gli occhi, spinse un po’ più a fondo la canna tra le mascelle e piazzò il dito sul grilletto. Il suo ultimo pensiero fu per Anastasia.

All’improvviso udì dei colpi alla porta. E dall’esterno lo raggiunse la voce di Anastasia.

“Macaire? Macaire, sei lì?”

Lui aprì gli occhi e si riebbe, estrasse l’arma dalla bocca e la posò sul comò prima di precipitarsi ad aprire la porta.

“Anastasia!” esclamò, trovandosi davanti la moglie. “Oh, come sono felice di vederti! Grazie di essere qui! Grazie per essere venuta!”

La strinse a lungo tra le braccia, poi ammirò il suo viso così perfetto. Sembrava scombussolata, lo era anche lui.

“Macaire,” disse, “devo parlarti di quello che ho letto nel tuo diario.”

Lui le fece segno di tacere ed entrarono nella stanza per essere al riparo da orecchie indiscrete.

“Come è possibile?” singhiozzò Anastasia quando Macaire ebbe richiuso la porta alle loro spalle. “Come ha potuto Tarnogol fare una cosa del genere?”

“Tarnogol è il diavolo!”

“Quello che hai scritto è la verità? Avete fatto un patto? Gli hai dato le tue azioni della banca in cambio della mia mano?”

“Perdonami, Anastasia! Ti chiedo perdono! Ma a quel tempo ero disperato. Volevo così tanto sposarmi con te: tu mi avevi detto che eri innamorata di Lev...”

“Ma come è possibile?” gemette lei, senza capirci niente.

Cercò di ricordarsi come fossero andate le cose.

“L’anello di fidanzamento,” le disse allora Macaire. “Lo zaffiro che ti ho regalato quindici anni fa. È stato Tarnogol a darmelo. Mi disse che, grazie a quell’anello, avresti accettato di sposarmi.”

Anastasia rimase completamente sconcertata: non aveva nessun senso. Si chiese se Macaire fosse del tutto in sé.

“Mi hai sempre detto di avere ceduto le tue azioni perché noi fossimo felici, tu e io,” gli fece notare.

“Era vero.”

“Credevo che volessi allontanarti dalla banca, vivere una vita diversa da tutti quei banchieri, perché sapevi che quella vita non mi era mai piaciuta.”

“No,” la corresse Macaire, “ho dato le mie azioni a Tarnogol perché noi stessimo insieme.”

Anastasia non ci capiva più niente. Aveva l’impressione di aver perso la bussola.

“La nomina del presidente avrà luogo tra cinque minuti,” disse. “Dovresti andare. È il tuo momento di gloria.”

“Non sarò eletto.”

“Come?”

“Levovitch sarà nominato presidente.”

“Che vai dicendo, Macaire? È impossibile.”

“Ho perso,” mormorò Macaire.

Con la faccia triste e la testa bassa, decise di andare ad affrontare il suo destino. Vedere Anastasia gli aveva dato il coraggio di accogliere la sconfitta con dignità e di non morire da vigliacco.

* * *

Erano quasi le sette. La sala da ballo del Palace era in fermento. Di lì a pochi istanti sarebbe stato annunciato il nome del nuovo presidente. Tutti i dipendenti della banca si erano raccolti in massa davanti all’imponente palco sul fondo della sala: il Consiglio stava per fare il suo ingresso.

Macaire, splendido nel suo completo a tre pezzi, entrò nella sala. Un cameriere lo accolse con lo champagne. Macaire afferrò una flûte e bevve d’un fiato per tenere a bada il nervosismo prima di mescolarsi all’allegro brusio dei dipendenti accalcati. Per darsi un contegno, ne bevve un secondo bicchiere.

All’improvviso si fece silenzio: Sinior Tarnogol, Horace Hansen e Jean-Bénédict Hansen apparvero sul palco. Horace Hansen si avvicinò al microfono e dichiarò: “Signore e signori, il Consiglio della Banca Ebezner ha preso la sua decisione. Il nuovo presidente della nostra banca è stato designato e siamo fieri di potervi annunciare che...”

Non poté terminare la frase perché in quel momento una persona tra il pubblico si accasciò, tirandosi appresso nella caduta una tovaglia carica di piatti. Alcuni dei presenti accorsero, fu chiesto ai dipendenti dell’albergo di chiamare un medico. Un silenzio inquieto aleggiò nella sala.

“È tutto a posto?” chiese nel microfono Horace Hansen, che non sapeva bene cosa fare.

Poi un secondo invitato fu colto da malore e stramazzò a sua volta. Poi un altro, e un altro ancora. Presto le persone cominciarono a cadere come mosche, stringendosi la pancia con le mani ed emettendo rantoli da moribondi. In capo a pochi istanti, metà dell’uditorio era in preda al vomito.

L'enigma della camera 622
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