Piazza centrale di Alessandria, 30 giugno 1891
Allungò un braccio alla ricerca di una parete, un mobile, qualsiasi cosa potesse sorreggerla, impedirle di cadere. Ma non trovò nulla, e così cadde in avanti, sulle ginocchia, atterrando dolorosamente sulle assi del pavimento piene di polvere. Si sollevò, ruotò la testa da una parte e dall’altra, disorientata dalla velocità con cui stava succedendo tutto. Si sforzò di vedere qualcosa. Ma dopo l’intensa luce del sole fuori, ora era immersa nell’oscurità e riusciva a distinguere solo ombre e punti luminosi.
Cominciò a gridare. Una mano le coprì la bocca: forte, rude, le ricacciava i suoni in gola. C’erano degli uomini nella stanza. Tre, no, quattro. Respirava con il naso, respiri rapidi e corti. Odore di sudore, aglio, un vago sentore di hashish. Da fuori, il rumore remoto della strada: gli zoccoli dei cavalli, lo sferragliare di un tram. Gli uomini attorno a lei parlavano in arabo, assolutamente tranquilli. Sembravano così padroni di sé. Come se avessero tutto sotto controllo. Era una cosa che la terrorizzava.
Le tolsero la mano dalla bocca.
«Che cosa volete?». La sua voce era alta, tesa, il suo inglese era forzato e innaturale. «Voglio andare via. Lasciatemi andare». Sbatté le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità. La stanza era praticamente vuota; solo una pila di casse in un angolo, un tavolo con sopra delle bottiglie di vetro in un altro. Gli uomini indossavano le tuniche bianche tipiche della gente del posto. Si erano coperti i volti con degli stracci.
Da fuori arrivava il rumore di passi sull’acciottolato del vicolo; poi, il cigolio di un carretto, o così sembrava. Aprì la bocca, gridando di nuovo, chiedendo aiuto. L’uomo davanti a lei abbassò lo sguardo, gli occhi scuri, completamente vuoti. Sembrava annoiato. Scosse la testa, e allungò il braccio verso uno degli stracci che gli coprivano il viso. Rendendosi conto di cosa aveva intenzione di fare, lei cercò di sottrarsi inarcando la schiena. «No. No, no, no». Si dimenò per alzarsi. Qualcuno la spinse giù, un altro le ficcò in bocca un qualche tipo di tessuto sporco e intriso di sudore. Ebbe un conato di vomito, si sentiva soffocare mano a mano che la stoffa si stringeva intorno alla sua faccia.
Respirando a fatica, con il viso pieno di lacrime, guardò la porta. Da sotto arrivavano lame di luce bianca. Rue Cherif Pasha, gremita e piena di vita, era giusto a un passo. Balzò in avanti, tentando di scappare, ma quelli le spinsero di nuovo la testa a terra. I lembi della veste si allargarono ai suoi piedi. Batté la testa. Perché mi state facendo questo? Ma la sua voce, soffocata dal panno, non era altro che un gemito.
Pensava a sua sorella là fuori, ancora nella strada trafficata. O forse era già al ristorante Draycott? Il soldato, anche. Fadil. Lo sapeva? Sarebbe venuto? I suoi pensieri corsero a casa, i suoi cari in attesa. Specialmente lui. Lui avrebbe percepito che era nei guai? Oh Dio, no, com’era possibile che si fosse ritrovata in quella situazione? Non sarebbe dovuto succedere.
Un uomo attraversò la stanza. Aprì una botola proprio nel centro. Subito un odore pestilenziale si levò dal buco. Sentì che la stavano trascinando in quella direzione. Scosse la testa, scalciando. Ma era tutto inutile. Nella fossa spalancata intravide una scala di pietra, una grande voragine nera pronta a inghiottirla, e si ritrasse, sconvolta, piena di un nuovo terrore. Dove siete? Una domanda, rivolta a sua sorella e a Fadil, che le rimbombava nella testa. Perché non venite?
Il primo uomo scomparve nella botola. L’afferrò per gli stivali e tirò. Un altro le bloccò le braccia contro i fianchi, sollevandola. La trascinavano giù, mentre si contorceva e la sua pelle sfregava contro i mattoni ruvidi. Gli altri la seguirono.
Trovatemi. La botola si richiuse sopra di lei. Per favore, vi prego. Trovatemi.