Capitolo ventitré
«Svegliati, Nailah, vieni, apri gli occhi».
«Che c’è? Che cosa è successo?», Nailah schizzò in piedi, il cuore che batteva all’impazzata strappandola al sonno. Attorno a lei la camera era ancora buia, Cleo russava, ma Isa, accovacciata lì accanto, era già sveglia e indossava i suoi abiti color turchese. Le sue guance, per una volta non incipriate, erano arrossate dallo sforzo.«È venuto qualcuno?», chiese Nailah. «Chi?»
«Nessuno», disse Isa. «Sono io che sono uscita per andare a incontrare Kafele».
«Kafele?», Nailah si strofinò gli occhi. «Che ora è, umi?»
«Presto. Non sono riuscita a dormire per la preoccupazione. Ho detto a Kafele che dobbiamo portarti via, oggi, prima che ci provi Jahi, o che tornino quegli uomini. Vieni, alzati. Devi andare a prendere Babu. Kafele ti porterà da alcuni suoi amici a porto Said».
«Porto Said?»
«Sì, lì potrai scomparire nel nulla. Kafele dice che una volta che avrà sistemato le cose con il lavoro, tornerà a prenderti e ti sposerà. Ti ama così tanto». Sospirò. «Me ne sono resa conto ieri sera».
«Corri troppo, umi». Nailah guardò la stanza sporca, Cleo che dormiva, il materasso macchiato del piccolo Babu, la pagnotta rafferma mangiucchiata sul tavolo. «Comunque non voglio chiedergli una cosa del genere. Non è questo il suo progetto».
«I progetti sono per i ricchi e gli sciocchi».
«Allora tu sei una sciocca, umi, visto che hai programmato la mia fuga».
«Sarò anche sciocca, ma questo è ciò che farai. Va’ alla clinica, fatti dare dalle infermiere le medicine di Babu e tutto quello di cui ha bisogno. Portalo ai magazzini di Kafele. Io farò le valigie, Cleo ti aspetterà qui».
«Tutto così facile, eh?», chiese Nailah.
Isa annuì rapidamente. «Già, così facile».
Stava cercando di convincere lei o se stessa? Nailah non ne era sicura.
«Perché non sei in tenuta da equitazione?», chiese Imogen, accigliandosi alla vista del vestito color crema di Olivia che si avvicinava di buon mattino, giusto pochi minuti dopo che Edward era uscito. «Rovinerai quel meraviglioso abito».
«Non potevo fare diversamente. Se mi fossi vestita da cavallo, Edward si sarebbe insospettito». Quando Olivia si era svegliata lui era ancora a letto, al suo fianco, le teneva una mano poggiata sulla gamba. Aveva guardato il modo in cui muoveva le labbra sorridendo. Ed era andata vicino, molto vicino a dirgli tutto quello che lei e Imogen avevano programmato per la mattina, ma la dolcezza di quel silenzio l’aveva trattenuta. Del resto, lui non le aveva detto nulla dei suoi progetti. La segretezza era un’abitudine a cui era difficile rinunciare.
Lui l’aveva aiutata a vestirsi. Le aveva baciato il collo mentre avvolgeva la sua vita nella mussola e allacciava le fibbie del corsetto. L’intimità tra loro era molto più intensa alla luce dell’alba.
«Stai arrossendo», disse Imogen.
«No, proprio no», ribadì Olivia, mentre le sue guance diventavano sempre più rosse.
Imogen fece una smorfia. «Muoviamoci. Edward sta andando a prendere Tom a casa, possiamo aspettarli sulla strada per Alessandria».
Olivia si guardò alle spalle. «Penso che Fadil mi abbia visto uscire proprio ora, probabilmente ci seguirà».
«Passiamo per la casa di Clara, allora», disse Imogen, «e facciamogli credere che siamo dirette là. Il tempo non ci manca».
«Va bene».
«Come sta la tua testa?»
«Mi fa male».
«Come a tutti noi. Ah, be’, niente di meglio di una bella galoppata per schiarirsi le idee. Pronta?»
«Pronta».
Olivia decise che, dato che erano da Clara, potevano anche fare un salto a controllare come stava Ralph.
