Capitolo diciassette
La madre di Nailah era tornata dalla tournée con la sua compagnia di cantanti e ballerini. Era arrivata la notte precedente, proprio quando Nailah faceva ritorno dal porto con Kafele. Ora Nailah lo vedeva là tutte le sere. Viveva per le ore che passavano insieme, la testa poggiata sulla sua spalla, guardando i pescherecci che ondeggiavano tra le ombre dei palazzi della città: il cuore di pietra di Alessandria. Parlavano di cento piccole cose, loro due, spesso non dicevano neanche una parola. Si portava ancora addosso l’emozione del suo bacio mentre si svestiva per andare a letto quando aveva sentito riecheggiare sulle assi traballanti del pavimento la voce profonda da donna di spettacolo della madre, che annunciava il suo arrivo come se stesse salendo sul palcoscenico. «Cuore mio, mio caro amore», aveva gridato Isa. «Sono qui finalmente, la tua umi è arrivata». Nailah si era precipitata giù in fondo alle scale per farla star zitta prima che svegliasse i bambini o gli uomini nella casa. Aveva aspettato la colazione per tirare fuori i suoi doni, i soliti ninnoli: un profumo dolciastro, anelli a buon mercato e braccialetti.
«Avrei dovuto comprare delle erbe aromatiche per il piccolo», disse Isa rabbuiata alla vista di Babu tra le braccia di Nailah. Gli mise una mano sulla fronte. «Ha la febbre».
«Migliorerà», disse Nailah, anche se in realtà era preoccupata. Dopo sei giorni di salute, accolti come una benedizione, aveva avuto un peggioramento improvviso. Rifiutava di mangiare, era zuppo di sudore. Sapeva che avrebbe dovuto riportarlo dal dottor Socrates ma era riluttante a tornarci così presto. Non voleva che il capitano Bertram pensasse che stesse approfittando della sua generosità. Anzi, non voleva proprio ricordargli della loro esistenza.
Strinse più forte Babu. Sentiva che Isa la stava guardando.
«Ho visto Jahi l’altra sera», disse Isa. «L’ho incontrato mentre usciva dalla sua magnifica casa. Non abbiamo parlato a lungo, aveva un impegno ma non mi ha detto di cosa si trattava. Ma ho capito che ha dei programmi per te. Programmi che non mi convincono».
«Vuole mandarmi via?»
«E che altro? Con che diritto stabilisce cosa devi fare? Sei mia figlia». Isa scosse la testa. Gli ho detto che stava correndo troppo…».
«Era molto spaventato, umi?».
Isa sospirò. Nonostante tutto il suo atteggiamento spavaldo, sapeva bene, come lo sapeva Nailah, che al momento decisivo non avrebbe mai avuto il coraggio di opporsi a Jahi. Nel corso della sua infanzia Nailah l’aveva vista ordinare a Jahi di farsi gli affari suoi solo per cedere poi a una semplice occhiata, una parola sussurrata. Alla fine scuoteva la testa e andava a fare i bagagli per l’ennesima tournée, lasciando Nailah a beccarsi i rimproveri per qualsiasi colpa: era stata fuori in strada fino a tardi, non aveva pulito i pavimenti, parlava troppo liberamente con gli ambulanti al mercato. (Devi badare al tuo izzat, Nailah, al tuo onore. È tutto quello che hai).
Nailah aveva visto Jahi cedere di fronte a un’unica persona: Tabia. Le dava sempre retta. Era lei che lo aveva convinto a tollerare che Nailah facesse domanda per andare a lavorare dai Pasha. («Ho saputo da Isa che lo desideravi con tutto il cuore», aveva detto a Nailah, «così ho parlato con Jahi. Può essere un uomo testardo, mio fratello, ma alla fine ha cambiato opinione». Aveva abbracciato Nailah. «L’ho fatto per te ma anche per me, habibi, perché ora ti ho più vicina. E», aveva fatto un sorriso triste, «non dovrò più preoccuparmi per te, tutta sola nei bassifondi»). Jahi passava spesso a casa di Tabia, nelle pause del lavoro, Nailah lo incrociava frequentemente quando andava a trovarla. Quando Tabia parlava i suoi lineamenti si ammorbidivano; a volte rideva persino. Nailah chiuse gli occhi, rivedendoli tutti insieme. Prima.
