Capitolo quattro
Ramleh, Alessandria, 30 giugno 1891
La mattina in cui la famiglia Gray tornò, Alistair insistette con particolare determinazione affinché Olivia non uscisse, nemmeno per andare a salutare Clara. Anzi, soprattutto per quello. Comunicò a Olivia le sue istruzioni a colazione, subito dopo aver finito di rimproverarla per aver lasciato che le scorte di marmellata si esaurissero. (Era troppo chiederle di sovraintendere alla gestione della casa? Era veramente troppo? Dopo tutto, non aveva molto altro di importante a cui pensare). Si diresse dritto al lavoro, dicendo che era in forte ritardo. Aveva affari importanti da recuperare con Jeremy. Ovviamente.
Olivia non accennò neanche a un saluto. Ovviamente.
«Sia ben chiaro, Olivia», gridò Alistair dall’ingresso. «Devi rimanere a casa. Se non mi obbedisci lo verrò a sapere».
Lei si accigliò. Davvero?
Aspettò fino a quando non sentì il rumore degli zoccoli sulla ghiaia, poi si alzò e corse su a indossare qualcosa di più elegante. Stretto in mano teneva il biglietto di Clara.
Mi dispiace, Livvy, di essere andata via così a lungo, non so dirti quanto. Cercherò di farmi perdonare. Cominciamo con il pranzo. Ti porto da Draycott. Fatti trovare pronta per le undici. Mi sei mancata.
Mancava meno di un’ora alle undici. Olivia non aveva molto tempo.
Aveva appena finito di vestirsi quando sentì il rintocco dell’orologio. Erano le undici e la carrozza di Clara era arrivata nel vialetto. Corse alla finestra e malgrado si sentisse confusa e frustrata, provò una scossa di felicità quando scorse i capelli biondi di Clara e la curva delle guance incipriate sotto l’ombrellino. Finalmente. Eppure… Olivia strinse gli occhi; c’era qualcosa di strano nel modo incerto in cui Clara faceva ruotare il suo ombrellino, nel battito convulso della sua mano guantata sulle gonne. Era senza dubbio sulle spine. Qualsiasi cosa l’avesse sconvolta così duramente prima di partire, non era ancora stata superata.
Olivia si girò verso Ada. «Scendo a incontrare mia sorella da sola».
«Signora Sheldon». Il suo piatto accento londinese era carico di rimprovero.
«No, lasciami stare per una volta. Per l’amore del cielo». Senza dare a Ada il tempo di opporsi, filò via dalla camera da letto e scese le scale; i tacchi picchiettavano sulle mattonelle seguendo il ritmo convulso del suo respiro. Si fermò sulla veranda per sistemarsi il cappello e poi uscì nel giardino pieno di profumi.
Appena si avvicinò, Clara saltò giù dalla carrozza, la raggiunse e le afferrò le mani. «Oh, Livvy, quant’è meraviglioso incontrarti. Davvero, proprio splendido».
Olivia esitò, esaminando l’espressione guardinga della sorella, le ombre ancora più profonde sotto gli occhi, e risentì il suo meraviglioso, il suo proprio splendido, quei modi di dire oh-così-inglesi a conferma che – come se ce ne fosse bisogno – Clara era tutt’altro che una signora in cima al mondo. «Cosa c’è che non va?», le chiese. «Per tutto questo tempo hai continuato a ignorare le mie domande». La sua voce si incrinò, rivelando quanto avesse sofferto. «Sono stata così angosciata».
«Mi dispiace». Clara abbassò le spalle e lasciò ricadere la mano. «Non ti stavo ignorando… Voglio parlare con te. È solo che…». Guardò a terra smuovendo la ghiaia con la punta delle scarpe; il cappellino le ombreggiava il viso corrucciato. «Io non… Certo, le lettere… Nulla è andato bene… e… Oh, non so proprio». Guardò in alto, la sua espressione era allo stesso tempo triste e rassegnata. «Non sopportavo di starti così lontana. Mi sei mancata molto».
I lineamenti di Olivia si distesero. «Non sai ancora perché Jeremy ti ha portato via?»
«No», disse Clara, «veramente no».
«Non ti ha detto nulla?»