«Il povero agnellino è ancora a letto», disse Sofia in un sussurro, mentre raggiungeva Olivia fuori dalla stanza dei bambini. «Anche il piccolino, ed è anche scottato. Potrei darti una sculacciata, signora Livvy, per aver permesso che accadesse tutto questo. Ho chiesto solo qualche ora di libertà, non mi aspettavo che quasi uccidessi Ralphy».
«Sono stata io a salvarlo». Olivia era indignata, si sentiva come una bambina ribelle.
«In primo luogo, che ci faceva in acqua?»
«È un’ottima domanda». Era Mildred a parlare, la sua voce piatta arrivava proprio da dietro Olivia.
Lentamente si girò a guardarla. Mildred sfoggiava il solito taffetà grigio, i capelli tirati indietro sotto un cappello antiquato. C’era una luce indefinibile nei suoi occhi, Olivia presumeva che fosse disprezzo.
Non poteva evitare di rivolgerle la parola, e quindi Olivia disse: «Ti sei svegliata presto». E dal suo tono si capiva che la cosa non le aveva fatto certo piacere.
Mildred inarcò le sopracciglia. «Ralph è un bambino», disse. «Come hai potuto tollerare che si verificasse un incidente di questa gravità? Sono delusa, ma purtroppo non è una sorpresa».
«Che peccato», disse Olivia, simulando una noncuranza che non provava veramente. La notte precedente aveva abbattuto le sue difese, e per una volta il veleno di Mildred era riuscito a penetrare e faceva male. Lo sdegno della nonna la feriva ancora nel profondo, ed era una cosa che non sopportava. Doveva andarsene prima che Mildred se ne accorgesse.
Si girò.
«La tua povera sorella», disse Mildred, e il suo tono provocatorio la costrinse a fermarsi. «È stato il risentimento, quel giorno, a spingerti ad aspettare così a lungo prima di chiamare la polizia? Ti stavi vendicando per tutto quello che lei ha avuto e che invece tu hai perso?»
«Che cosa?», Olivia restò basita. Come era possibile che un pensiero simile le fosse anche solo venuto in mente?
«Forse è stata solo negligenza», disse Mildred.
«Negligenza?», Quella parola le uscì di bocca in una specie di grido prima che potesse trattenerla. «Negligenza?», Prese fiato, ricordando gli ultimi giorni di scuola della sua vita, quando vedeva dalla finestra che tutti avevano qualcuno che li andava a prendere, tranne lei. «Non piangere», diceva suor Catherine, «non devi piangere. Sai cosa fa suor Agnes a quelle che piangono». E poi le domande delle altre ragazze: «Che hai fatto a tua sorella e a tua nonna? Perché non ti vogliono? Perché non riesci a ricordare?».
Si premette la mano sulla testa, che le doleva terribilmente. «Ero felice quando vivevo con Beatrice a Londra», disse a Mildred. «Ero di nuovo davvero felice. E tu hai rovinato anche quello».
«Smettila di commiserarti. Guarda quello che hai. Vestiti eleganti, una bella casa», e qui Mildred si morse le labbra, «un buon marito».
Olivia strinse i pugni. Sofia le prese il braccio, forse disse qualcosa di conciliante ma Olivia non la sentì. L’unica cosa che udì fu la sua stessa voce che diceva: «Ti odio. Tu non sai quanto ti odio. Anche mio padre ti odiava, credo. Non ha mai parlato di te, mai. E sai chi me l’ha detto, chi mi ha rivelato qual era la vera ragione? Clara, la tua preziosa, amata Clara».
«Ne ho abbastanza». Mildred si girò sui tacchi. «Sfacciata. Proprio come tua…».
«Madre? È questo quello che stavi per dire?».
Mildred scappò via. Quando scomparve dalla sua vista, la collera di Olivia sparì. Si sentì svuotata. Ma le rimase la strana sensazione di essere sporca, insozzata. Aveva l’amaro in bocca.
«Non dovresti perdere il controllo con lei», disse Sofia. «Credimi. È il tipo di persona che ama far arrabbiare la gente, specialmente coloro che hanno sofferto a causa sua. La fa sentire meglio».
