Capitolo tre
«Ho bisogno che tu vada a Montazah».
Edward si girò sentendo una voce alle sue spalle. Era Jeremy, incorniciato dalle porte di legno delle stalle della caserma, le mani nelle tasche del suo costoso abito a tre pezzi di sartoria. Aveva un’espressione preoccupata. I raggi dorati di maggio, che filtravano attraverso le lastre del soffitto, illuminavano la sua pelle livida e le occhiaie profonde sotto gli occhi grigi. La sera prima c’era stato un ballo a casa del fratello di Imogen, il famoso albergatore Benjamin Pasha. Benjamin, come Alistair e Jeremy, era uno degli uomini più ricchi di Alessandria e aveva organizzato dei festeggiamenti sfarzosi per il settantaduesimo compleanno della Regina (Tanti auguri, cara vecchia Vittoria). Se dopo la festa Jeremy era andato a riposare, certamente non aveva dormito a lungo.
«Puoi andare?», chiese Jeremy. «Adesso?»
«Buongiorno», disse Edward, tornando a bardare il suo stallone. «Credo che sia questo il modo più consueto per salutare una persona a cui si chiede un favore».
«Sì, naturalmente». Jeremy fece un sorriso che riuscì a illuminare solo parzialmente i suoi occhi iniettati di sangue. «Buongiorno».
Edward sistemò il sottopancia.
Jeremy disse: «Allora ci vai a Montazah?».
Edward sospirò. Stava andando a prendere Olly per una lezione e non aveva nessuna intenzione di cambiare i suoi programmi per la mattinata, certamente non per tornare un’altra volta sulla costa. «Cosa c’è a Montazah?», chiese. «A parte alcune teste indolenzite dalla sbronza all’hotel di Benjamin e Amélie Pasha?»
«Una mia dipendente», disse Jeremy. «Si chiama Tabia. È davvero orribile. È stata uccisa. Sembra che il cavallo di un contadino l’abbia travolta. Era quasi l’alba».
Edward alzò gli occhi al cielo. «Gesù».
«Non ha marito e lascia due bambini. L’uomo che l’ha calpestata con il suo cavallo si è subito consegnato ai Pasha. Benjamin è arrivato e mi ha detto…». Jeremy si interruppe per riprendere fiato. «Voglio essere sicuro che i figli stiano bene, ma sai che non posso aiutarli pubblicamente. Per evitare accuse di favoritismo, sai. Mi aiuterai?».
Edward esitò prima di rispondere, si sentiva a disagio. Non era la richiesta in sé a seccarlo. Sapeva che a Jeremy piaceva prendersi cura dei suoi dipendenti più poveri, di nascosto, naturalmente, per evitare che Alistair lo venisse a sapere. Edward sperava che Jeremy ogni tanto pensasse anche al benessere della sua famiglia – specialmente a quello di Clara – ma nel corso degli anni aveva speso per suo conto un sacco di soldi, per coprire le spese delle cure mediche a seguito di incidenti in azienda. In più, c’era qualcosa negli occhi di Jeremy quella mattina che lo insospettiva. L’ombra di un segreto.
«Per favore, Bertram, non hanno nessuno al mondo».
Edward si passò la mano sul viso. «Dove posso trovarli?».
Jeremy si rilassò e gli diede le indicazioni per raggiungerli.
Edward annuì, rassegnato a non vedere Olly per altre due ore almeno.
«Assicurati che abbiano tutto quello di cui hanno bisogno», disse Jeremy. «Sarà sufficiente tirar fuori un po’ di soldi».
«Sì, sì». Edward conosceva la procedura. «Porterò Fadil con me, i bambini potrebbero spaventarsi vedendo arrivare un militare inglese».
«Grazie, Bertram. E se puoi, tienilo per te».
«Lo faccio sempre».
«Questa volta è più importante che mai».
Edward si corrucciò. «Perché?».
Jeremy gli lanciò uno sguardo imbarazzato. «Non posso permettere che si venga a sapere», disse e poi si girò per andarsene.
Edward lo guardò andar via. A questo punto era sicuro che ci fosse qualcosa che non andava. Lo richiamò. «Gray, Gray, aspetta…».
Ma Jeremy era già andato via.
