8.
Piccoli accordi tra amici
Davanti a Cristina c’era un vecchio imponente che lei conosceva bene: quel volto così singolare, le asperità della pelle, l’aspetto perennemente malsano, il naso ricurvo, le sopracciglia cespugliose. Stringeva in mano un bastone col pomello tempestato di sfavillanti diamanti che a quanto si mormorava valeva, da solo, diversi milioni di franchi. Era Sinior Tarnogol.
“Levovitch c’è?” chiese Tarnogol che, malgrado il francese perfetto, non riusciva a sbarazzarsi di un pesante accento dell’Est.
Cristina rimase sconcertata e lui la fissò col suo sguardo cattivo. Lei fece finta di cascare dalle nuvole:
“Aveva un appuntamento? Non vedo nulla sulla sua agenda.”
“Sì, nel mio ufficio,” spiegò lui. “E poiché non si è presentato, sono venuto a vedere cosa succede. È increscioso far aspettare le persone tutto questo tempo!”
“Signor Tarnogol,” disse Cristina con la più cortese delle voci, “posso permettermi di farla pazientare un attimo nel salottino rosa?”
Pochi istanti dopo Cristina entrava precipitosamente nell’ufficio di Macaire.
“Cosa succede adesso?” si spazientì questi, posando di nuovo la sua copia di Dodici uomini arrabbiati. “Le ho detto che sono occupato.”
“L’appuntamento molto importante delle quattro: è Tarnogol!”
Macaire sgranò gli occhi, inquieto.
“Tarnogol!? E cosa gli ha detto?”
“Che Levovitch era assente, ma che lei l’avrebbe ricevuto. Mi è sembrato molto contento. Sono desolata, signor Ebezner, ho disobbedito alle sue disposizioni, ma non potevo certo mandarlo via!”
“Bel colpo, mia piccola Cristina, bel-col-po!” si congratulò Macaire, pensando che fosse l’occasione d’oro per parlare a Tarnogol della presidenza e silurare Levovitch. “Dove lo ha fatto accomodare?”
“Nel salottino rosa.”
“Il salottino rosa, ben fatto!” si complimentò Macaire, perché era il salotto più elegante del piano. “Vada ad avvisare Tarnogol che arrivo.”
Cristina ripartì subito e Macaire ne approfittò per afferrare le sue pile di corrispondenza inevasa e spostarle sulla scrivania di Levovitch. Poi trotterellò fino al salottino rosa come un cane da caccia che ha fiutato una preda. Entrò, con faccia allegra e voce melata, e si inchinò a Tarnogol come davanti al vitello d’oro:
“Caro Sinior, che piacere vederla! Devo assolutamente parlarle di questo malinteso a proposito dei miei viaggi e dell’articolo della ‘Tribune’ che...”
“Non ho tempo adesso per questo,” l’interruppe Tarnogol. “Devo assolutamente vedere Levovitch! È molto importante.”
“Levovitch non c’è,” gli spiegò allora Macaire.
“E dov’è?”
“Non ne ho idea. Sa, non viene spesso in ufficio.”
“Ah sì?” chiese Tarnogol, stupito. “Credevo che venisse molto presto tutte le mattine e che lavorasse senza tregua per l’intera giornata.”
“Ma no, caro signor Tarnogol, è una leggenda. Lui? Lavorare senza tregua?” Macaire fece una risata forzata per sottolineare l’ironia della situazione. “‘Lo Scansafatiche’, ecco qual è il suo soprannome! Siamo già contenti quando lo vediamo arrivare prima delle undici. E spesso non si fa più vedere per tutto il pomeriggio. Guardi un po’, sono le quattro ed è già tornato a casa. È un comportamento poco serio.”
“Si può tranquillamente affermare che non è affatto serio!” si indignò Tarnogol.
Macaire, contento del risultato, rincarò la dose:
“Non dovrei dirglielo perché non voglio mettere in difficoltà il povero Lev, ma sono io a fare tutto qui. Del resto, non prende una sola decisione senza consultarmi. Non ha nessun senso dell’iniziativa. È stato nel suo ufficio di recente? Trabocca di corrispondenza mai letta. I clienti devono essere furiosi. Che vergogna! Mai visto un pigrone simile!”