«Niente di sensato, almeno. Si è comportato in modo così strano. A dire il vero, è stato terribile: voleva sapere cosa facessi ogni singolo minuto, dove fossi, se non dormissi. E poi beveva troppo. Era perfino arrabbiato con Alistair per non so quale motivo». Si corrucciò. «Francamente, non credo che morisse dalla voglia di tornare, ma Alistair gli ha mandato un bel po’ di telegrammi. Naturalmente dobbiamo fare in modo che Ralphy sia pronto per la scuola. Andrà molto presto in Inghilterra».
«Gli hai detto che sta per partire?»
«Sì, questa mattina». Si accigliò ancora di più. «Avresti dovuto vedere la sua espressione, Livvy, il modo in cui cercava di farsi coraggio e di non scoppiare a piangere». Chiuse gli occhi per un attimo. «Mi sento come se lo stessi tradendo. Non riesco nemmeno a pensare che nostra nonna stia per arrivare così presto».
«Cosa?». Un brivido le corse lungo la spina dorsale. «Mi avevi detto che le avevi scritto per fermarla».
«E infatti è così. Ma sai com’è fatta. E ora Jeremy scalpita, vuole che vada in Inghilterra con loro, portando anche Gus».
Il cuore già sofferente di Olivia affondò ancora di più di fronte alla prospettiva che Clara partisse di nuovo. «Perché?»
«Non so. Jeremy è un libro chiuso».
«Forse dovresti provare ad aprirlo con più forza. Fatti dire di che cosa si tratta».
«Preferisco non insistere».
«Perché no?».
Clara alzò le spalle; era tesa, sulla difensiva.
Olivia la studiò per un momento. Le venne in mente un’ipotesi. «Ha a che fare con Edward in qualche modo?». La sua voce si inceppò pronunciando quel nome. Deglutì, terrorizzata. Si era tradita? «Eravate così sconvolti quando vi ho visti parlare allo Sporting Club».
«Livvy…».
«È successo qualcosa? Qualcosa che ha turbato Jeremy e di cui Edward è a conoscenza?»
«No, assolutamente no». Clara si morse il labbro, poi riprese a parlare, con voce spezzata, come se in realtà volesse tacere, ma non riuscisse proprio a trattenersi. «Perché mi chiedi questo? Che ti ha detto Teddy?»
«Non mi ha detto niente. Te l’ho scritto nelle lettere, è partito lo stesso giorno in cui sei partita tu. È stato via fin da allora».
«E non sai perché?».
Olivia ignorò la domanda. «Di che cosa stavate parlando voi due?»
«Preferirei che non me lo chiedessi».
«Perché no? Mi dici sempre che devo parlare con te, Clara. Che posso fidarmi».
«Tu puoi…».
«Ma allora perché tu non riesci a fidarti di me?»
«Non era nulla», disse Clara, «davvero. Solo qualche sciocca cattiveria». Trasalì nel momento stesso in cui quelle parole le uscirono di bocca.
Olivia indietreggiò. «Cattiveria? Cioè? Che cosa intendi per cattiveria?».
I cavalli scartarono infastiditi dal tono acuto della sua voce. Il cocchiere schioccò la lingua per calmarli. Clara gli dette un’occhiata, poi arrossì. «Sarà meglio andare».
«Prima dimmi di che cattiveria si tratta».
Gli occhi di Clara rimasero fissi sul cocchiere. «Non ora».
«Sì, ora».
«No». Clara le fece un cenno a indicare la schiena del cocchiere, quindi puntò il pollice ricoperto di pizzo verso lo staffiere dalla carnagione scura in piedi sul predellino posteriore della carrozza. «Andiamo. È più opportuno parlarne a pranzo».
Olivia rimase interdetta. Si sentiva come un pallone bucato e non era certo in vena di pranzi. Ma poiché era evidente che fino ad allora Clara non avrebbe detto nemmeno una parola in più… sollevò lo sguardo verso la finestra della camera da letto, per nulla sorpresa di scorgere il viso affilato di Ada che sbirciava da dietro le persiane. Sospirò. «Andiamo, allora, prima che la mia cameriera pretenda di unirsi a noi. Alistair le ha dato ordine di seguirmi ovunque. Sostiene che uscire sia pericoloso».