Edward e Fadil dovettero cercare parecchio prima di trovare la baracca di Tabia. Era una piccola struttura diroccata, che non si vedeva né dalla strada né dalla spiaggia, nascosta com’era tra le infinite dune alle spalle della baia di Montazah. C’era un gran silenzio tutt’intorno, i banchi di sabbia erano deserti. Un recinto sbilenco proteggeva un pollaio fuori dalla baracca di fango. Sulla destra c’erano dei giocattoli: una palla rossa sbiadita, un camioncino arrugginito scolorito. Una ruota era rotta.
La giornata era serena ma lontano, da qualche parte sul mare, rombavano i tuoni.
«Come i cannoni della tua nave», disse Fadil.
Edward annuì al ricordo.
Si avvicinarono alla baracca.
«C’è qualcuno?», disse Edward in arabo. La sua voce riecheggiò e si perse.
Silenzio.
«Buongiorno», urlò di nuovo Edward.
Questa volta ci fu movimento all’interno. Edward fece un passo avanti, portando istintivamente la mano alla pistola. Fadil fece lo stesso ma poi uscì una ragazza e Edward si rilassò.
Aveva vent’anni o giù di lì, con il colorito scuro dei locali. Aveva i capelli neri legati sulla nuca. Indossava la divisa da cameriera: vestito color blu scuro, grembiule bianco. Edward notò che cercava di evitare il suo sguardo, lanciava occhiate veloci da una parte all’altra, soffermandosi con attenzione su ogni cosa, ma non su di lui. Stringeva a sé un bambino di tre o forse quattro anni. La sua testa aveva una sagoma strana e gli ciondolava sul petto – non riusciva a controllarla.
Una ragazzina molto più giovane si affacciò dietro la gonna della cameriera, sbirciando Edward e Fadil. Era una bambina sorprendentemente carina.
«Vai dentro, Cleo», le disse la cameriera.
La ragazzina non si mosse.
Edward chiese alla giovane come si chiamasse. Nailah, gli rispose. Le chiese che rapporto avesse con i bambini e lei rispose che era solo la loro bambinaia e che stava semplicemente dando una mano.
«Ho saputo della loro madre, sono molto dispiaciuto», disse Edward.
Nailah si guardò la punta dei piedi e spostò il peso del corpo, impacciata. Il suo viso era una maschera, nessun segno di commozione.
Edward pensò: Forse non conosceva bene Tabia. E poi: E allora che ci fa qui?
Era ben consapevole dello sguardo indagatore con cui Fadil scrutava la ragazza, come se anche lui stesse cercando di capirci qualcosa.
Un soffio di vento sulla sabbia. Le galline chiocciarono.
Edward rivelò a Nailah la ragione per cui erano là. Le spiegò che voleva aiutarla in ogni modo possibile. Le chiese se avesse bisogno di qualcosa. No? Proprio nulla? «E cosa mi dici del bambino?», chiese indicando il piccolo che teneva in braccio.
«Babu?», chiese lei.
«Sì, sembra che stia molto male».
«Sì, sta male», disse, «ma sta male da sempre. È tutto…?». Cominciò ad arretrare.
«Aspetta». Edward tirò fuori un taccuino e vi scarabocchiò sopra un indirizzo. Percepì che Nailah non voleva che si avvicinasse troppo, quindi strappò il foglietto e lo posò a terra, piazzandoci sopra una pietra. «Ti ho scritto i contatti di un buon dottore», disse. «Porta Babu da lui. Socrates ti potrà aiutare. Va’ da lui, non farti problemi».
Nailah lo ringraziò. «Dovrei davvero rientrare».
«Sei sicura di non aver bisogno d’altro?»
«Sicura», disse Nailah. Si voltò per far capire che voleva mettere fine alla conversazione.
Edward però sentiva come uno strano impulso che gli imponeva di fermarsi. Ma poiché non aveva una buona ragione per farlo, annuì verso Fadil. Quando diressero i cavalli indietro sulla sabbia verso la strada, si girò a guardare la baracca. Ma Nailah e i bambini erano già spariti all’interno. Sapeva però che li stavano guardando da dietro la porta.
«Che aveva?», chiese a Fadil.
«Paura», rispose lui. «Aveva paura».
«Di cosa? Di noi?»
«Non lo so, signore». Fadil fece una pausa. «Non credo solo di noi». Si grattò la testa calva poi guardò in fondo alla strada, corrucciato. «È quella…?».