Olivia respirò più volte, a fondo. Sofia le strinse il braccio. Le sue dita erano grosse, pulite, le unghie corte e quadrate: mani sincere, mani gentili. Olivia le guardò, poi di nuovo. Spostò gli occhi sull’altro braccio. Sbatté le palpebre. Erano ancora là. E anche lei: più paffuta, con un grembiulino, in una stanza dei bambini affrescata con i geroglifici e un piatto di stufato davanti a lei. Tieni la forchetta e il coltello così, agapi mou. Il ricordo indugiava, non voleva andare via.
Ma Clara non era là. Ancora no. Perché non tornava?
Sofia la fissava, il sopracciglio aggrottato. «Che c’è che non va?», chiese.
«Nulla», disse Olivia. «Sto bene». Si guardò intorno nel salone vuoto. La casa sembrava stranamente silenziosa. «Tutto il resto è a posto?», chiese.
«Non direi. Ieri il signor Teddy ha portato via con sé Hassan ed El Masri».
«Che cosa? Perché?»
«Non lo so, ma sono entrambi tornati ora». Sofia si morse il labbro inferiore. «Che orribile situazione. Se penso alla signora Clara…». Riprese fiato. «Il dolore mi sta uccidendo». Si batté il petto. «Qui dentro. La rivoglio a casa, questo è tutto. A casa e al sicuro».
«Lo so»,disse Olivia.
Sofia sospirò. «Vuoi fare colazione mentre aspetti che i ragazzi si sveglino?»
«No», disse Olivia, pensando a Imogen che l’aspettava fuori. «Grazie. Devo andare. Ripasserò più tardi».
«Lo dirò a Ralph, sarà contento».
Olivia annuì, e sapendo di essere in ritardo, salutò rapidamente Sofia. Corse giù per le scale, facendo scivolare le mani sul corrimano lucido, poi uscì sul vialetto.
Imogen le gridò di sbrigarsi. «È arrivato Fadil. Gli ho detto che saremmo rimaste qui tutta la mattina, ma non penso che mi abbia creduto».
«Forse perché non sei scesa da cavallo».
Imogen le porse le redini di Bea. «Vieni». Indicò la strada polverosa. «Se ne sta appostato da quella parte. Eviteremo la strada, c’è una scorciatoia. Se andiamo veloci, possiamo far perdere le nostre tracce».
«Va bene», disse Olivia. E montò in sella, riservandosi di dirle solo dopo le novità su Hassan e El Masri che le aveva confidato Sofia.
«Stammi dietro», gridò Imogen. Poi partì, correndo via in una nuvola di sabbia. Galoppava come se lo facesse di mestiere, e Olivia, che faticava a tenere il passo, si disse che Fadil doveva avere uno svantaggio ormai incolmabile. Imogen raggiunse i banchi di sabbia e i cespugli, Olivia sentì che la sua sella, allacciata troppo lenta nella fretta di correre dietro a Edward, scivolava verso il basso. Si chinò, Imogen era appena passata sotto i rami scricchiolanti di un albero. Le si strappò la gonna affrontando quel difficile passggio, e quando Bea la sballottò perse l’equilibrio. Ruzzolò per terra, si protesse istintivamente il corpo con le braccia, e sbatté su una pietra con la guancia.
Fissò il cielo cercando di orientarsi, la testa ora le martellava sul serio. Portò le dita sullo zigomo ferito, il petto scoppiava per l’eccitazione.
Imogen smontò e corse verso di lei. Il suo viso era corrucciato per la preoccupazione. «Stai bene?»
«Penso di sì».
Imogen sembrava poco convinta.
«Davvero, Imogen, sto bene». Olivia si tirò su, prendendo la sua mano.
Imogen si morse il labbro. «Non si può dire che tu non dia nell’occhio, eh. Ti si vedono le sottogonne, tra gli strappi del tessuto».
Olivia scrollò le spalle. Non c’era comunque il tempo di fare alcunché. «Puoi aiutarmi a stringere il sottopancia di Bea?»
«Penso che sia meglio se lo faccio io».
Ripartirono in un minuto. Ripresero la strada giusto in tempo per vedere Edward e Tom che partivano diretti in città.
«Che coincidenza», disse Olivia.
«Resta indietro», le ordinò Imogen.