«Si sente responsabile per te», la voce di Isa la riportò alla realtà. «L’ha sempre fatto. Anche per i tuoi cugini. Come un padre».
«Come un padre?», Nailah scosse la testa. «Nessuno di noi sa cosa significa una cosa del genere».
«In ogni caso stasera passerà, quando avrà finito di lavorare». Nailah sentì un brivido di terrore. «Dice che deve tenerti sotto controllo. Perché, Nailah? Di cosa si preoccupa?»
«Non so affatto cosa gli passi per la testa». Nailah posò Babu sul suo materassino, tirò verso di sé una scodella di patate piene di terra e cominciò a pelarle. Preparandosi al peggio, chiese: «Ti ha detto dove ha deciso di mandarmi?»
«Non voglio che lo faccia».
Nailah fece un salto sentendo la voce di Cleo. Le stava fissando attorcigliandosi i capelli intorno a un dito. Nailah si sarebbe data un pizzicotto per aver parlato senza fare attenzione. Cleo era stata così silenziosa che si era quasi scordata della sua presenza.
«Voglio che tutti noi restiamo dove siamo», disse Cleo.
«Sta’ zitta», le ordinò Isa. «Nessuno va da nessuna parte. Neanche io, per il momento».
«Non riparti?», Nailah era sorpresa. Le visite di Isa erano di solito così brevi: un giorno, al massimo due. Si sentì rincuorata che si fermasse più a lungo, benché non fosse sicura di sapere bene il perché. Quando era a casa Isa non faceva altro che dormire e farsi bella. Forse una parte di lei voleva ancora credere di poter fare affidamento su sua madre. «Per quanto tempo ti fermerai?».
Isa scrollò le spalle, le perline di argento del suo vestito turchese tintinnavano. «Vedremo».
Nella camera scese il silenzio. Il coltello di Nailah raschiava le patate con un ritmo regolare che accompagnava il respiro sconnesso di Babu e il rumore delle unghie di Cleo che battevano sui denti.
Cleo si alzò e andò alla finestra, sollevandosi in punta di piedi per sbirciare fuori. «Posso andare a fare una passeggiata?», chiese.
«Babu sta troppo male per uscire», disse Nailah, «non voglio che tu esca da sola».
Cleo mise il broncio. «Umi mi lasciava sempre uscire quando vivevamo sulla spiaggia».
Nailah scosse la testa e strinse le labbra pensando alla polizia e ai militari che forse erano ancora in giro per il quartiere.
«Va’ con lei», disse Isa. «Penso io a Babu».
«Devo finire di pelare le patate, poi ci sono da lavare le lenzuola e i pavimenti».
«Non voglio comunque che tu venga con me», disse Cleo con voce spezzata, sull’orlo delle lacrime. «Voglio stare da sola».
«Tutti noi vogliamo stare da soli», scattò Nailah. Per poco non allungò le mani per colpirla. Si fermò appena in tempo. Era troppo stanca, era quello il problema; le lunghe serate con Kafele, la preoccupazione per il peggioramento delle condizioni di Babu, i soldi, il bucato e tutto il resto. La cocciutaggine di Cleo le sembrava una vera mancanza di gratitudine.
«Perché tutti vogliono stare da soli?», chiese Isa. «Passare del tempo in compagnia è un tale piacere».
«Io voglio stare da sola e basta». Sollevò gli occhi pieni di lacrime verso Nailah.
Lei alzò le mani in segno di resa, un pezzo di buccia di una patata cadde dal coltello nella ciotola e le fece schizzare addosso l’acqua piena di terra. «Va’, allora».
Cleo afferrò la piccola borsa che portava sempre con sé e uscì dalla camera. I capelli le ondeggiavano sulle spalle, si sentiva il battito regolare dei suoi sandali sulle scale. Nailah ricordò la felicità con cui usciva di corsa dalla baracca di Tabia, si sentì male per la vergogna. Perché era così irascibile?
«Seguila», disse Isa, «ma se vuoi un consiglio, non farti vedere». Diede un’occhiata incerta ai letti sfatti e al tavolo della colazione ancora ingombro. «Intanto se posso ti do una mano con le faccende».