Edward si girò, seguendo la direzione del suo sguardo. C’era una sagoma a duecento metri circa di distanza. Curva sui banchi di sabbia, guardava verso il mare. «Che cosa…?». Era ancora vestita con lo stesso abito indossato per la festa dei coniugi Pasha. I capelli erano sciolti, in disordine e scompigliati dal vento che si stava alzando.
«Me ne devo andare, vero, signore?»
«Sì», disse Edward. «Sì. Meglio che vada a vedere se sta bene».
Mentre Fadil andava via al galoppo, lui si avvicinò a cavallo.
Lei alzò gli occhi. Aveva il viso pallido e chiazzato. Senza espressione. Non sembrava particolarmente sorpresa di incontrarlo. Anzi, aveva l’aria di una donna che non si sorprende più di fronte a nulla.
«Clara», disse. «Che ci fai qui?»
«Oh, Teddy», disse lei. Poi piegò la testa e la sua voce si incrinò. «E adesso cosa dovrei fare? Che cosa potrò mai fare?».
Olivia lo aspettò tutta la mattina, ma lui non arrivò. Neanche Clara era venuta a trovarla. Quando sellò Bea e andò a casa sua, venne a sapere che era rientrata da meno di un’ora e stava dormendo.
Non avendo niente da fare, tornò indietro al piccolo galoppo per evitare la pioggia. Si era alzato il vento, le nubi si addensavano all’orizzonte. Un bel guaio per il comitato che stava organizzando il party dello Sporting Club di quella sera: l’ennesimo evento nell’ambito delle celebrazioni per il compleanno della regina. Dopo il ballo nella residenza dei Pasha, Olivia era veramente stanca. Avrebbe rinunciato senza esitazioni se non fosse stato per la prospettiva di incontrare Edward e anche Clara. Voleva parlarle. Era stata di umore teso la sera prima, molto distratta, nessuna traccia del suo solito sorriso. Olivia aveva cercato più di una volta di coinvolgerla nella conversazione, l’aveva praticamente rincorsa per tutta la sala da ballo, sfruttando qualsiasi pretesto per parlarle. Ma Clara le rispondeva con incomprensibili bisbigli o poco più. Lanciava in continuazione occhiate in giro nella sala, solo per fissarsi di tanto in tanto su un qualche punto in particolare. Ma cosa – o chi – fissava? Olivia non era riuscita a capirlo. Il fatto che anche Alistair osservasse Clara con la coda dell’occhio le aveva impedito di prendere la sorella per mano seduta stante e costringerla finalmente ad aprirsi e a confidarle cosa c’era che non andava.
Si corrucciò. Era preoccupata, sentiva come un peso sul petto. Si fermò sul vialetto e smontò da cavallo. Scivolò giù sulla ghiaia, condusse dentro Bea.
Lo stallone di Edward non era nella stalla. Sentì un tonfo al cuore. Aveva sperato così tanto di trovarlo in casa. Rimase ferma per un momento, la fronte premuta contro la calda pelle della sella di Bea, assorbendo la delusione.
Un solo giorno senza vederlo ed ecco, era travolta dalla disperazione, un’ansiosa, vana disperazione. Sospirò esausta.
Che cosa stavano per fare, loro due? Che cosa potevano fare?
Quando rientrò in casa scoprì che Alistair, senza addurre alcuna ragione, aveva licenziato la sua cameriera personale. La povera ragazza aveva fatto le valigie e se n’era andata. Olivia non poteva fare nulla per aiutarla.
«Non riesco a crederci. Era la mia cameriera».
«La pagavi tu, Olivia? No, per essere precisi».
Una nuova donna sarebbe arrivata il giorno dopo: una londinese di nome Ada. Alistair affermò che aveva già lavorato presso un suo conoscente in Inghilterra e ora aveva bisogno di un lavoro in zona. Olivia prima di tutto gli chiese cosa ci fosse venuta a fare questa Ada in Egitto, ma lui non le rispose neppure. Poi si rifiutò di fornire spiegazioni su cosa avrebbe fatto da ora in avanti la cameriera di Olivia, rimasta senza lavoro. Non voleva essere infastidito da altre domande, aveva ben altri problemi per la testa.
«Cioè?», chiese Olivia. «Quali problemi?»
«Non ti riguarda».