Giocarono al gatto con il topo per tutta la strada che andava in città, tenendosi a distanza di sicurezza fino a che Edward e Tom non scomparivano in lontananza; poi si avvicinavano per riprenderli prima che sparissero del tutto. Si aggirarono per le strade del porto, piene di venditori ambulanti che si preparavano a esporre la loro merce al mercato, con banchi carichi di pesche e mele e pesce salato del Mediterraneo. Nell’aria si diffondeva un profumo di frutta mescolato all’odore del mare e delle spezie. Andando avanti; l’aria divenne acre, le strade si fecero più strette e buie, finché, finalmente, raggiunsero un dedalo di vicoli fatiscenti che facevano venire in mente un romanzo di Dickens ambientato in luoghi esotici. Olivia inspirò il lezzo pungente di fogne, bestiame e caldo asfissiante.
Agitò l’aria piena di mosche. Lo champagne della sera prima le tornava in gola.
«Questo è il quartiere turco?», chiese a Imogen, ripensando alle parole di Amélie del giorno prima.
Imogen le rispose di sì.
«Sono venuti qui per incontrare Nailah?»
«Solo il tempo può dirlo», rispose Imogen. «Anche perché Tom ieri sera non ha aperto bocca. Vieni, proseguiamo a piedi». Smontò e afferrò la camicia di un monello con la testa rasata e la pancia che strabordava dai pantaloni. Indicò i cavalli, parlando velocemente in arabo, e tirò fuori una moneta. La faccia del ragazzo si illuminò in un sorriso smagliante.
Imogen si allontanò in un attimo. Olivia la seguì, e si accigliò quando voltandosi vide un bambino pelle e ossa che teneva i loro cavalli ben pasciuti e ne accarezzava con le mani sporche il manto setoso.
A ogni passo che la portava più vicina al cuore del quartiere, le pareva che il sole, così libero di splendere negli spazi aperti sulla costa, diventasse sporco: deboli spiragli di luce battevano sui lebbrosi che si trascinavano in terra senza gambe, sulle finestre luride e coperte di panni stesi, nascondendo le rapide occhiate degli uomini dalla carnagione scura e delle donne velate. Dio, se solo pensava all’opulenza decadente sul prato dei Carter la notte precedente, mentre questa gente era costretta a vivere in un modo simile… Gli egiziani.
«Di sicuro ci odiano», disse a Imogen.
Lei aprì la bocca per rispondere, ma poi si fermò e tirò indietro Olivia, facendola nascondere dietro delle casse impilate. «Guarda», disse, indicando Edward e Tom che si fermavano.
Olivia si accovacciò, le gonne di seta che si stendevano sul fango fetido. Edward e Tom portarono i cavalli di fronte a una casetta che un tempo doveva essere azzurra ma che ora era coperta solo da croste di pittura. Guardò attraverso le assicelle mentre Edward bussava. Imogen le strinse il braccio. Aspettarono. Edward bussò di nuovo.
Nessuno gli aprì.
«Maledizione», disse Imogen.
Edward e Tom legarono i cavalli e si sedettero su un gradino lì vicino, accendendosi una sigaretta.
«Faremo meglio a metterci comode anche noi», suggerì Imogen. Si appoggiò a un muro sgretolato e tirò fuori dalla borsa un pacchetto di pasticcini.
«Un picnic, Imogen? Sul serio?»
«Dobbiamo mangiare, cara. Vieni, prendine uno».
«No, non posso». Olivia si sentiva come se avesse tracannato una caraffa di vino acidulo, tanto le gorgogliava lo stomaco per la tensione. Si sedette vicino a Imogen e guardò Edward. Era strano essere così vicini e non potergli parlare. Ingannarlo la faceva stare male. «Perché pensi che siano venuti qui?», chiese a Imogen.
«Non lo so. Tom mi ha detto soltanto che sarebbe partito, e ha aggiunto che era meglio per me che non sapessi nulla di più».
«Pensi che abbia a che fare con l’amante di Clara?».
Lei scosse la testa. «È un’idea che era venuta anche a me, ma non sono nemmeno sicura che Tom sappia che Clara aveva una relazione. Sono stata tentata di dirglielo, ma non voglio tradire Clara se non è necessario. Lo scandalo…». Si accigliò. «Se Edward tiene segreta la cosa significa che non le attribuisce molta importanza».