«Pericoloso?», Clara si accigliò. «Ci si mette anche lui? È la stessa cosa che ho detto a Jeremy: non ci sono particolari problemi di sicurezza ad Alessandria in questo periodo. Tutto come al solito».
«Anche Jeremy dice che ci sono dei rischi?». Olivia ne rimase sorpresa. Era così sicura che Alistair complottasse per tenerla chiusa in casa: considerava i suoi moniti sui disordini dei nazionalisti solo delle bugie inventate per spaventarla. Però, se anche Jeremy aveva messo in allarme Clara e stava scalpitando perché andasse in Inghilterra, era probabile che ci fosse sotto qualcosa.
Clara disse: «Jeremy sta solo cercando di complicarmi la vita». Si accomodò sul sedile, le gonne di seta frusciavano sotto di lei. Si sporse verso Olivia e bisbigliò con aria complice: «Non gli ho detto che saremmo andate in città», e fece una risatina. «Non stare in ansia però, Livvy, andrà tutto bene. Forza, andiamo». Diede un colpetto sul sedile accanto a lei. «Abbiamo un tavolo prenotato per mezzogiorno. Se non ci sbrighiamo lo perderemo».
Olivia ebbe un attimo di esitazione.
«Livvy, per favore».
Cedette e salì sulla carrozza. Clara le diede una rapida stretta al braccio e chiese al cocchiere di partire.
Mentre lasciavano i campi, Clara indicò la tenda dei beduini vicina ai cancelli e disse: «Vedo che avete ospiti».
«Sì. Sono arrivati proprio quando voi siete partiti. Stanno facendo impazzire Alistair».
«Bene», disse Clara, «buon per loro».
La lunga striscia di strada brulla che univa la enclave bianca di Ramleh alla città era arida per la polvere, incastrata tra il mare scintillante da una parte e gli scoscesi banchi di sabbia dall’altra. I fiori primaverili che un tempo ricoprivano le dune erano spariti; non rimanevano che piante di vite avvizzite, ombre mutevoli di giallo e marrone che oscillavano dritte nell’aria calda e immobile. Un cammello solitario guardava dal lato della strada i carri che passavano, ruminando radici. Il suo padrone gli piazzava la sella tra le gobbe con un tonfo, percuotendolo con il frustino di cuoio. Povera bestia.
Clara chiacchierava piano, più per riempire il silenzio che per altro, pensò Olivia. Parlava soprattutto di Ralph e Gus, e sulle sue guance rosate si formavano delle allegre fossette mentre raccontava i progressi di Ralph, che stava imparando a leggere così velocemente – aveva una vera ossessione per i nuovi racconti di Sherlock Holmes – mentre a Gus era spuntato il primo dentino nel viaggio di ritorno.
Non fece alcun riferimento alla “cattiveria” che aveva prima evocato. Olivia non fece domande. Non le sembrava opportuno, con i domestici che potevano sentire ogni parola. Avrebbe dovuto aspettare il pranzo per scoprire cosa bolliva in pentola. Agitò la mano per scacciare via le mosche onnipresenti.
Alla fine Clara tacque e si voltò a guardare il mare. Olivia la fissò mentre tormentava il manico infiocchettato del suo costoso ombrellino, rovinandolo pian piano. Con le spalle ricurve e il naso schiacciato e tutto arricciato era proprio identica a quella sera al club, quando era sparita nell’oscurità ventosa: una ragazza vulnerabile, piuttosto che una ventinovenne madre di due bambini. Per nulla felice, anzi, proprio il contrario.
Olivia si assestò sul suo sedile. Sentiva un desiderio quasi irrefrenabile di allungare le braccia e stringerla a sé. Ma rimase immobile. Era trattenuta dall’evasività di Clara delle ultime settimane, da tutta quella reticenza.
Non riusciva a passarci sopra.
Sospirò.
«Un penny per i tuoi pensieri». disse Clara.
«Non sono sicura che valgano tanto».
