Capitolo otto
L’affermazione di Sana tormentava Nailah mentre usciva dai bagni con i capelli che le gocciolavano sul collo. Provò a togliersela dalla mente, mentre avanzava tra i vicoli roventi verso il mercato. Si concentrò sulla spesa, come non aveva mai fatto prima, fermandosi a lungo di fronte alle gabbie dei piccioni per trovarne uno che pesasse poco, odorando le erbe, tastando i cocomeri per controllare se fossero maturi. Ma mentre esaminava senza entusiasmo il prezzo delle medicine per la febbre, continuava a pensare ancora e ancora a madame Gray. Madame Gray che veniva molto spesso in visita dai Pasha. Madame Gray che giocava incautamente con il fuoco.
Distratta com’era, completò la spesa solo a mezzogiorno. Si avviò verso casa, ricurva sotto il peso del suo cesto. Si era fermata a prendere fiato, strofinando il palmo della mano libera sulla fronte sudata, e si bloccò quando vide tra la folla l’uomo che la stava fissando: i capelli lucidi, gli occhi a mandorla e il corpo snello avvolto in un completo elegante, aderente e fresco di bucato. Santa madre. Deglutì a fatica. Quegli occhi color ambra incontrarono i suoi. Era mai possibile?
Lui annuì come se avesse sentito la sua silenziosa domanda. Fece un passo nella sua direzione.
Nailah si guardò intorno, scrutò i venditori ambulanti che gridavano, le donne velate che mercanteggiavano, con le braccia tirate in alto e le monete che scintillavano al sole. Una di loro aprì una gabbia e afferrò un pollo spezzandogli il collo con un colpo secco.
Nailah indietreggiò.
Lui si fece di nuovo avanti. Sembrava quasi che stessero danzando.
Nailah si voltò in fretta e girò l’angolo al primo incrocio, imboccando la prima strada del complesso reticolo di vie che l’avrebbe riportata a casa. Le voci risuonavano giù dalle finestre aperte: parole di rimprovero, ordini sbraitati, risate. I suoni si imbevevano di aria calda e si mescolavano con l’odore intenso che si alzava dal cibo cucinato e dal letame. Nailah dette un’occhiata furtiva dietro la spalla. Era proprio lui. Era veramente lui. Il cuore le batteva forte. Era passato tanto tempo… così tanto. I sandali di lei sbattevano sul terreno, i tacchi delle scarpe alla moda di lui ticchettavano con un ritmo alternato.
Raggiunse il vicolo dietro la strada di casa sua e si affrettò, le gambe si muovevano da sole. E poi si fermò. Si voltò.
«Nailah».
Sentendolo pronunciare il suo nome lo stomaco le gorgogliò. Quella voce intensa e insistente. Indietreggiò verso il muro. Erano nascosti nell’ombra dei caseggiati, ed erano così vicini che se Nailah avesse allungato la mano avrebbe potuto toccarlo. Percorreva con lo sguardo i suoi vestiti eleganti, il suo naso aquilino, la linea obliqua della mandibola; nel frattempo lui si guardava intorno e scrutava la folla che andava avanti e indietro sui due lati del vicolo, valutando e giudicando le merci.
«Nessuno ci vedrà», disse senza fiato, «nessuno verrà qui». Era un miserabile vicolo stretto, quasi dimenticato perfino dai vicini. Si era fermata proprio per quello. «Qui ci sono solo spazzatura e topi».
«Ti sbagli», le disse.
«No…».
Le fece un sorriso divertito. «Hai parlato di spazzatura e topi. Sai, per quanto riguarda me…». Si mise la mano sul cuore. «Mi hanno detto di peggio, ma non posso tollerare che un simile insulto venga rivolto a te».
Nailah soffocò una risata. Per la prima volta dopo settimane rilassò le spalle.
Kafele le sorrise. E improvvisamente non era più l’uomo d’affari inguainato in un abito di sartoria, ma un ragazzo di strada. Il suo ragazzo. Quello che era cresciuto nelle stesse case diroccate dove aveva vissuto lei, entrambi in camere in affitto molto simili a quella dove abitava ora. Kafele a quei tempi stava con il nonno malato, se ne era preso cura fino a che non era morto. Aveva svolto commissioni per i venditori ambulanti, aveva comprato e venduto merci ai contadini, guadagnando sempre di più. Ma andava da Nailah ogni sera, e non importava se avesse avuto una lunga giornata o se il duro lavoro l’avesse lasciato esausto. La risollevava sempre dalla solitudine, con le sue storie e i suoi progetti ambiziosi. Per ore restavano seduti sul pavimento, immaginando il loro futuro insieme: la grande casa in cui avrebbero vissuto, le mete dei loro viaggi, le cose che avrebbero visto. Avevano fatto piani per una vita migliore sin da quando erano stati abbastanza grandi per nutrire dei sogni.