«Se la tiene segreta», ribatté Olivia. Mentre parlava le venne in mente un’altra possibilità. «Non sappiamo ancora di cosa stessero parlando lui e Clara, non con sicurezza. Magari non immagina neppure che Clara avesse una relazione. Dovrei chiederglielo, averne la certezza». Ora che sapeva che non era Edward il misterioso amante, non aveva paura di farlo. «Vado a parlargli adesso?». E così dicendo si tirò su quasi del tutto.
Imogen la trattenne. «Vediamo prima chi stanno aspettando. Ci vuole pazienza, cara. Parlerai dopo con Edward. Sono d’accordo che sia la cosa migliore. Quest’uomo misterioso potrebbe essere importante».
«Non una falsa posta, quindi?».
Imogen sospirò. «Forse no».
Tacquero.
Edward disse qualcosa a Tom. Lui scosse la testa con aria ironica.
Olivia sospirò. Quanto le sarebbe piaciuto poter sentire quello che aveva detto!
«Dove vai con quel bambino mezzo morto?», gridò Sana dall’altra parte della strada. I suoi piccoli stavano in terra vicino a lei e giocavano con i sassolini. Uno aveva il muco che gli scendeva in bocca. Sana indicò la casa di Nailah. «Hai dimenticato che il tuo buco è laggiù?»
«Sto andando al porto. Mia madre ha portato là Cleo».
«Quanto è buona e premurosa tua madre in questi giorni. Chi l’avrebbe mai detto?»
«Certamente non tu, lo so».
«Ah, in effetti è vero». Sana fischiò e diede un calcio al suo bambino che aveva tentato di infilarsi un sassolino in bocca. «In ogni caso l’ho vista insieme a Cleo mentre tornava a casa vostra. E c’era anche tuo zio».
«Mio zio?».
Gli occhi di Sana sorrisero dietro il velo. «Sembri sorpresa. Ci sono altre sorprese che ti aspettano al tuo ritorno».
«Che vuoi dire?»
«Che begli amici che ti ritrovi in questi giorni, signorina-quanto-me-la-tiro». Sana si sventolò con la mano ricoperta di volute impresse con l’henné. Era evidente che si stava divertendo un mondo e voleva godersi il momento. «Che bei soldati».
Il cuore di Nailah sobbalzò. «Soldati?».
Sana fece una risata amara. «Mi fai schifo, lo sai. Prendi così alla leggera la tua onorabilità. Benché non mi dovrei sorprendere: le mele non cascano mai troppo lontano dall’albero, o almeno così si dice».
Nailah spostò sull’altro fianco il peso del bambino. «Perché mi odi così tanto?»
«Non ti odio». Sana alzò le spalle. «Non ti credo. Perché non c’è da fidarsi di te. Vieni, andiamo a casa. Risparmia a tuo zio la fatica di venirti a prendere».
Quando la giovane donna comparve in fondo alla strada, a Olivia venne la pelle d’oca. Era avvolta in un abito impolverato e teneva un bambino in braccio, come una piccina spaventata che si porta dietro un orsacchiotto troppo grosso. Anche il bambino sembrava troppo alto per essere portato in braccio, doveva avere almeno quattro, cinque anni. C’era qualcosa che non andava anche nel modo in cui ciondolava tra le braccia della ragazza, la testa storta tutta reclinata.
Edward e Tom si alzarono entrambi mentre la ragazza si avvicinava, le mani dietro la schiena, in una posa da ufficiali. Una donna velata li guardava da dietro l’angolo del palazzo più lontano.
«Voglio andare a dirgli di lasciarla in pace», disse Olivia. «Non mi sembra nelle condizioni di affrontare un interrogatorio».
«Non abboccare», disse Imogen. «Sarà certamente più forte di quanto sembri. È Nailah. L’ho vista una volta a casa di Amélie; riconosco il suo viso».
Nailah vacillò alla vista degli ufficiali che la stavano aspettando, nonostante Sana la sorreggesse. Perché erano venuti, e così presto per giunta? Perché c’era anche Jahi? Nailah si era già resa conto che l’idea di fuggire non era che una fantasia, ma aveva sperato con tutte le sue forze di essere smentita.
Visto che non aveva modo di fuggire, tirò dritto verso casa sua. Il suo passo era lento e appesantito. Guardò in alto, alla finestra della stanza della sua famiglia, immaginando gli occhi di Jahi che la fissavano mentre si grattava la barba. Il suo dente storto che luccicava.