“Ma perché non hai informato il Consiglio della banca?” chiese Tarnogol.
“Perché non gli auguro nessun male,” spiegò Macaire in tono mellifluo. “È un povero diavolo. E poi mio padre lo amava molto, perciò mi fa un po’ pena. Voglio dire, in fondo non fa male a nessuno: non è che sia il prossimo presidente di questa banca.”
“Quello che apprendo sul conto di Levovitch è scandaloso,” disse Tarnogol con aria costernata.
“Scandaloso,” ripeté Macaire, scrollando il capo con stizza.
“Ma tu pensa: e io che intendevo proprio nominarlo presidente della banca!”
“Ah sì?” fece finta di stupirsi Macaire. “Levovitch presidente? Ma manderà la banca in rovina in men che non si dica. Be’, l’azionista è lei, non io.”
“Eppure mi aveva sempre fatto un’impressione così buona,” ribatté Tarnogol.
“Ah, sa, mio caro Sinior, con i grandi impostori è spesso così.”
Tarnogol si alzò in piedi e mosse qualche passo nella stanza. Sembrava perplesso.
“Va tutto bene, signor Tarnogol?” chiese allora Macaire, preoccupato.
“No, non va bene per niente! Oggi dovevo vedere Levovitch per chiedergli un favore molto importante! Gli ho addirittura detto: ‘Consideri l’appuntamento molto importante.’ E lui non c’è! Sono terribilmente deluso!”
“Forse posso aiutarla io?” suggerì Macaire, andando sempre più in brodo di giuggiole.
Tarnogol lo osservò brevemente.
“Non ne sono sicuro,” disse, “è una faccenda estremamente delicata.”
“Eppure quindici anni fa ci siamo fidati l’uno dell’altro,” insisté Macaire. “È la ragione per la quale oggi lei è il vicepresidente della banca.”
“Ho rispettato il patto anch’io,” gli rammentò Tarnogol. “Hai avuto quel che volevi in cambio delle tue azioni.”
“Per l’appunto, mio caro amico,” azzardò Macaire. “Quindi tra noi può esserci una fiducia totale. Stringiamo un nuovo patto.”
Alla fine, dopo un interminabile momento di riflessione, Tarnogol disse: “Va bene. Ti propongo un accordo, Macaire. Incaricherò te dell’incombenza che volevo affidare a Levovitch. E in cambio ti nominerò presidente della banca.”
“Affare fatto!” approvò Macaire, buttandosi sulla mano di Tarnogol e stringendola vigorosamente. “Cosa posso fare per lei?”
“Si tratta semplicemente di ritirare una busta,” spiegò Tarnogol. “Niente di illegale, niente di pericoloso.”
“Tutto qui?” si stupì Macaire.
“Tutto qui,” confermò Tarnogol. “Niente di più facile.”
“Niente di più facile,” ripeté Macaire, come un pappagallo. “E dopo?”
“Dopo mi porterai la busta a casa,” disse Tarnogol.
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
“Niente di più facile!”
“Niente di più facile.”
I due uomini lasciarono il salottino rosa soddisfatti. Nel riaccompagnarlo all’ascensore, Macaire notò che Cristina si era assentata e propose a Tarnogol di dare un’occhiata all’ufficio di Levovitch. Dalla soglia, gli indicò la scrivania ingombra di buste impilate.
“Guardi tutte quelle lettere lasciate senza risposta,” deplorò Macaire. “È veramente disdicevole!”
“È uno scandalo!” si indignò Tarnogol, troppo lontano per vedere che erano indirizzate a Macaire. “Come ho potuto immaginare che Levovitch diventasse presidente di questa banca?”
“Chiunque può sbagliarsi, caro Sinior,” gli disse Macaire. “Errare è umano.”
Non appena Tarnogol se ne fu andato, Macaire si affrettò a recuperare la corrispondenza dalla scrivania di Levovitch e a rimetterla sulla sua. Poi si accasciò sulla poltrona e si lasciò pervadere da una dolce euforia. Non si era mai sentito tanto felice: la presidenza della Banca Ebezner era sua. Era riuscito a mutare il corso del destino senza nemmeno dover ricorrere a intrallazzi. Afferrò la sua copia di Dodici uomini arrabbiati e la osservò con disprezzo: non c’era più bisogno di leggere quella roba. Avrebbe reso a Tarnogol un favore da nulla e si sarebbe assicurato la presidenza. La vita era bella. Dondolandosi sulla sedia, consultò l’orologio. Le quattro e mezzo. Poteva tornare a casa. “Uff, che giornataccia, però!”
