Capitolo quarantuno

Jeremy spiegò che non sarebbe andato a salutare Edward: era troppo preoccupato al pensiero di lasciare i figli da soli in casa con Nailah. Per quell’anno c’erano già stati abbastanza rapimenti. Edward non insistette. Nonostante gli fosse grato per tutto quello che stava facendo per Olly, lo guardò a malapena quando si salutarono nel viale illuminato dalla luna.

«Lo so, non avrei dovuto nasconderti così tante cose», gli disse Jeremy tenendo le redini del suo cavallo.

«Non voglio ascoltarti».

«Non mi aspetto che tu lo faccia», gli rispose con occhi bassi. Sospirò. «Buona fortuna, Bertram. Spero tu possa trovare una vita migliore in India».

Edward non nutriva alcuna speranza al riguardo: l’impero era in rovina come non mai. L’unica cosa che avrebbe potuto rendere sopportabili gli ultimi anni del suo incarico sarebbe stata la presenza di Olivia. Ma lei non ci sarebbe stata più.

Guardò la casa. Vide la sua immagine incorniciata dalla luce delle candele, era ancora sul letto a fissare immobile il suo bagaglio. Pensò a tutto ciò che la aspettava: il dolore, il lungo viaggio con i figli di Clara, mesi – quanti più possibile – in Inghilterra con accanto solo Ada e la tata.

Come poteva lasciarla così? Desiderò che ci fosse un’altra soluzione.

Jeremy gli tese la mano.

Dopo un momento, Edward la strinse.

«Sono dispiaciuto, amico mio», disse Jeremy.

«Fai bene».

Erano tutti terribilmente dispiaciuti.

 

Tom e Imogen arrivarono quando gli altri stavano per partire. Fadil, appena tornato dopo aver accompagnato la madre nomade dai suoi figli, li condusse al porto in carrozza. Quando giunsero a destinazione, gli ultimi ritardatari si stavano imbarcando. La banchina era affollata di gente. Tom tese la mano a Edward, poi ci ripensò e lo tirò a sé per un breve abbraccio. «Abbi cura di te», gli disse dandogli una pacca sulla spalla. «Ti auguro la felicità, Bertram, nient’altro che la felicità».

Imogen fece un passo in avanti e si sollevò sulle punte per baciare Edward e sussurrargli qualcosa all’orecchio. Olivia non capì le sue parole, ma vide che Edward accennò un sorriso e la ringraziò.

Dopo, Edward si rivolse a Fadil in arabo. Gli occhi del suo amico si illuminarono sotto le bende, brillando nell’oscurità. Edward si strinse nelle spalle e Fadil annuì. Sembrava terribilmente piccolo, invecchiato e triste.

Indietreggiarono tutti, lasciando Olivia e Edward soli e in silenzio a pochi centimetri l’uno dall’altra nell’aria fredda della notte.

«Cinque minuti», gridò una voce. «Ultimi cinque minuti per salire a bordo».

Edward abbassò lo sguardo verso Olivia, che gli posò una mano sul viso, accarezzandogli la mandibola con il pollice. Era ancora là, vero e caldo e suo. Non riusciva a credere che in meno di un minuto lo avrebbe perso.

Le sirene, il fischio della nave.

«Va’», gli disse. «Ti prego».

Altri fischi. Ultima chiamata.

«È solo per adesso. Tornerò, te lo giuro».

La baciò, poi si voltò e andò via.

Il tempo di arrivare al molo e già il suo viso non si distingueva più nella calca. Olivia poteva solo ricordare la sua voce bassa. Alzò le dita accennando un saluto, che lui ricambiò.

Addio.

 

Per tutto il tragitto di ritorno, Imogen la tenne stretta a sé. Tom sedeva davanti a loro. Nessuno parlava. Solo quando arrivarono nei pressi di Ramleh Imogen ruppe il silenzio e disse a Olivia che desiderava andare con lei in Inghilterra. «Non credo che riuscirei a sopportare di rimanere qui, capisci? Vederti andare via ancora una volta, come tanti anni fa…». Scosse la testa. «Io… be’, non posso lasciarti affrontare altre prove da sola».

«Nessuno di noi lo vuole», aggiunse Tom.

Imogen si morse il labbro. «Va bene, tesoro? Ne saresti contenta?».

Olivia non rispose subito. Ripensò a Imogen che bisbigliava e a Edward che sorrideva. Sentì lacrime di sollievo salirle in gola. Guardò i visi ansiosi di Imogen e Tom e disse: «Certo. Certo che ne sarei contenta».