Lui prese il canestro e lo posò per terra. «Ho desiderato farlo dal momento in cui hai comprato il cocomero. È grande quasi quanto te».
«Da quanto tempo mi stai guardando?»
«Da quando sei uscita dai bagni».
«Mi hai aspettato?»
«Sì».
Il sorriso di Nailah si allargò ancora.
«Dimmi», le chiese, «perché correvi così? Non stavi fuggendo da me, vero?».
Lei abbassò la testa guardandolo di sottecchi, proprio come facevano di solito le altre cameriere dai Pasha. «Fuggivo verso di te».
Kafele sospirò rumorosamente. «Bene».
«Sei un pagliaccio».
Lui ridacchiò. Il calore della sua voce avvolse Nailah come una coperta, le lunghe settimane che erano trascorse dall’ultima volta che lo aveva sentito, nascosta tra le ombre ondeggianti degli alberi di jacaranda dei Pasha, svanirono quasi. Quasi. «Mi sei mancato», gli disse.
Il suo sorriso si fece triste. «Ieri, al mio ritorno dal Cairo», disse, «sono passato dai Pasha. Dovevo parlare a Benjamin dei fornitori per l’albergo che ha là».
Nailah annuì. Sapeva quant’era importante per Kafele fare affari con i Pasha. Stava allargando il suo giro di mediatore, vendendo prodotti agricoli dei contadini ad alberghi e ristoranti sempre più grandi. Benjamin Pasha da tempo si riforniva da lui per i suoi negozi di Alessandria, ma Il Cairo rappresentava una nuova opportunità. Un giorno Kafele sperava di diventare il fornitore di tutti gli alberghi di Pasha, non solo in Egitto ma in tutta l’Africa.
«Appena ho finito con Benjamin», disse Kafele, «sono sceso in giardino, benché sapessi che non ti avrei trovato». Rise mestamente. «Ti ho aspettato».
«Mi hai aspettato?»
«Sì».
«Oh». Nailah aveva il cuore in gola. Se lo immaginò sul prato, pieno di energia dopo un’ora passata nello studio di Benjamin Pasha, la giacca appesa sul braccio. Immaginò l’ombra delle foglie sulle sue spalle scoperte, lei che gli si avvicinava elegante con la sua divisa da cameriera invece che con l’abito macchiato e sdrucito che indossava ora, per nascondersi dietro gli alberi in modo da non farsi vedere dalla casa. E poi la gioia prorompente di Kafele appena la scorgeva, la stessa che provava quando da bambini giocavano per strada, ai tempi in cui nessuno poteva prevedere che lui sarebbe diventato un uomo di successo e lei una semplice sguattera nei bassifondi.
Sospirò e si guardò le punte dei piedi, già di nuovo pieni di polvere e assediati dalle pulci; istintivamente ne schiacciò una, poi si maledisse per una morte gratuita.
«Mi dispiace per Tabia», le disse Kafele. «Sono tornato dal Cairo il prima possibile…».
Strinse le labbra, non ne voleva parlare.
Ma Kafele insistette. La sua voce era suadente e annebbiata dal rimorso mentre diceva: «Non avrei dovuto rimanere così lontano. È solo che c’era tanto da fare, perché Benjamin mi aveva dato dei contatti per alcuni nuovi clienti…». Fece una smorfia per scusarsi. «Qualcuno ti ha aiutato? Tua madre?»
«Non lei», disse Nailah. Isa non era neanche tornata a casa per rendere i suoi omaggi a Tabia quando era rimasta uccisa. Sua sorella. Sono nel mezzo di un tour in zone isolate, le aveva scritto. Andiamo in scena tutte le sere. La mia voce sta calando, mi è sempre più difficile tirare avanti negli ultimi tempi, trovare ingaggi come ballerina è complicato. Quando mi capita un tour come questo non posso farmelo scappare. Avremo bisogno di soldi, più che mai, con Cleo e Babu… Non arrabbiarti con me, amore mio. Da allora le sue lettere erano divenute rare come un temporale nel deserto d’estate. Nailah aveva imparato a non aspettarsi niente di più.
