Capitolo sette

Le basse note della chiamata alla preghiera del muezzin risuonavano per le strade strette del vecchio cuore ottomano di Alessandria, il quartiere turco. Entravano nei sogni premonitori di Nailah fra gli alberi di jacaranda, trascinandola lentamente verso il risveglio. Aprì gli occhi nella luce acquosa dell’alba, contemplando la camera polverosa e spoglia, e si ricordò all’improvviso che ora era lì che viveva. Sembrava perfino più spoglia in confronto alla bellezza del mondo dei sogni che aveva appena lasciato.

Spostò il peso del corpo sul materasso di paglia. Le doleva l’anca nel punto in cui aveva sfregato contro il pavimento tutta la notte. La sua cuginetta di dieci anni, Cleo, era stesa accanto a lei, dormiva ancora. Aveva la mano posata sul braccio di Nailah, nella stessa posizione in cui si era addormentata. Babu, di tre anni, era rannicchiato fra di loro, con il sedere incastrato sulla pancia di Cleo, la testa infilata sotto il petto di Nailah. Nell’ultimo mese erano diventati come tre pezzi di un puzzle che combaciavano alla perfezione, lì nella loro baracca.

Una porta sbatté. E poi un’altra. Rumore di passi lungo le scale. Gli uomini che vivevano in affitto nelle loro abitazioni a schiera andavano alla moschea. I saluti che si sussurravano a vicenda, «Sabah el-kheir», salivano in un soffio verso l’alto. Le assi del pavimento vibravano mentre uscivano uno dopo l’altro. Nailah aspettò che andassero via. Con tutti gli uomini finalmente fuori dai giochi, sgusciò via dall’abbraccio dei suoi cugini, muovendosi con attenzione per non svegliarli. Prese il secchio della pipì della notte e scese giù in cortile per svuotarlo nella latrina. Trattenne il respiro, come faceva sempre, e si accovacciò sul buco nel terreno, la camicia da notte tenuta alta sopra la fetide pozzanghere ai suoi piedi. I suoi occhi si inumidivano per il tanfo degli escrementi lasciati dagli uomini. Cercò di far finta di non vedere, di cancellare dalla mente quel posto, quell’umiliante luridume. Si affrettò a finire, scappò fuori e corse su per le scale a vestirsi.

Era sporca di sudore, avrebbe voluto farsi un bagno, ma poiché in casa non c’era, si lavò con un secchio d’acqua e un asciugamano. Si strofinò forte forte stringendo i denti dal freddo, l’acqua era gelata. Con il respiro regolare dei bambini nelle orecchie, il suo pensiero carico di nostalgia volò come sempre alla sua vecchia vita, prima della morte della madre. Quando lavorava come cameriera per l’anglo-egiziano Benjamin Pasha e sua moglie, Amélie, vicino a Montazah nella penisola di Aboukir. Sospirò ricordando le mattine piene di sole, quando faceva colazione china su vassoi di frutta con le altre cameriere, il piacevole lavoro della settimana, gli eleganti vestiti di Amélie di cui prendersi cura, e poi i suoi vari compiti: farle i capelli, condividere le sue preoccupazioni su chi dovesse sedere accanto a chi a cena. E le domeniche passate nella capanna di zia Tabia, distante meno di dieci minuti a piedi, a cucinare, a chiacchierare e a giocare con i piccoli. Nailah chiuse gli occhi e li strinse forte. Le faceva troppo male pensare a Tabia. Come succedeva per tutto il resto, stava diventando sempre più difficile ricordare: la sua vita di allora, la vecchia versione di se stessa. Quella che non era mai affamata, che non era mai nervosa ma che aveva sempre le orecchie tese, attente al suono di quella voce, la voce di lei… No.

Nailah aprì gli occhi di scatto.

Si guardò intorno: il pavimento pulito, il tavolo storto, e dall’unica finestra sporca il sole che sorgeva. Non torturarti. Questa è la tua vita, ora. Con decisione, prese la spazzola e andò allo specchio macchiato.

Mentre si faceva lo chignon avvolgendo a spirale i capelli unti, fissò i suoi occhi neri. Girò la testa, sistemando qui una forcina, là una ciocca in disordine. Era una delle poche a non indossare il foulard nelle strette strade del quartiere musulmano. La gran parte delle donne indossava il hijab completo, anche per protestare contro il regolamento britannico che lo bandiva. Ma a casa dei Pasha non faceva parte della divisa. E in precedenza nessuno aveva mai chiesto a Nailah di metterselo: sua madre Isa, che si guadagnava da vivere facendo la cantante e la ballerina, non era tipo da pensare a certe seccature, e il padre era deceduto prima della sua nascita. Isa giurava e spergiurava che lui l’avesse sposata prima di morire. Poteva andare avanti per ore a parlare della cerimonia: i colleghi attori che erano venuti a festeggiarla, l’acconciatura dei capelli… ma comunque le voci giravano. (Sposare Isa? E perché prendersi la briga? Chiunque poteva averla per quattro soldi quando andava in tournée. Che esempio dava alla figlia! Oh, e pensare che la lasciava tutta sola, per settimane e settimane. Questo mese, si sa, sta intrattenendo l’esercito a Luxor e non si limita a cantare, c’è da scommetterci. Che vergogna, che spudorata).