Una domestica le riempì la vasca. Olivia si immerse e si lavò con la spugna, con movimenti rabbiosi. Sentì Edward rientrare (rumore di passi sulle mattonelle, la sua voce con l’accento del Nord; la porta che si apriva e si chiudeva). Olivia uscì dalla vasca e si vestì in tutta fretta ma non fece in tempo: i corsetti, le calze, i bottoni delle sottane e il vestito. Quando corse giù, lui era già andato via.
Quando arrivò allo Sporting Club per il party di quella sera insieme ad Alistair si sentiva agitata e impaziente, ed ancora arrabbiata per l’improvviso licenziamento della sua cameriera. Alistair si diresse verso il bar inserendosi nella conversazione in corso tra Jeremy, Tom e Benjamin Pasha, il cognato di Tom. Nessuno di loro sembrava particolarmente felice di vederlo. In particolare Tom e Benjamin non si preoccuparono di nascondere la loro espressione a dir poco accigliata. Ma loro non erano mai stati amici di Alistair. Forse, avendo alle spalle il patrimonio dei Pasha – Benjamin gestiva tutti quegli hotel, e Tom era sposato al fondo fiduciario di Imogen – non erano abbagliati dalla ricchezza di Alistair come tutti quanti ad Alessandria. Olivia osservò il tendone del club già stracolmo di gente, cercando di individuare Edward o Clara tra i vestiti di seta e i cappelli a cilindro, ma non vide né l’uno né l’altra. Sbuffò, accaldata. Il vento sempre più forte minacciava pioggia, il balcone era stato chiuso e c’era troppa gente stipata all’interno, sotto le ventole che giravano pigre sul soffitto.
Tamburellò con il piede fuori tempo rispetto alla musica del pianoforte. Cominciava a sentirsi ridicola, là in piedi da sola. Perlustrò di nuovo la sala cercando qualcuno con cui parlare. Pensò di rintracciare Imogen ma fu la cognata, Amélie Pasha, a incrociare il suo sguardo e a farle cenno di avvicinarsi. Olivia andò poco convinta. Clara poteva anche essere amica di Amélie ma, sebbene ogni tanto Olivia andasse a trovarla con la sorella – e fosse stata a molte delle feste dei Pasha – non aveva mai cercato quella donna di sua iniziativa. Era il suo contegno così frivolo… Non faceva che spettegolare su chi indossava cosa, in quale ristorante si dovesse andare a cena, chi non parlasse più con chi. Olivia non riusciva a capire come mai sua sorella le dedicasse tanto tempo. Ma forse Amélie avrebbe potuto dirle dov’era Clara.
E invece non lo sapeva. Era solamente preoccupata per l’improvvisa sparizione della sua cameriera personale, che si chiamava Nailah. Ne parlava senza sosta con il suo accento francese così marcato. «Se n’è andata questa mattina senza dire dove fosse diretta. È sparita», gesticolando come un’illusionista, «nel nulla, così…».
«Può prendere la mia», disse Olivia cercando un’altra volta in giro i ricci biondi di Clara e il volto abbronzato di Edward. «Ne ho una nuova, da cinque ore circa».
Amélie sospirò, disse che era già tutto risolto. «Una delle vice-cameriere ha già preso il posto di Nailah. Ma è una così grande seccatura».
E poi ancora altre chiacchiere. Non la finiva più. Olivia aveva ormai perso la speranza di veder spuntare Edward e Clara. Pensò di porgere le sue scuse e andarsene a casa.
E fu proprio in quel momento che apparve Clara, diretta a passo di marcia verso lei e Amélie, il vestito da sera che frusciava, un bicchiere di vino in mano. Olivia si preoccupò per lo sguardo risoluto, quasi maniacale, negli occhi della sorella. Che cosa le era successo?
Si spostò verso di lei per scoprirlo. Ma poi ecco finalmente Edward che entrava dall’ingresso principale del club, sul lato opposto della sala. Si tolse il cappello, si lisciò i capelli e si guardò attorno. Olivia pensò che stesse cercando lei. Ma i suoi occhi trovarono prima Clara. Si accigliò e si diresse verso di lei.
Olivia si tramutò in una statua di ghiaccio per la scena che si svolse sotto i suoi occhi un attimo dopo. Edward intercettò Clara con fare affabile e la prese per il braccio. Clara, sconfitta, si arrese. Le si offuscarono gli occhi. Si lasciò condurre via, attraverso la folla accaldata, poi fuori sulla terrazza, sotto la tempesta.