«Buongiorno», disse il capitano Bertram. «As-salaam».
«As-salaam», gli fece eco, spostando lo sguardo dall’uno all’altro.
«Come sta Babu?», chiese il capitano. «Sei sicura che non sarebbe meglio se rimanesse in clinica?». Lo osservò. «Spero che tu non sia preoccupata per quanto costano le cure».
«No, non l’ho fatto uscire dalla clinica per questo motivo».
Il capitano sospirò, poi riposò gli occhi su Nailah. «Io e il colonnello Carter dobbiamo farti qualche domanda».
Le braccia di Nailah non ce la facevano più a sostenere il peso di Babu addormentato. «Non so nulla che possa esservi di aiuto».
«E come sai cosa può esserci di aiuto?», chiese il colonnello.
«Non lo so». Lanciò un’occhiata alla finestra. «Non so proprio nulla».
Il colonnello seguì il suo sguardo. «Hai paura di qualcosa, Nailah?»
«No».
«Sei sicura?», le chiese. «Ci hai nascosto la tua vera identità».
Lei deglutì. «Da queste parti impari presto a farti gli affari tuoi».
Il colonnello inarcò il sopracciglio.
«Per favore», disse Nailah, «mi lasciate in pace? Potrei avere un sacco di guai per aver parlato con voi. Da queste parti noi donne non possiamo rivolgere la parola agli stranieri».
«Lo sappiamo», disse il capitano gentilmente, «e non vogliamo crearti problemi. Però, Nailah, pensiamo che tu abbia delle informazioni che potrebbero interessarci».
«Che informazioni?».
Il capitano esitò, valutandola con gli occhi. Poi disse: «Cosa sai della morte di tua zia?»
«È stato un incidente», disse lei. «Solo un incidente. Nient’altro, ve lo giuro».
«Non ho mica insinuato che fosse qualcos’altro». Il capitano aggrottò la fronte, sul suo volto deciso calò un’ombra di perplessità. Nailah sentì il sudore chiazzarle le ascelle.
Il colonnello disse: «Nailah, perché pensi che lui abbia dei dubbi?»
«Non lo so».
«Ne sei sicura?», chiese il colonnello. «Rifletti, forse hai dimenticato qualcosa».
«No». Nailah guardò di nuovo la finestra. «Davvero».
Per un minuto o giù di lì, il capitano e il colonnello le fecero delle domande sui parenti, la madre, il padre, il marito di Tabia. Erano particolarmente interessati al marito di Tabia: per quale ragione se n’era andato, e dov’era? Non sapendo se fosse la risposta giusta o sbagliata – forse un po’ di tutte e due – Nailah disse che l’ultima volta che ne aveva sentito parlare viveva nel villaggio di Hasr.
«È ancora lì», chiese il colonnello, «questo signor Mahmood?»
«Penso di sì». Nailah dette un’altra occhiata alla finestra, distratta dalla presenza invisibile di Jahi. «Devo andare, ora», concluse indietreggiando sui gradini dell’ingresso. «Devo mettere giù mio cugino».
«Prima che tu sparisca», disse il capitano, «per favore, pensa seriamente se hai qualche altra cosa da dirci».
«No, non ho nulla da dirvi», ribadì, anche se la verità non sarebbe potuta essere più diversa.
Forse, se Jahi non fosse stato di sopra, avrebbe potuto anche trovare il coraggio di svelarla.
O almeno le piaceva pensarlo.
Cercò a tentoni la maniglia della porta. Il capitano, e anche il colonnello, la fissarono severamente. Babu gemette, tirò su con il naso, la testa appoggiata sulla clavicola di lei. «Ora devo andare davvero», disse, e prima che potessero fermarla aprì la porta e scappò dentro.
Si appoggiò contro la parete scrostata dell’ingresso, si sentiva soffocare, ascoltando il sospiro esasperato del capitano. Il colonnello disse che potevano anche procedere. «Rintracceremo questo Mahmood, vedremo se sa qualcosa. Prima sarebbe meglio andare a Lixori per scoprire cosa stanno combinando Sheldon e Wilkins con quel contadino, che cosa ha visto. Dovremo cavalcare veloci come il vento per avere qualche speranza di intercettarli là».