Ci misero altri venti minuti per arrivare in città. Il cocchiere le condusse lontano dalla costa, nelle stradine acciottolate del mercato, con i banchi che esplodevano di frutta fresca, pesce e verdure. Passarono davanti a un fornaio, c’erano grandi cesti di pane azzimo all’entrata; da dentro arrivavano i sentori della cannella e del lievito trasportati dal vento, che si mescolavano con il profumo delle pesche e l’odore di cipolle, caldo e sudore. I marciapiedi rumorosi brulicavano di volti mediterranei ed egiziani in ugual misura: mercanti greci, commercianti turchi, donne velate ed ebrei con la kippah. Una macedonia di culture. Edward aveva detto a Olivia che questa città, fondata dai greci e resa grande dagli egiziani, era stata governata dai tolleranti ottomani per tutto il Medioevo; un rifugio per i perseguitati. Anche ora le moschee sorgevano accanto alle chiese e alle sinagoghe, le lingue scivolavano fluide dall’arabo al siriano, dall’ebraico al greco. Tutti erano in grado di parlare la lingua dell’interlocutore. (Tranne gli inglesi, naturalmente. La maggior parte di loro restava fedele all’inglese. E vivevano a Ramleh).
Olivia si mordicchiava il labbro mentre occhi neri privi di espressione si posavano su di lei e sull’elegante carrozza di Clara, sulle loro gonne di seta e sugli ombrellini ornati di gale.
Erano straniere, tutte e due: una razza a parte in quella terra cosmopolita.
Lasciarono la carrozza nella zona centrale di Alessandria, in piazza Mohammed Alì, circondata dalle palme, e si avviarono a piedi verso Draycott. Quando si tuffarono nella folla che scorreva lungo la principale via commerciale, l’elegante Rue Cherif Pasha, Olivia sentì l’atmosfera già tesa di quel giorno deprimersi e incupirsi… Guardò in alto per vedere se era in arrivo un temporale ma il cielo era limpido e azzurro.
Continuarono a camminare. Olivia cercava di soffocare il disagio ma non poteva ignorare la sensazione pungente di essere osservata. Le vennero i brividi, e sentiva uno strano macigno gravarle sulla schiena, un peso stranamente incorporeo. Si guardò alle spalle, e scrutò gli sconosciuti che facevano acquisti tutt’intorno a lei: uomini con il tradizionale copricapo a tamburello e tuniche bianche, altri in frac e cappello a cilindro, di tanto in tanto qualche donna in abito da sera che avvizziva, come lei e Clara, nel calore crescente del giorno. A quanto sembrava però nessuno stava guardando loro. Perché allora quella strana sensazione?
«Dobbiamo sbrigarci», disse Clara mentre Olivia scrutava giù per il viale per vedere quanto mancava. «Non ci terranno il tavolo per molto tempo ancora».
«Aspetta un momento». La gente intorno a loro sembrava muoversi con troppa cautela, come se tutti compissero dei passi di danza secondo una precisa coreografia. Le pareva quasi che le finestre dei palazzi vicini fossero puntate su di loro. Lo sguardo di Olivia divenne spento e assente. Come se le fosse sfuggito qualcosa che invece avrebbe dovuto assolutamente vedere. «Mi sento così strana».
«Stai male?», Clara la guardò preoccupata.
«No, no, sono a posto».
«Non mi pare, si vede. Si tratta di Alistair?»
«Non ora, Clara, ti prego».
«Ci sono tante cose che vorrei dirti di te e di lui». Clara scosse la testa cercando le parole giuste. «Non siamo così diverse, sai».
«Che vuoi dire?».
Clara le lanciò un lungo sguardo. «Davvero Teddy non ti ha detto nulla di me, prima di partire?»
«No». Olivia si accigliò per quella domanda apparentemente fuori contesto. «Perché, che cosa avrebbe dovuto dirmi?».
Clara aprì la bocca per rispondere, ma si fermò subito e guardò di sbieco il marciapiede di fronte. «Quello laggiù non è il suo attendente?»
«Cosa?». Olivia si girò seguendo lo sguardo di Clara.
«Guarda». Clara indicò uno slanciato militare egiziano di mezza età che camminava sul lato opposto della strada. Aveva le maniche della camicia cachi arrotolate, i pantaloni stretti sulla vita. Sembrava completamente ricoperto di polvere e di sabbia.