Amélie parlava e parlava, apparentemente indifferente a quell’uscita di scena, come anche all’intensità con cui Olivia li stava guardando, incapace di muoversi. «Mi dispiace così tanto di aver perso gran parte della festa ieri sera. La mia emicrania, eh. A quanto pare è stata una serata divertente. La governante mi ha detto di aver trovato stamattina in giardino uno scialle da donna». Rise. «Mi chiedo come sia finito là».
Olivia la ascoltava a malapena. Fissava le porte scorrevoli della terrazza. Appena Amélie fece una pausa per prendere fiato borbottò una vaga scusa, dicendo che la sala era piena di polvere, e andò dritta verso la terrazza.
Il porticato di legno era vuoto. Il vento le fischiava intorno al vestito, increspando la seta. Si teneva la mano sulla testa per togliersi dal viso i boccoli sciolti stretti dalle forcine. L’aria era calda, soffocante, intrisa di umidità. Non c’era la luna e solo i lampi della tempesta ruppero per due volte l’oscurità, proprio vicino alle scale che portavano giù al campo da polo. Gli occhi di Olivia lacrimavano nello sforzo di scorgere Edward e Clara. Ma che fine avevano fatto?
Li trovò alla fine sul lato più lontano del portico, in piedi, vicini. Clara stava parlando con il volto sollevato e rivolto verso Edward. Parlava anche lui. Olivia si avvicinò, con le orecchie ben dritte, ma sussurravano veloci veloci, le voci portate via dal vento. Clara scosse la testa e Edward si portò alla tempia il palmo della mano, con le dita piegate, evidentemente demoralizzato.
Olivia li aveva quasi raggiunti, quando lui si girò e la vide. Fece un passo verso di lei con un sorriso forzato. «Ciao, Olly».
Clara ruotò la testa e subito si rigirò dall’altra parte. «Sto per andar via», disse. «Sono molto stanca».
«Clara», disse Edward, «aspetta».
«Non ti preoccupare, Terry. Hai fatto tutto il possibile». Si allontanò, camminava piegata contro il vento verso la scala sul retro, diretta alle carrozze. Quando le passò accanto disse a Olivia: «Mi dispiace dover andar via, Livvy. Parleremo domani».
«Vengo con te».
«No», ribatté Clara continuando a camminare. «Per favore».
«Aspetta», cercò di fermarla Olivia.
Ma lei se n’era già andata nella notte, le braccia strette sul corpo rivestito di seta, le gonne sventolanti. Sembrava così sola.
Olivia si girò di nuovo verso Edward, interrogandolo con lo sguardo.
Lui disse solo: «Per favore, non chiedermi nulla».
Lei stava per fargli il terzo grado comunque, quando le porte della terrazza si aprirono scorrendo contro le pareti del club. Il brusio delle chiacchiere e la luce si rovesciarono fuori nella notte buia.
Tom era là. Scosse la testa quando vide Olivia e Edward. Alzando la voce per coprire il vento disse: «Non è la notte giusta per stare qua fuori». Poi: «Bertram, vecchio mio, ho bisogno di te».
«Che c’è?», chiese Edward.
«È successo qualcosa di molto strano. Vieni, andiamo alle stalle, te ne parlo mentre camminiamo».
Edward esitò, gli occhi fermi su Olivia. Ma Tom non si muoveva dalla porta. Era evidentemente intenzionato ad aspettarlo.
«Va bene», disse Edward. «Va bene». Fece un piccolo sorriso a Olivia. «Ne parliamo dopo».
«Sì», disse lei, «lo faremo».
Ma “dopo” non venne mai. Olivia aveva appena rimesso piede nel club quando Alistair le apparve accanto all’improvviso, come un trucco di un prestigiatore crudele, e le disse che era ora di andare a casa. Subito.
La mattina dopo, quando si svegliò, decisa a parlare con Edward o con Clara o, se possibile, con entrambi, trovò sul vassoio del tè un biglietto della sorella, scarabocchiato precipitosamente. Olivia si tirò su per leggerlo, gli occhi spalancati per l’incredulità; Clara aveva lasciato Alessandria, l’intera famiglia Gray si era traferita a Costantinopoli. Di punto in bianco.
Non ho idea di quanto staremo lontano, scriveva Clara. Jeremy ci ha appena annunciato che la nave sta partendo e che dobbiamo affrettarci a salire a bordo. Sono veramente dispiaciuta, Livvy, non sopporto di lasciarti in questo modo, specialmente dopo il nostro ultimo incontro, ieri sera. Ti prego, non preoccuparti per me. Ti scriverò appena posso.