«Meglio arrestare Nailah, prima», disse il capitano. «Sta certamente mentendo. Dobbiamo farle altre domande».
Ci fu una pausa. Nailah trattenne il respiro.
«No», disse il colonnello alla fine. «Non ancora. Le faremmo un grave danno. E mi sembra che abbia sofferto abbastanza». Un altro silenzio. Nailah si immaginò il capitano che scuoteva la testa. «Andiamo», disse il colonnello, «dobbiamo muoverci».
«Voglio vedere Olly prima di andare», disse il capitano. «Deve ficcarsi bene in testa che è meglio che stia in casa e tenga gli occhi aperti. Continua ad andare in giro in modo sconsiderato».
«Non avrai intenzione di rivelarle cosa è successo? Eravamo d’accordo, ieri sera».
«Penso che abbia il diritto di sapere».
«Bertram, non ne verrà fuori nulla di buono».
Il capitano non rispose.
«Lascia stare», disse il colonnello, ma non c’era astio nella sua voce. «E lascia stare anche lei. È sposata, amico mio, non c’è nulla che…».
«Per favore», disse il capitano, «possiamo evitare l’argomento?». Rumore di passi. Quando il capitano riprese a parlare, la sua voce era più lontana. «Dio, che faccia aveva Nailah quando ho accennato alla morte di Tabia…».
Nailah chiuse gli occhi, aspettò di sentire lo scalpiccio dei cavalli e poi espirò, una nuvola d’aria calda sul suo volto sudato.
Teneva stretto Babu mentre saliva le scale verso la stanza della sua famiglia. Jahi guardava cupo fuori dalla finestra. Isa, che stava cullando Cleo all’angolo opposto, scosse la testa scoraggiata.
«Che volevano?», chiese Jahi.
«Non l’ho capito», disse Nailah senza convinzione.
Jahi aprì la bocca. Un colpo alla porta lo bloccò prima che potesse parlare. Si avvicinò alla finestra, guardò giù. Spalancò gli occhi incredulo. D’impulso Nailah andò al suo fianco e si affacciò anche lei. Le tremarono le ginocchia quando vide madame Sheldon, i capelli in disordine, la gonna strappata. E quella con lei non era forse l’insopportabile sorella di Benjamin Pasha?
«Nailah», disse Jahi lentamente, «che ci fanno qui?»
«Non lo so».
«Spero proprio che tu stia dicendo la verità».
Prima che Nailah potesse giurarlo, Babu si svegliò e le vomitò addosso un miscuglio di medicine e poltiglia. Nello stesso momento fece una scarica di diarrea.
«Oh, madre». Isa in un attimo le si avvicinò e prese ad asciugarli entrambi con uno straccio.
«Quel bambino deve stare in clinica», disse Jahi. «In nome di Dio, come ti è venuto in mente di riportarlo a casa?»
«Pensavo che fosse guarito», rispose Nailah. Guardò Babu: era di nuovo privo di sensi ma faceva strani gemiti, sotto le palpebre semichiuse si vedeva il bianco degli occhi. Perché l’aveva fatto uscire dalla clinica, in effetti? Le infermiere le avevano detto che era una scelta folle. Tabia le avrebbe ascoltate.
Quanto si sarebbe arrabbiata se avesse potuto vedere il bambino e tutti loro.
«Ti consiglio di sbarazzarti delle tue visitatrici», disse Jahi, «e poi di riportare Babu da chi può aiutarlo».
Si sentì un altro colpo alla porta.
«Va’», ordinò Jahi. «Chiederò a Sana di badare a Cleo fino a che non tornerai».
«Diciamo che la terrà in ostaggio, piuttosto», disse Isa. «Così sarai sicuro che Nailah non fuggirà».
Jahi non disse nulla.
«Non voglio andare da Sana», disse Cleo a bassa voce. «Mi dà i pizzichi».
«Non ci andrai da sola», disse Isa e coraggiosamente provò a sorridere. «Non ti abbandonerò».
Ancora altri colpi sulla porta.
Nailah esaminò il viso della madre, sperando con tutte le sue forze di leggervi una promessa, una speranza che si potesse fare qualcosa per andare via, tutti, subito. Ma Isa ricambiò il suo sguardo, impotente. Che cosa possiamo fare?