«Non dar retta a quello che dice la gente», le sussurrava Isa nelle rare occasioni in cui riusciva a stare lontana dalle quinte e a tornare a casa. «Studia tanto, e poi scappa. Ci meritiamo di meglio, amore mio. Avresti dovuto vederli, mi hanno chiesto il bis con un entusiasmo…».

Nailah un tempo credeva di poter essere meglio di così. Ma nonostante avesse sgobbato a scuola per perfezionare l’inglese e il francese, nonostante si fosse appostata sulle scale dei grandi salotti della città offrendosi di spazzare e pulire – qualsiasi cosa pur di fare apprendistato e imparare dalle domestiche che lavoravano là, per diventare abbastanza brava da essere assunta da una donna come Amélie Pasha – adesso era tornata al punto di partenza: nella stessa periferia da cui voleva disperatamente scappare. A qualsiasi costo. Solo che questa volta aveva trascinato nella miseria anche i cugini.

Fissò le loro sagome dormienti; le labbra aperte, le guance rosse della notte. Così vulnerabili. Non avrebbe voluto riportarli lì da Montazah, dopo la morte della loro madre, la cara zia Tabia, cinque settimane prima, ma non sapeva dove altro andare. Mi dispiace, aveva sussurrato. Si piegò per baciare la loro pelle olivastra. Quando le sue labbra toccarono la fronte di Babu, si corrucciò. Aveva di nuovo la febbre. Gli canticchiò una filastrocca con tenerezza, sperando che le parole potessero infilarsi nel suo sonno come la chiamata alla preghiera aveva fatto con lei, e che riuscisse a comprenderle nonostante fosse muto. Il piccolo si mosse e si girò, tirando su le braccia troppo magre attorno alla testa stranamente proporzionata. Nailah gli passò la mano sui capelli e sulle linee del cranio deformato. Desiderò con tutto il cuore che la febbre allentasse la morsa bruciante sulla sua pelle. Sentì lo spasmo di dolore che la afferrava ogni volta che pensava che quel piccolo, con l’animo tanto colmo di sorrisi e baci e dolcezza, doveva soffrire così tanto. Dio si era sicuramente girato dall’altra parte il giorno in cui era nato.

«Sembri triste».

Nailah sussultò quando sentì la voce acuta e infantile di Cleo. La guardò mentre si metteva a sedere a gambe incrociate. I capelli setosi le ricadevano sciolti sulle spalle. Il suo viso era delicato e paffuto, gli occhi troppo grandi del colore del caffè denso. Tale e quale a Tabia. Sbadigliando schiuse la boccuccia, riluttante, come se combattesse l’istinto impellente che la spingeva a respirare.

Nailah disse: «Non devi preoccuparti per me, habibi», poi trasalì. Habibi, tesoro: Tabia chiamava sempre tutti loro in questo modo. All’improvviso era là, tra loro: un’ombra invisibile nell’aria. Dal modo in cui Cleo aveva piegato la testa, sembrava che l’avesse sentita anche lei.

Nailah perlustrò la stanza cercando una qualche distrazione, per lei come per Cleo.

I suoi occhi si fermarono sulla ciotola della frutta. «Mi aiuti per la colazione?». La preparavano ogni mattina per gli uomini della casa. Lavavano anche le lenzuola. In cambio il proprietario gli abbassava l’affitto di un paio di penny. A quanto pareva a Cleo piaceva sgranare i semi del melograno e mescolarli con lo yogurt, i denti radi premuti sul labbro nello sforzo di non sporcare. Nailah andò verso la ciotola, lanciò uno dei frutti alla cugina.

Cleo lo afferrò e quasi sorrise senza muovere le graziose guance. Poi si mise al lavoro.

Quando gli uomini tornarono, Babu era sveglio in braccio a Nailah e Cleo aveva preparato da mangiare: yogurt di capra, frutta, noci e pane del giorno precedente. Nailah e i bambini guardarono gli uomini che si lasciavano cadere sulla panca. Nailah sentiva i morsi della fame. Ma non si mosse per mangiare. Rimasero immobili, tutti e tre. Aspettavano in silenzio di sfamarsi con quello che avrebbero lasciato gli uomini.

Il pasto arrivò al termine, la stanza fu pulita, il primo bucato del giorno venne lavato e steso nel cortile: solo allora Nailah disse che sarebbe dovuta andare al mercato. Pensò che avrebbe potuto anche farsi un bagno; il lavoro della mattina aveva aggiunto un altro strato di sudore sulla sua pelle sporca. Moriva dalla voglia di un bagno vero e proprio. «Ci pensi tu a Babu?», chiese a Cleo. Toccò con aria dubbiosa la fronte del bambino. «È caldo, non voglio che peggiori. Meglio non farlo uscire. Va bene?».

Cleo annuì. «Lo tenevo sempre d’occhio per umi, ricordi? L’ho guardato per tutta quella notte…».