«Tieni d’occhio Babu», disse Nailah e poi uscì di corsa.
Si tenne a qualche passo di distanza da Cleo, guardando la sua testolina che zigzagava intorno agli ambulanti, i carretti di verdure e il bestiame, come se neppure lei sapesse dove stesse andando. Girarono in un vicolo più tranquillo, superando un piccolo caffè dove uomini barbuti erano chini a giocare a backgammon, con dei bicchieri di tè alla menta in mano. Accanto c’era un locale che vendeva narghilè e una bancarella di tappeti. Svoltarono di nuovo, superarono una casa e poi un’altra. Nailah lasciò che la distanza che la divideva da Cleo crescesse: l’istinto e il monito di Isa le consigliavano di lasciarla procedere da sola per la sua strada, qualsiasi cosa stesse facendo.
Cleo girò un angolo e poi un altro, e all’improvviso capì dove fosse diretta. Oh piccola mia.
Si fermò all’entrata di un cortile di pietra, completamente deserto a parte una fontana zampillante. Niente persone o oggetti, niente di niente. Tabia la portava lì come premio, facendo tutta la strada dalla loro baracca. Nailah una volta era andata con loro, subito dopo aver cominciato a lavorare dai Pasha. Tabia aveva dato a Cleo una moneta di stagnola e le aveva sussurrato di gettarla nella fontana, proprio come faceva lei da bambina, e di desiderare qualsiasi cosa volesse. Gli spiriti buoni ti ascoltano.
Nailah guardò Cleo inginocchiarsi di fronte alla fontana, come le aveva insegnato Tabia. Rovistò nella borsa. Tirò fuori lo scialle di Tabia e se lo premette sul viso. Nailah stava per mettersi a piangere di fronte alle spalle ricurve di Cleo, alla sua immobilità. Dopo un attimo, Cleo posò lo scialle sul muro e frugò di nuovo nella borsa. Questa volta tirò fuori la tazza scheggiata di Tabia, quella che Nailah aveva inutilmente cercato. Cleo premette le labbra sul bordo, sollevando e abbassando le spalle come se stesse inspirando a fondo, alla ricerca di un contatto con la madre. Posò sul muro la tazza tintinnante. L’ultimo oggetto che tirò fuori dalla borsa fu una collana ossidata. Se la mise al collo. Poi non fece nient’altro. Restò in ginocchio a mani giunte.
Non aveva monete con sé. Non gettò nulla nella fontana.
Nailah trattenne il respiro, si aspettava che rovistasse nella borsa per tirarne fuori una.
Ma non lo fece. I minuti passavano. Cleo non poteva esprimere nessun desiderio.
Alla fine richiuse la borsa. Nailah si nascose in un angolo – non sapeva se stesse facendo la cosa giusta, ma sentiva di non avere alternative. Aspettò che Cleo la superasse a passi felpati, poi la seguì a casa. Erano quasi arrivate, quando tagliò attraverso una strada laterale per farsi trovare già lì al suo arrivo.
«Ci hai messo tanto», disse Isa appena Nailah aprì la porta. Teneva Babu in braccio, gli abiti eleganti erano coperti di vomito e il suo viso era sconvolto dall’agitazione. «Non ha fatto altro che vomitare e fare la cacca da quando sei uscita ed ora è caldo come un ferro da stiro. Devi portarlo da un dottore. Non ho mai visto un bambino così piccolo stare così male. Ma», e Isa sollevò con la mano libera la sacca di medicine quasi finite di Socrates, «dimmi figlia mia, dove hai trovato i soldi per pagare tutte queste medicine?».
Nailah scosse la testa con impazienza e cominciò a girare per la stanza in preda all’ansia. «Siediti», disse, «voglio che tutto sembri normale, quando rientrerà Cleo».
«Come sta?», domandò Isa, con le medicine ancora strette nella mano alzata.
«Piena di dolore. Non le ho prestato abbastanza attenzioni. Anche lei è una bambina, solo una bambina. Non ho mantenuto l’impegno preso con Tabia».
«Sono troppe le responsabilità che ti sei assunta».