In quello stesso momento, a Cologny, nella splendida dimora degli Ebezner, Arma, la domestica, teneva l’orecchio incollato alla porta della camera da letto padronale. Anastasia aveva appena ricevuto una telefonata misteriosa.
Come sempre, era stata Arma a rispondere. “Casa Ebezner, buongiorrno,” aveva detto compitamente, come le avevano insegnato a fare. All’altro capo della linea, una voce maschile aveva chiesto della signora senza presentarsi. Anastasia era accanto a lei e Arma le aveva passato la cornetta. Ma sentendo la voce dell’interlocutore, aveva subito trasferito la chiamata nella stanza da letto ed era andata a rinchiudersi lì dentro. Era molto strano. La signora non lo faceva mai. Insospettita, Arma aveva deciso di andare a origliare cosa stava succedendo.
“Sei completamente pazzo a chiamarmi qui, Lev!” si irritò Anastasia, convinta di essere nell’intimità della sua stanza.
“Ho pensato che non mi avresti risposto sul cellulare,” si giustificò Lev all’altro capo della linea.
“Hai perfettamente ragione,” replicò Anastasia. “Non voglio più parlarti né vederti.”
“Io invece sono felice di vederti stasera, tesoro.”
“Non chiamarmi ‘tesoro’! Non chiamarmi più e basta! Ti ho detto che tra noi è finita!”
“Volevo semplicemente informarti che ti farò passare a prendere alle otto meno un quarto per portarti all’Hôtel des Bergues. A dopo.”
“Hai sentito quello che ti ho detto? Non ci sarà nessuna cena questa sera. E tanto meno all’Hôtel des Bergues! È stato un errore passare questo fine-settimana insieme. Insomma, io sono sposata! Avrebbe potuto vederci tutta Ginevra!”
“Non preoccuparti.”
“E invece mi preoccupo, eccome.”
“A stasera.”
“A mai più!”
Anastasia riattaccò il telefono in faccia a Levovitch. Sentendo sbattere la cornetta, Arma scese a gambe levate al pianterreno e tornò al suo lavoro nel piccolo salotto: doveva passare il piumino della polvere. Era scioccata: la signora tradiva il signore.
* * *
Quella sera alle sette Macaire Ebezner, gonfio d’orgoglio, fermava la macchina nel parcheggio del Lion d’Or, a Cologny, sperando di essere notato al volante del suo bolide che valeva una piccola fortuna. Entrò nel ristorante ostentando un’aria cerimoniosa, sfilando tutto impettito con la moglie al braccio, pienamente consapevole che Anastasia attirava tutti gli sguardi. Furono fatti accomodare a un tavolo di fronte al lago, come aveva chiesto, e ammirarono il panorama. Ginevra, scintillante nella notte, si stendeva come un tesoro dinanzi a loro.
“Stasera si beve champagne,” annunciò subito Macaire al sommelier. “Mi porti una bottiglia di Pol Roger millesimato. Lo champagne di Winston Churchill! Lo champagne della vittoria!”
Suo marito sembrava di ottimo umore e Anastasia ne fu divertita.
“Cosa si festeggia?” chiese.
“Passerotta, questa sera ceni con il futuro presidente della banca,” annunciò lui con un sorriso complice.
Lei finse di rallegrarsene:
“Oh, ma è meraviglioso! Hai avuto la conferma da Jean-Bénédict?”
“No, la cosa sarà ufficiale solo da sabato. Volevo aspettare che fosse sicuro prima di annunciartelo, ma non so tenere la lingua a freno, sono troppo eccitato: è fatta!”
“Non bisogna vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso,” lo redarguì Anastasia.
“In effetti, tesoro, pensa che proprio questa mattina, quando sono arrivato in ufficio, sono venuto a sapere che il Consiglio era sul punto di nominare Levovitch.”
“Levovitch?” Anastasia rimase a bocca aperta.