Olivia avrebbe riconosciuto ovunque quel fisico muscoloso e quella carnagione scura. «È Fadil», disse. Se era lì, doveva essere tornato anche Edward. Quella consapevolezza le scoccò una scintilla nel cuore, cancellando ogni altro pensiero. Si guardò attorno ma non riuscì a vederlo. Doveva assolutamente scoprire dove fosse finito. Disse a Clara che andava a chiedere a Fadil la conferma del ritorno di Edward. Per preparargli le camere, ovviamente. Cercò di restare impassibile mentre parlava, sforzandosi di non lasciar trapelare la sua felicità.
«Va bene», disse Clara. «Ti aspetto qui».
«No», rispose Olivia, «francamente è meglio che tu vada». Voleva restare un momento da sola, senza la sorella, per ricomporsi. Indicò con il capo il colonnato del Draycott. «Ci vediamo là».
«Non essere sciocca, ti aspetto qui».
«No, davvero. Assicurati che ci tengano il tavolo».
Clara si accigliò. «Va bene», disse alla fine. «In effetti avrei proprio bisogno di bere qualcosa. Non ci metterai tanto, vero?».
Olivia rispose che l’avrebbe raggiunta subito. Clara annuì e se ne andò. La fissò mentre si allontanava, aspettando di vederla sparire tra la folla con le sue gonne di pizzo ondeggianti. Poi si concentrò di nuovo sul punto in cui aveva avvistato Fadil.
Imprecò quando si rese conto che era sparito.
Tentò di trovarlo quasi per un quarto d’ora. Solo dopo aver rifatto tutta la strada fino a piazza Mohammed Alì ammise la sconfitta, sospirando esasperata, e tornò verso il Draycott.
«Ho un appuntamento con la signora Gray», disse al maître.
«Piacere di vederla, signora Sheldon». L’uomo piegò la testa in un inchino, per poco non sfiorò il leggio che gli stava davanti. «Il vostro tavolo è pronto. Desidera una bevanda fresca mentre aspetta la signora Gray?»
«Dovrebbe essere già qui».
«Credo che si sbagli, signora Sheldon».
«No, non mi sbaglio».
Lui fece una smorfia scusandosi. Olivia alzò gli occhi al cielo e attraversò il foyer di marmo. Avrebbe trovato Clara da sola. Si fermò sulla soglia della sala da pranzo e si guardò attorno. Il locale era pieno. Sul soffitto ronzavano le ventole, fatte girare dai ragazzini che azionavano le corde delle carrucole; i camerieri sciamavano per tutti i tavoli tenendo in alto i vassoi d’argento; le conversazioni in corso in più di cento tavoli producevano un forte brusio. Solo uno dei tavoli – il migliore, quello che affacciava sulla terrazza inondata di sole, apparecchiato per due – era ancora vuoto. Olivia andò lì e sbirciò nel giardino, vedendo aiuole sontuose, fumatori di sigaro che poltrivano, un pappagallino dall’aria depressa in un angolo, ma nessuna traccia di Clara. Andò alla toilette. Niente.
«Che ora è?», chiese, tornando dal maître.
«È mezzogiorno e mezzo».
«Dovrebbe essere già qui».
«Potrebbe forse essere andata a sbrigare prima una commissione?». Con un gesto della mano indicò la strada. «A fare acquisti forse?».
Olivia ne dubitava ma tornò fuori nell’aria bollente per controllare. Dedicò più di un’ora alla sua ricerca, sgattaiolando dentro e fuori i negozi, quindi da Draycott e poi di nuovo di fronte alla vetrina, gli occhi spalancati e pronti a individuare il cappellino color limone di Clara e il suo vestito azzurro. Perse il conto del numero di commessi a cui aveva chiesto informazioni. Tutti scuotevano la testa in risposta alle sue domande.
«È alta come me, ha la stessa corporatura e i capelli più chiari…». Era rimasta ormai senza voce quando trafelata si rivolse al proprietario in grembiule dell’emporio di prelibatezze di importazione.
«La conosco, certo che conosco la signora Gray», rispose l’uomo tirando su con il naso da dietro i barattoli di piccalilli e mostarda, «ma non la vediamo da settimane. Mi dispiace».
«Ma è certo che non ci sia stato nessun contrattempo? Magari un incidente per strada può averla bloccata?»
«No, io non ho sentito nulla». Alzò le spalle. «Non so proprio cosa dirle».
Frastornata, tornò al ristorante ed effettuò un altro giro da quelle parti.