«Va bene», disse Nailah, interrompendola. Era stata più brusca di quanto avesse voluto, ma non aveva intenzione di parlare di quella notte. Diede un colpetto sulla spalla di Cleo per farsi perdonare. «Grazie».

 

Il vapore riempiva le stanze cavernose dei bagni pubblici, il suono delle chiacchiere e delle risate femminili riecheggiava sulle pareti piastrellate, rimbalzando sulle superfici scintillanti inumidite dalla condensa. Nailah porse la sua moneta all’addetta e le mormorò un grazie mentre lei le passava il sapone e la spazzola. Per la seconda volta quel giorno si svestì ed entrò rapidamente nell’acqua calda, cercando di nascondere il fisico magro. Ormai era diventata pelle e ossa. Cercava di non guardare i corpi esposti senza pudore attorno a lei, la noncuranza con cui le matrone sdentate se ne stavano sdraiate, le braccia grassocce allungate dietro la testa, rivelando folti ciuffi di peli bagnati. Stringendo il sapone nella mano screpolata e ruvida per il lavoro, Nailah cominciò a lavarsi per la prima volta dopo una settimana, sciolse i capelli, si versò l’acqua sulla testa e si strofinò fino a che non fu coperta di schiuma e non sentì altro che il sapore di disinfettante al limone.

Le voci delle altre donne le arrivavano attutite: conversazioni sulla nascita di figlie femmine quando invece si aspettavano un maschio, aborti spontanei e matrimoni. La polizia che quella mattina girava per le case alla ricerca di una donna britannica sparita.

Nailah sollevò di scatto la testa. «Che è successo?», chiese. «Chi stanno cercando?»

«Ah», rispose Sana, una donna che doveva essere sulla ventina come Nailah, o poco più, ma che era sposata con un pescatore e aveva già due mocciosi frignanti. «Oggi ci fa l’onore di rivolgerci la parola, amiche mie. Questa mattina il Signore è buono con noi, dobbiamo ringraziarlo».

Nailah non reagì al suo sarcasmo; era abituata ormai alla lingua biforcuta di Sana, e poi non era il momento di perdersi in schermaglie. Ripeté la domanda: «Chi sta cercando la polizia?»

«Una certa signora Gray», rispose Sana, pronunciando quel nome con un tono beffardo che esprimeva tutto il suo disprezzo per la ricca signora inglese. «Perché me lo chiedi?», sbottò. «La conosci, signorina con la puzza sotto il naso?».

Nailah naturalmente conosceva la signora Gray, ma non aveva intenzione di rivelarlo a Sana. «Che cosa credono le sia successo?»

«Non lo sanno», rispose Sana. «È scomparsa da ieri. La polizia la sta cercando. E anche l’esercito. Questa mattina ho visto un poliziotto fuori dalla moschea. Stava parlando a certi uomini».

«Di che cosa parlavano?».

Sana alzò le spalle. «Di qualunque cosa si tratti, sono degli sciocchi. Non dovrebbero parlare con l’ufficiale». Sana strinse i suoi occhi neri. «È come finire tra la cipolla e la sua buccia, tutto quello che ti ritrovi in mano è il cattivo odore. Vedi, chiunque verrà coinvolto in questa storia finirà nella merda». Rise amaramente. «Gli inglesi… prima ci lasciano a marcire, poi vengono strisciando a chiederci una mano quando hanno bisogno del nostro aiuto. Patetici. Non la troveranno mai, lo sai. Sono degli incapaci, quasi tutti».

«Io non ne sono così sicura», la contraddisse un’altra donna. «Anche io ho visto quel militare, e aveva l’aria di uno che sapeva quello che faceva. Non vorrei averci nulla a che fare. Non mi piace quando vengono in massa dalle nostre parti. Devono essere convinti che sia coinvolto qualcuno del quartiere».

«Perché dovrebbero pensarlo?», chiese Nailah.

«Perché? Stupida, pensano sempre che sia colpa nostra, sempre», rispose Sana. «Qualcosa va storto? E loro cosa fanno? Accusano noi locali. Guarda cosa è successo al quel pover’uomo, dopo che la tua povera zia Tabia è morta».

Nailah trasalì al pensiero del contadino beduino che era stato arrestato per essersi fatto scappare il cavallo. L’avevano punito con venti frustate perché la bestia aveva travolto Tabia. E dopo era morto in prigione.

Sana sorrise di nuovo. «Ti sei scordata di come funzionano le cose qui. Questo è il tuo problema, te ne sei stata chiusa nel tuo bozzolo in quel palazzo di infedeli ad Aboukir. Devi guardare in faccia la realtà. Sei tornata nei bassifondi, ora». Sana incrociò le braccia sul seno cadente e guardò Nailah con aria di sfida.

Lei si sforzò di sorridere. «Come hai detto tu, Dio è buono».

«Lo spero», aggiunse un’altra donna, «e spero che trovino quella povera signora. Si dice che abbia cinque figli».

«Io ho sentito dire che ne ha sei».

Sono due, Nailah le corresse tra sé e sé.

«Non la troveranno», disse Sana. «Una donna bianca, sola, scomparsa. Sarà già morta, datemi retta».