“Capisco il tuo stupore, passerotta, sono rimasto anch’io tutto scombussolato. No, ma dico, t’immagini? Un Levovitch a capo della Banca Ebezner! Ma andiamo, si chiama Ebezner! Era un ghiribizzo di Tarnogol. Ah, questi stranieri, sono sempre i primi ad avere idee bislacche.”
“Quindi Tarnogol adesso ha cambiato parere?” chiese Anastasia.
“Quasi. Diciamo che lui e io abbiamo fatto un accordo. Resta una cosuccia minima da regolare. Ma ormai possiamo darlo per certo.”
“Vale a dire?”
“Poi ti spiego. Sai, in fondo papà voleva che diventassi presidente. Tutta questa storia dell’elezione serviva solo a darmi una legittimità inattaccabile.”
Anastasia non seppe cosa rispondere: per lei era esattamente l’opposto. Abel Ebezner aveva passato la vita a screditare il figlio. Se avesse voluto che Macaire diventasse presidente della banca dopo di lui, non avrebbe agito in quel modo: gli avrebbe semplicemente lasciato carica e azioni. Comunque preferì non dire nulla e si limitò a brindare alla salute del marito, levando la coppa di champagne che le avevano appena versato.
Era turbata: per via di Levovitch e dell’elezione. Non aveva più fame, voleva rincasare. Ma non voleva rovinare la serata al marito, che sembrava di splendido umore e affamato. Lui ordinò tagliatelle al tartufo bianco, seguite da una lombata di agnello. Lei invece chiese una tartare di tonno e un piatto di scampi. Macaire fece mettere una seconda bottiglia di Pol Roger nel secchiello del ghiaccio. “Cena a base di champagne. E che sia ben fresco!” intimò al sommelier.
Ma alle sette e mezzo, quando erano appena stati serviti gli antipasti, il maître interruppe Macaire:
“Mi scusi, signor Ebezner, c’è una telefonata per lei.”
“Per me?” si stupì Macaire. “Ma nessuno sa che sono qui.”
Interdetto, seguì l’uomo al guardaroba e si fece passare la cornetta. Per darsi un contegno, si annunciò assumendo una voce autoritaria da capo di stato maggiore:
“Sì, pronto? Qui parla Macaire Ebezner.”
Ascoltò attentamente il suo interlocutore, che gli fornì delle lunghe istruzioni; poi esclamò come un soldato sull’attenti:
“Mi metto subito in viaggio!”
Dopodiché si precipitò da sua moglie e, senza nemmeno rimettersi a sedere, le annunciò:
“Passerotta, mi dispiace, ma devo andare. È una questione della massima urgenza. Ha a che vedere con quello che ti ho raccontato prima. Finisci tranquillamente di cenare e prendi un taxi per rientrare, se ti va. Non posso rischiare di arrivare in ritardo. Poi ti spiego.”
Senza attendere la risposta della moglie, se ne andò.
Lei rimase sola a tavola, smarrita, a fissare il lago Lemano su cui brillava la luna. Cincischiò la tartare con la punta della forchetta. Gli altri clienti non potevano fare a meno di guardarla. Tutto in quella donna ispirava bellezza, ma una bellezza tanto più commovente in quanto venata di malinconia.
Finì la sua coppa di champagne senza toccare il piatto. ‘A che pro cenare da sola?’ pensò. Detestava cenare da sola. Detestava stare da sola. Estrasse il cellulare dalla borsetta ed esitò a lungo, incerta se telefonare o no a Lev. Ma non osò. Decise di tornare a casa. Domandò che le chiamassero un taxi e andò ad aspettare fuori. Un po’ d’aria fresca le avrebbe fatto bene. Erano le otto meno un quarto. Quando uscì dal Lion d’Or, scorse nel parcheggio una limousine nera che l’aspettava. Lo sportello del passeggero era tenuto aperto dall’autista di Levovitch, Alfred Agostinelli, che le tendeva un enorme mazzo di rose bianche.
“Buonasera, signora Anastasia,” le disse Agostinelli sorridente. “Come sta?”
“Bene, Alfred,” rispose Anastasia turbata.
Salì sul sedile posteriore senza nemmeno riflettere. Poi, rivolgendo uno sguardo benevolo all’autista che si accomodava al posto di guida, gli chiese: “Come fa?”