Olivia si girò verso Alistair. Era appena entrato, veniva dal camerino. Gli chiese cosa fosse successo: perché Jeremy aveva portato via la famiglia così all’improvviso? Lui le disse che era emersa una qualche questione urgente, qualcosa che aveva a che fare con le sue attività. Gray doveva occuparsene senza indugi.
«Ma Jeremy non ha mai portato con sé Clara e i ragazzi nei suoi viaggi».
«E invece», disse Alistair, «questa volta sì. Oh», continuò cercando di simulare un’aria noncurante, «non organizzare la cena per Bertram questa sera. È partito anche lui. Sarà fuori per qualche settimana».
«Cosa?», La notizia le arrivò come un colpo allo stomaco. «E dove è andato?»
«Nel deserto».
«Perché?»
«L’attività dei nazionalisti si sta intensificando. È andato con Fadil a indagare. Non voglio che tu esca più da sola. Dico sul serio. Non mi piace nemmeno questa tua abitudine di scorrazzare su quel cavallo. Te l’ho già detto, non lo sopporto. Resta in casa. Sono tempi pericolosi».
«No, non è vero», ribatté lei, troppo sconvolta per quello che stava succedendo per mordersi la lingua. Inoltre la bugia di suo marito era troppo spudorata per trattenersi. La tensione, ad Alessandria, magari ribolliva sotto la superficie – aveva sentito un’infinità di storie sui tumulti per le strade, quando l’Inghilterra si era impadronita del potere nel 1882, i vari cori «L’Egitto agli egiziani». Questo genere di cose non erano mai scomparse del tutto, ma erano state duramente represse. Non c’era ragione di essere così preoccupati. Non si parlava d’altro, tutti ripetevano che la situazione era molto sicura da quando l’impero aveva l’Egitto in pugno. La cara vecchia Inghilterra. «Stai cercando di spaventarmi», disse lei. «Con queste sciocchezze vuoi tenermi qui come in una prigione. Cosa diavolo sta succedendo?»
«Sciocchezze?». Si chinò su di lei, il suo viso era così vicino che Olivia gli vedeva la barba che si ingrigiva e i muscoli tirati delle guance. «Sciocchezze?».
E poi la avvertì di non pronunziare mai più la parola «sciocchezze». Mai più.
Una famiglia di beduini arrivò nel pomeriggio, una madre con due ragazzi. Piantarono le loro tende presso il cancello principale. Non era affatto una sistemazione insolita. A Ramleh molti beduini si insediavano fuori dalle ville degli inglesi; i proprietari lasciavano che usassero le pompe dell’acqua e che pascolassero le loro capre sui prati ben irrigati. In cambio i beduini si comportavano con una gradevole umiltà e si mostravano pieni di gratitudine.
Questa madre e i suoi ragazzi erano diversi, però. C’era in loro una certa cautela. Specialmente nella donna. E il modo in cui li guardavano…
«Non dare loro nulla», disse Alistair a cena. «nemmeno un sorso d’acqua. Così se ne andranno presto».
Invece rimasero. Per lei furono un diversivo gradito, nei giorni solitari che seguirono. Alistair era sempre più furioso per la loro presenza, e Olivia li prese a cuore in modo uguale e contrario.
Ogni tanto dava loro un sorso d’acqua.
Guardava dalla finestra la donna, contemplando il suo sorriso triste mentre parlava con i figli, la grazia con cui si muoveva: sgusciava i piselli, rimestava lo stufato sul fuoco, raccoglieva bastoncini. Si chiedeva quale fosse la sua storia, e soprattutto cosa l’avesse portata a Ramleh. Se solo avesse parlato un po’ di arabo glielo avrebbe chiesto.
Ma poiché non poteva, rimase in silenzio.