«Chi se ne occuperà se non lo faccio io? Tu, forse?»
«Faccio del mio meglio».
«Non sei mai stata qui. Non sei mai qui».
«Vi mando il denaro».
«Che non è mai abbastanza».
«Tutto quello che guadagno, Nailah».
«Ma non sei tu. Io ho sempre voluto te».
Isa avvampò.
Nailah fece un respiro profondo.
Alla fine Isa chiese: «Che dobbiamo fare con questo bambino? Lo porterai tu dal dottore o devo farlo io?»
«Aspetta. Proveremo a fargli scendere la temperatura. Preferisco che prima stia meglio».
Verso mezzogiorno, Babu rifiutava di svegliarsi e la stanza angusta puzzava di diarrea e vomito. Cleo, che aveva parlato poco da quando era rientrata, si strinse le ginocchia al petto mentre Isa e Nailah avvolgevano Babu in un sacco di tela, il solo panno che era rimasto pulito.
«Resta con Cleo», disse Nailah a Isa. «È spaventata. Raccontale una delle tue storie, sei sempre stata brava a farlo».
«Quanto dista lo studio medico?»
«È abbastanza lontano».
«C’è qualcuno che potrebbe accompagnarti? Un vicino?»
«Forse», disse Nailah, chiedendosi se Kafele potesse essere da quelle parti.
Decise di provare ai magazzini del porto. Kafele aveva degli uffici lì, come facevano molti dei suoi fornitori più importanti; se non era via, con ogni probabilità si trovava là. Corse dritta verso gli enormi edifici di pietra. Sentì un flusso di calore all’altezza della vita mentre Babu se la faceva di nuovo sotto ma non si fermò. Raggiunse il primo vicolo dietro i magazzini. E le si gelò il sangue. Perché lì sui ciottoli, fra le casse e i mucchi di spazzatura, c’era un militare con i pantaloni larghi. Calvo, la pelle raggrinzita dal sole e occhi svegli e vigili. Nailah lo riconobbe: era lo stesso che aveva visto con il capitano alla baracca di Tabia. Fadil. Stava parlando fitto con un altro egiziano in tuta da lavoro. In giro non c’era nessun altro. L’istinto suggerì a Nailah che quello in tuta fosse l’informatore di cui le aveva parlato Kafele. Garai.
Si fece più vicina, sforzandosi di sentire cosa stava dicendo lo sconosciuto. («Mi è stato confermato solo ieri, non volevo farti perdere tempo prima di averne la certezza»). Spostò il peso del bambino e si massaggiò il fianco dolorante. Rimase in silenzio, non voleva che Garai o Fadil la scoprissero a origliare.
Ma in quel momento Sana sbucò dal nulla. Portava un canestro, sembrava diretta ai moli. Nailah imprecò quando capì che stava portando il pranzo al marito che faceva il pescatore.
Sana gridò: «Che ci fai qui, signorina-guardate-quanto-me-la-tiro?».
Entrambi gli uomini si girarono.
Fadil si accigliò. «Nailah?»
«Ti ricordi di me?», gli chiese lei.
«La conosci?», chiese Sana nello stesso momento.
Babu gemette e vomitò muco.
«Cos’ha tuo cugino?», le domandò Sana.
Nailah trasalì. E subito Fadil chiese: «Cugino?».
Nailah si sentì sbiancare. Riuscì a farfugliare confusamente che doveva andare da un dottore.
«Ti ci porto io», propose Fadil. Il suo cavallo nero nitrì dietro di lui. Abbassò la testa, stringendo con forza il morso nella bocca, gli occhi scintillanti. Occhi da mostro in una testa di dimensioni altrettanto mostruose.
Era così muscoloso il cavallo che aveva travolto Tabia?
«Preferisco andare da sola», disse Nailah con voce rauca.
Fadil disse che no, l’avrebbe accompagnata lui, insieme a suo cugino.
L’uomo, Garai, lo fissò evidentemente confuso. Gli occhi di Sana erano diventati due fessure dietro al velo.
«Vieni», disse Fadil.
Dato che non aveva scelta, Nailah fu costretta a fare quello che d’istinto non avrebbe fatto mai.
Lasciò che Fadil la facesse salire sul suo cavallo.