 

La mattina dopo, mentre Ada controllava che i bagagli venissero caricati in carrozza a dovere, Olivia andò alle stalle. L’aria era dolce e calda, quasi polverosa alla luce del primo sole. Accarezzò il cammello pensando a Jahi in attesa di essere impiccato, chiuso in una cella, privo di speranza, condannato con tanta severità. Non riusciva ancora a capire se e quali colpe gli attribuiva. Sapeva solo che non avrebbe voluto che morisse. Eppure non poteva evitarlo, non era in grado di salvargli la vita come lui aveva fatto con lei.

Si voltò verso Bea, premendole le labbra sul collo. «Addio, amica mia. Fadil baderà a te e anche al cammello. Andrete tutti dai Carter. Da Tom starete bene e al sicuro». Dinah le si strusciò sulle gambe facendo le fusa. Olivia la sollevò e strinse il suo corpicino caldo. Poi posò la fronte sul collo di Bea. Chiuse gli occhi ripensando ancora una volta a quando Edward aveva portato la cavalla a casa, alla forza con cui l’aveva aiutata a montarla. Come le tremavano le gambe quel giorno. «Non avere paura», le aveva detto sorridendo, «è uno spreco di energie».

Olivia fece un respiro profondo.

Doveva fare ancora una cosa prima di partire.

 

Il cimitero era deserto. Il punto in cui era sepolto il corpo di Clara era segnato da una piccola croce di legno. Tutto intorno c’erano dei fiori, il prezioso libro di Ralph su Sherlock Holmes e un melograno.

Olivia non aveva idea di chi potesse averlo messo là.

Liberò il punto in cui credeva si trovassero il viso e il cuore di Clara e vi pose un mazzo di rose bianche e alcune arance. Provane una, Livvy, sono mature, scoppiano di sole. Con grande lentezza Olivia ne prese una, la osservò e poi si sfilò i guanti per sbucciarla con dita tremanti. Si portò alle labbra uno spicchio succoso e fu come se il sapore le esplodesse in bocca.

La trasportò in un altro luogo, in un altro tempo. Le tornarono in mente immagini tanto nitide che quasi rimase senza fiato: la cabina di una nave, lei bambina seduta sulla cuccetta inferiore, un oblò sulla sinistra. Sentiva l’odore del carbone e l’ondeggiare del mare. C’era una ragazza magra inginocchiata accanto a lei, tutta vestita di nero. Aveva i capelli biondi, guance rotonde e coperte di lentiggini e in mano teneva un’arancia.

Fu una visione brevissima, ma era Clara.

Le allungava l’arancia. «Ho tolto tutti i filamenti bianchi. Mangia, Livvy, per favore. Non posso permettere che ti ammali, adesso io ho solo te, e tu hai solo me». I suoi occhi di bambina spalancati erano identici a quelli di Gus. «Non devi aver paura, Livvy. Mi prenderò io cura di te, promesso».

Olivia riusciva a sentire la sua voce. Si ripiegò su se stessa nell’udire quella promessa infranta. Non riuscì a trattenere un singhiozzo. Poi un altro. Infine, le lacrime. Non provò neanche a fermarle.

 

Rimasero sul ponte mentre la nave lasciava la banchina. Si fecero largo tra la folla di turisti che salutava la colonna di Pompeo, le piramidi e le dune ormai lontane. Olivia teneva Ralph per mano, Sofia spingeva il passeggino di Gus e Ada e Imogen le seguivano facendo ombra con i parasole. Raggiunsero il parapetto posteriore quando la nave ormai si dirigeva verso il mare aperto.

«Guarda», disse Ralph indicando Jeremy sulla banchina. «Papà». Alzò il braccio.

Jeremy fece lo stesso.

Il bambino si sforzò di sorridere e Olivia lo abbracciò stretto, baciandolo sulla testa. Sentì il braccio di Imogen cingerle la vita.

La nave prese velocità, lasciando una scia spumeggiante nel Mediterraneo scuro e profondo. Jeremy divenne sempre più piccolo e alla fine il litorale di Alessandria scomparve. In quel momento Olivia si rese conto di essere felice, davvero felice, di trovarsi lì: era giusto essere con loro, anche se l’assenza di Clara le spezzava il cuore. Ralph e Gus sarebbero stati sempre amati e non sarebbero mai rimasti soli. Nonostante tutto, Olivia si disse che Clara ne sarebbe stata sollevata.

Non devi aver paura, Clara. Baderò io a loro, te lo prometto.