Le ore si susseguivano nelle mattine senza fine, nei pomeriggi roventi e nelle notti insonni. A maggio seguì giugno e nemmeno una parola arrivò da parte di Edward, solo un breve telegramma da Clara per confermare che erano arrivati sani e salvi in Turchia (Siamo scesi al Grand Jumeirah STOP Spero stiate bene STOP). Olivia era rimasta indicibilmente ferita dalla loro duplice sparizione, così improvvisa. Non sapeva quale delle due assenze la facesse soffrire di più: quella di Edward o quella di Clara. E pensare che aveva davvero cominciato a credere di poter fare di nuovo affidamento sulla sorella…
Non aveva idea di come mettersi in contatto con Edward, però scrisse a Clara. Perché Jeremy vi ha portato via tutti? Di che cosa stavate parlando tu e Edward allo Sporting Club? Che c’è che non va? Scorreva la posta portata ogni mattina su un vassoio d’argento, cercando la grafia rotonda di Clara tra i biglietti da visita e gli inviti a cena. Una missiva finalmente arrivò, la busta tempestata di francobolli esotici. Olivia l’aprì, con mani tremanti, gli occhi che scorrevano il foglio con impazienza. Ma mentre leggeva il suo viso si oscurò e perse ogni speranza. Sebbene Clara l’avesse generosamente condita di dettagli – il caos di Costantinopoli, la nostalgia che la attanagliava quando pensava a Olivia, il suo desiderio di tornare ad Alessandria – non chiariva la ragione per cui Jeremy l’aveva portata via in primo luogo (Gliel’ho chiesto naturalmente, ma non mi dà risposte dirette. A quanto pare è meglio che noi due restiamo fuori da questa vicenda. In tutta onestà, Livvy, è di un umore talmente detestabile che evito di insistere oltre. E tu devi anche smettere di agitarti per ogni cosa. Hai già fin troppe preoccupazioni da affrontare, e io sto bene, ti giuro sto bene. Ora devo parlarti di quello che ha detto Ralphy questa mattina…). Nella lettera non nominava mai Edward. Olivia la lesse e la rilesse, cercando disperatamente qualche riferimento nascosto, una riga che le rivelasse cosa era successo allo Sporting Club, un piccolo indizio che poteva esserle sfuggito. Imparò la lettera a memoria, ma non ne sapeva molto più di prima. A quel punto scrisse di nuovo a Clara. Ti puoi per piacere fidare di me? Di che cosa stavate parlando voi due? La risposta di Clara – una lettera breve ma affettuosa, in cui le diceva che voleva disperatamente tornare e che sperava che Olivia non si sentisse troppo sola, che si prendesse cura di sé e che uscisse e si tenesse impegnata – ignorava ancora una volta la sua domanda.
L’assenza di risposte torturava Olivia ogni giorno di più. Che cosa nascondeva Clara? Che cosa ne sapeva Edward?
Quando le avrebbero comunicato notizie sul loro ritorno?
Domani, disse a se stessa, succederà domani.
Nuotava, ma non andava più da sola. La nuova cameriera, Ada, stava appollaiata sugli scogli, con la falda del suo cappello da sole che non riusciva a nascondere il suo sguardo fisso, attento. Quando Olivia tornava a casa, Ada la seguiva, l’aiutava a fare il bagno e a vestirsi. Poi scendeva con lei al piano di sotto e le chiedeva quali programmi avesse per la giornata. Dovunque Olivia andasse, dovunque, Ada era al suo fianco: un’ombra irremovibile alta un metro e mezzo, uno gnomo sempre vigile con addosso una gonna di stoffa marrone. Olivia si convinse nauseata che Alistair l’avesse assunta per fare la spia.
Domani, si disse. Uno di loro due ti farà sapere che tornerà domani.
Imogen cominciò a farle visita. Arrivava dopo pranzo, in un turbinio di sete luccicanti, la pelle color caffè, per riempire il vuoto lasciato da Clara. Le raccontava storie di sua madre. Erano cresciute insieme, loro due: la madre di Olivia, Grace, figlia di un archeologo inglese, e Imogen e il fratello minore Benjamin Pasha, figli di un generale egiziano e di una dama anglo-francese. «Passavamo insieme ogni giorno. Grace venne perfino a vivere con noi dopo che i suoi sventurati genitori, i tuoi altri nonni, morirono di tifo. Credo che Benjy se ne fosse anche un po’ innamorato. Aveva solo tredici anni». Imogen sospirò. «E poi arrivò tuo padre da Londra e portò Grace al Cairo per andare a cercare tesori. Fu molti anni prima che Tom arrivasse a portarmi via, perdutamente innamorato. Avevo quasi perso la speranza di trovare qualcuno. E mi mancava Grace, tremendamente. Ci vedevamo tutti i giorni. Oh, come vi adorava, voi due, le sue ragazze. Il tuo modo di fare, Olivia. Lo sai, sorridevi a tutti. Chiacchieravi in continuazione. Ero così angosciata quando sei partita per l’Inghilterra…».