«Potrebbe essere andata a casa?», chiese il maître seguendola.
«Non credo proprio», disse Olivia. «Non mi avrebbe mai lasciato qui in città in questo modo». Certamente no. Ciononostante Olivia, tutta bagnata di sudore, tornò alla piazza dove avevano lasciato la carrozza. Il cocchiere di Clara era in piedi appoggiato allo sportello, lo staffiere era stravaccato sul pavimento sporco. Le giurarono che non si erano mai mossi, e che no, non c’era traccia di madame Gray. Madame Sheldon voleva una mano a cercarla?
Olivia rispose di no. Meglio che restassero lì dov’erano; Clara sarebbe senza dubbio riapparsa da un momento all’altro. Certamente. Si passò la mano tra i capelli e si accorse di aver perso il cappellino, così tornò di corsa al Draycott. Più che camminare ormai correva lungo i marciapiedi affollati, cercando di non pensare a quanto si sentisse bianca e straniera davvero molto femminile, in quella città piena di uomini che guardavano e guardavano. Parlava tra sé e sé per superare il panico crescente, ripetendosi in continuazione che c’era un’infinità di posti in cui Clara avrebbe potuto rintanarsi, per mille e mille ragioni perfettamente logiche. Ma la sensazione che qualcuno le avesse tenute d’occhio a lungo tornò ad assalirla, colpendola dritto al cuore, acuita dall’eco degli avvertimenti di Alistair sui pericoli dei nazionalisti. Improvvisamente le parevano più che credibili.
Olivia si fermò di nuovo in ogni negozio, ripetendo le stesse domande e ricevendo le stesse risposte (nessun incidente, nessuna ambulanza, nessuna traccia di una donna vestita di azzurro); quando arrivò nel cavernoso foyer del Draycott era completamente zuppa di sudore, i capelli sciolti e in disordine le si appiccicavano sulla fronte sudata.
«Signora Sheldon», disse il maître dietro di lei. «Avete intenzione di…?».
Ignorandolo, si diresse all’entrata della sala da pranzo e spalancò le doppie porte. Solo pochi clienti stavano ancora consumando il pranzo. Nessuna traccia di Clara. Percorrendo un tragitto ormai familiare si diresse alla terrazza, le gonne che frusciavano contro i tavoli mentre si faceva strada. Il maître continuava a seguirla, chiamandola. «Signora Sheldon, la prego…». Ma lei non si fermava.
Irruppe nel giardino e si mise le mani davanti agli occhi per proteggerli dal sole. Qui c’era ancora gente, parecchi uomini che poltrivano nelle sedie di vimini. Si girarono a guardarla. Il modo in cui i loro sguardi indolenti si trasformavano in occhiate imbarazzate e incuriosite avrebbe anche potuto essere divertente, in un’altra occasione. Dunque è tornata, riusciva a sentirli pensare. Questa stupida ragazza deve essersi messa in un pasticcio. Dov’è suo marito? Speriamo che non tocchi a noi il compito di sistemare la faccenda.
«Signora Sheldon?».
Si girò a guardare il maître. «Non riesco proprio a immaginare dove possa essere finita», disse, «non riesco proprio a immaginarlo».
«Forse potrebbe essere stata chiamata urgentemente altrove».
«Ma la sua carrozza è ancora qui».
Lui allargò le braccia impotente.
«Che ore sono?», chiese lei.
«Quasi le tre».
«Le tre? Come possono essere le tre?». Fece un respiro profondo. Ricomponiti, si disse. Non fare la sciocca, non perdere il controllo. «Sarà meglio che vada a casa», disse. «Per assicurarmi che non sia tornata indietro con altri mezzi».
«È una buona idea». Il maître annuì con forza, senza dubbio sollevato all’idea di sbarazzarsi di lei e di quella situazione incresciosa. Ma poi, quando afferrò il fazzoletto per asciugarsi la fronte, il tremito della mano fu un chiaro segnale che era parecchio preoccupato anche lui.
Questo dettaglio convinse Olivia a prendere una decisione. «Informi il commissario Wilkins», disse nominando d’impulso il funzionario di polizia più alto in grado che conoscesse. «Gli dica di andare a Ramleh. Se Clara non è a casa, avremo bisogno di lui».