«C’è qualcun altro, allora, che ti dà una mano?», chiese Kafele.
«Chi vuoi che me la dia?», chiese Nailah. «I genitori di Tabia sono morti e il padre dei bambini…». Si interruppe, non voleva sprecare neanche una parola per il vigliacco che aveva abbondonato Tabia ed era tornato di corsa al suo villaggio un’ora dopo aver visto la forma della testa di Babu.
Kafele disse: «Vorrei sollevarti da tutto questo peso».
«E io vorrei che non fosse morta», aggiunse Nailah con voce rotta. Fece un respiro, poi un altro, provando a controllarsi. Ma sotto lo sguardo commosso di Kafele, si arrese. I pensieri che aveva sempre cercato con tanta forza di reprimere tornarono a tormentarla. Vedeva solo Tabia, solo lei: sua zia, la sua affettuosa, bella zia. «Sei qui, habibi», diceva Tabia ogni volta che Nailah andava a trovarla, appena ne aveva il tempo e non doveva andare al lavoro dai Pasha. Come se fosse il più grande dei doni. Interrompeva qualsiasi cosa stesse facendo – cucinare o lavare o massaggiare la testa di Babu – e l’abbracciava. Persino ora Nailah sentiva il suo dolce profumo, vedeva il suo sorriso. Le pareva quasi di sentire la sua voce profonda. Poteva quasi… «Oh». Si premette le mani sugli occhi.
Kafele fece un passo verso di lei.
«Sto bene», disse Nailah. «Per favore. Lasciami stare. Non ti preoccupare per me, per favore, non farlo».
Kafele tese le mani. Nailah si aspettava che le lasciasse ricadere, come faceva sempre, e invece le fece una carezza. Quando la sfiorò, chiuse gli occhi, emozionata, abbandonandosi anche solo per qualche attimo al tocco della sua mano. Per quanto avesse sognato questo momento, per quanto desiderasse che non finisse mai, le venne da piangere. Poiché Kafele aveva giurato che non l’avrebbe disonorata avvicinandosi a lei prima di sposarla. Ma prima doveva guadagnare abbastanza; non avrebbero messo su famiglia nei bassifondi. Le aveva ripetuto mille volte che voleva aspettare; che ne valeva la pena. E ora aveva infranto la sua promessa.
Le sembrò la fine di un sogno.
Gli prese la mano tremando e se la allontanò dal viso. La rabbia prese il posto della tristezza. Era un’altra prova che la sua vita, che solo poche settimane prima era stata così felice, aveva imboccato la direzione sbagliata.
E ora pure questa notizia su madame Gray.
Nailah incrociò lo sguardo afflitto di Kafele, chiedendosi se avesse sentito qualcosa su Clara, se avesse udito le domande che si facevano in giro per la città.
Gli raccontò quello che le donne nei bagni pubblici avevano detto della polizia, della presenza di un agente alla moschea.
Lui disse che non ne sapeva nulla. «Perché sei così preoccupata? Perché ti importa tanto di Clara Gray?».
Nailah contemplò un graffio nell’unghia del suo alluce. «È solo che non mi piace l’idea che qualcuno le faccia del male».
«Ma mi pare che ci sia qualcos’altro che ti turba».
Nailah tenne gli occhi bassi, reprimendo il desiderio di confidarsi. Era la prima volta che lo faceva con Kafele, e la cosa la faceva soffrire. Ma si tenne per sé i suoi segreti, le sue paure; nonostante la tentazione fosse forte, non gli aveva nemmeno raccontato dei militari che si erano presentati alla capanna di Tabia il giorno dopo la sua morte. Non poteva. Perché non appena avesse cominciato a parlare, non sarebbe riuscita a fermarsi.