Olivia all’inizio restava in silenzio, ascoltava molto più di quanto parlasse; nei primi tre mesi dal suo arrivo ad Alessandria aveva scambiato qualche parola con Imogen solo ai party e alle cene, e il più delle volte c’erano anche Clara, Tom o Edward. Aveva saputo – grazie alle premurose domande con cui Imogen si accertava del suo stato di salute e sulla piacevolezza del suo soggiorno ad Alessandria – che si era molto preoccupata. Edward le aveva detto che Imogen aveva provato a rintracciarla con la stessa tenacia di Clara, dopo che era stata mandata dalle suore. Olivia non avrebbe saputo spiegare come mai l’avesse mantenuta a distanza per tutto questo tempo, non accettando mai i suoi inviti a pranzo o a cena, e rispondendo sempre con grande cautela alle sue domande.
Magari il problema era che Imogen era sempre così premurosa e sapeva così tante cose, mentre lei, Olivia, non ricordava nulla.
In ogni caso, man mano che i pomeriggi passavano e Imogen continuava a parlare e parlare con quella sua voce musicale, Olivia cominciò a rilassarsi e ad aprirsi di più. Mai una parola su Alistair, naturalmente (si era di nuovo convinta che la cosa più semplice fosse fingere che non ci fosse nulla di reale). Non si fidava neanche di nominare Edward o la confusione che aveva provato quando era stata testimone di quella strana intimità, tra lui e Clara, allo Sporting Club. Ma le piaceva davvero chiacchierare della vita in Inghilterra, per lo meno degli eventi gradevoli: i due anni che aveva passato con Beatrice dalla zia a Londra, le passeggiate al Regent’s Park, le gite in barca sulla Serpentine, i panini dolci per il tè. Le piaceva rivivere il passato.
Su questo punto Edward aveva avuto ragione.
E quando Imogen la ascoltava e rideva, Olivia quasi dimenticava che se ne fosse andato, e quasi dimenticava anche Clara. Poi all’improvviso, con dolorosa intensità, le tornavano in mente.
«Perché Jeremy l’ha portata via, Imogen?». Olivia glielo chiedeva continuamente. «Che cosa sono tutti questi segreti?»
«Non lo so, non lo so davvero. Continuo a chiedermi perché se ne sia andato anche Edward. Ho chiesto a Tom ma è stato molto reticente».
Domani, Olivia diceva a se stessa, uno di loro tornerà domani.
Continuò ad andare a cavallo malgrado il divieto di Alistair. Si recava nello stesso campo dove l’aveva portata Edward. Ada rimaneva goffamente in piedi sull’erba, la gonna marrone rigida come una tavola nonostante il vento. Olivia si deprimeva vedendo quella piccola figura lì nel punto in cui avrebbe dovuto esserci Edward. E allora cavalcava più forte, più veloce, provando a cancellare quella sensazione.
«Perché non va un po’ più piano, signora Sheldon?»
«Non cadrò».
«Il rischio c’è, signora Sheldon. Non voglio che si faccia male».
Olivia spronò il cavallo.
Domani, uno di loro tornerà domani.
La seconda settimana di giugno finì e arrivò la terza e poi la quarta. Scrisse di nuovo a Clara. Le stesse domande, ma questa volta non ci fu risposta. Il caldo aumentava, Olivia nuotava, Ada guardava, la madre beduina si prendeva cura dei suoi figli, Imogen passava a trovarla.
«È quasi un mese che sono partiti», disse Alistair mentre Olivia si spogliava per andare a dormire, una sera alla fine di giugno. «Un mese, quando ero d’accordo con Gray che sarebbero bastate due settimane».
«Alla fine tu mi dirai per quale ragione queste due settimane erano così indispensabili?», chiese Olivia senza troppa convinzione.
Alistair la fissò, gli occhi azzurri furibondi nella luce soffusa, e fletté le mani. Lei si morse il labbro rimpiangendo di non potersi rimangiare quelle parole.
Domani, si disse mentre lui le prendeva il viso tra le mani. Domani uno di loro due mi farà sapere che sta tornando.
E poi, finalmente, l’ultimo giorno di giugno, uno di loro tornò.