In preda al disagio, ricordò la visita dei militari; erano arrivati proprio quando lei e i bambini stavano preparandosi ad andar via. Aveva riconosciuto subito l’ufficiale alto e bello, il capitano – era stato spesso alle cene e alle feste dei Pasha; le cameriere non gli toglievano gli occhi di dosso. A quanto pareva lui invece non l’aveva riconosciuta. Le aveva raccontato una storia molto strana, e cioè che Tabia lavorava il cotone e lui voleva aiutarla. Tabia, che non aveva mai lavorato in fabbrica in tutta la sua vita e si guadagnava da vivere vendendo le uova. Nailah non aveva avuto il coraggio di smentirlo. E quando lui le aveva chiesto come mai i bambini fossero finiti sotto la sua custodia, gli aveva mentito a sua volta, lasciandogli credere che era una conoscente di Tabia. Con tutto quello che stava succedendo, le era parso più prudente non confessare che era sua nipote. Non aveva detto neppure dove aveva intenzione di portare i bambini. Dallo sguardo indagatore che il capitano le aveva rivolto, si era resa conto che aveva capito che gli stava nascondendo qualcosa. L’altro soldato, l’egiziano stempiato, l’aveva fissata come se potesse leggerle nel pensiero.
«Nailah?», disse Kafele riportandola al presente. «Che c’è che non va?».
Lei alzò le spalle. «Vorrei solo sapere chi era il militare alla moschea». Se era lo stesso capitano che si era presentato alla capanna di Tabia, allora evidentemente aveva cominciato a intuire…
Kafele disse: «Puoi parlare con me, Nailah, lo sai vero? Dimmi quello che vuoi, non importa».
Nailah non gli rispose. Kafele la fissò, in attesa. Il silenzio si prolungava, e allora lui sospirò e disse: «Chiederò in giro, scoprirò quello che posso».
Nailah lo ringraziò sospirando.
Kafele sorrise, il sorriso più turbato che lei avesse mai visto sul suo viso. Poi lanciò un’occhiata in fondo al vicolo. «Figlio di un cane». Fece un salto e si appiattì contro il muro. «Non penso che mi abbia visto».
«Chi?»
«Santa madre, Nailah, secondo te?».
Nailah si girò per scrutare il vicolo buio e sporco. Le caddero le braccia quando in fondo alla strada vide la silhouette inconfondibile del fratello di sua madre e di Tabia, lo zio Jahi.
«Non ci ha visti». Kafele si rilassò. «Altrimenti sarebbe già qui. Siamo al sicuro».
«Sì», disse Nailah. Eppure, mentre prendeva il cesto da terra per andare via, il suo corpo era gravato da un presentimento schiacciante.
«Vorrei che non dovessi andartene», disse Kafele. «Vorrei tenerti qui con me».
«Anche io vorrei che tu rimanessi», gli rispose, gli occhi fissi sulla sagoma massiccia di Jahi. «Ma non puoi». No, fino a che non ci sposeremo. Se mai succederà. Se solo Kafele non l’avesse toccata… Moriva dalla voglia di chiedergli se significava quello che temeva. Aveva paura di mettersi a piangere, se solo avesse detto un’altra parola. E allora non parlò. Soprattutto di tutte le cose che Jahi sapeva di lei e che Kafele non avrebbe mai dovuto scoprire.
Prima che lo zio potesse vederli, si allontanò riluttante dalla parte opposta. Gettò un’ultima occhiata a Kafele, che la fissava completamente immobile, così preoccupato e intelligente. Poi proseguì per l’affollata strada parallela, schivando i mucchi di letame degli asini e stringendo forte il cesto. Aveva appena girato l’angolo, verso l’ingresso di casa sua, quando arrivò anche Jahi, un solo dito posato sulla barba curata, apparentemente perso nei propri pensieri.
«As-salaam», gli disse piegando profondamente il capo mentre lui si avvicinava. Alto e robusto, la sovrastava sotto la luce del sole: suo zio, che custodiva segreti tanto profondi.
«Ah, Nailah». Jahi si morse il labbro mentre la esaminava, rivelando il dente davanti tutto storto, l’unico difetto sul suo volto bruno. Metà delle donne del quartiere erano innamorate di lui, Sana più di tutte, nonostante avesse un marito e due figli piccoli. Ora era all’angolo della strada e lo guardava sotto il velo con occhi famelici. «Sei stata al mercato, vedo», disse Jahi indicando la spesa.
Nailah abbassò lo sguardo sul cocomero in precario equilibrio in cima alle altre provviste, pronto a rotolare giù.
«Sembri turbata». Jahi le scoccò uno sguardo adombrato che Nailah poteva quasi interpretare come un segno di sincero interesse. «È così?».
Nailah non rispose. Non ce n’era bisogno. Suo zio conosceva fin troppo bene il suo stato d’animo.
Lui sospirò. «Sarà meglio entrare. Dobbiamo discutere, io e te».