Capitolo ventotto
Nailah si nascose nel bovindo quando madame Sheldon arrivò al reparto 12. Le sue gonne frusciavano sul pavimento, con una mano guantata si sfiorava distrattamente il livido sulla guancia. Appena entrò, Nailah si precipitò verso le scale, i suoi passi riecheggiavano rumorosamente nel lungo corridoio. Trattenne il respiro, sicura di sentire da un momento all’altro quella voce suadente. Nailah, dove stai andando? Invece non successe nulla. E Nailah capì che non sarebbe successo mai. Per un’altra notte era salva. E anche se si sentiva male a lasciare Babu, anche solo per un paio d’ore, il cuore le sobbalzò in petto per il sollievo.
Dietro di lei sentiva la voce di madame Sheldon: «Che vuol dire? Come non è qui?». Le sue parole piene di esasperazione rimbalzarono dal reparto lungo le pareti bianche, come schizzi di pittura colorata nell’aria. «Sta fuggendo da me, lo sapete». Nailah arrossì per l’acutezza di quell’osservazione. «Resterò in ogni caso», disse madame Sheldon. «Mi metterò a sedere vicino a Babu. Non dovrebbe essere lasciato solo».
Quell’atto di gentilezza sorprese Nailah, eppure allo stesso tempo in un certo senso se lo aspettava. Mentre scendeva di corsa le scale, il suo respiro si fece più leggero, pensando agli occhi da elfo di madame Sheldon posati sul suo cuginetto. Forse avrebbero fatto un incantesimo e l’avrebbero guarito.
Nailah ci sperava con tutto il cuore. Doveva andarsene e portarsi via i bambini. Non poteva tirare avanti con quel complesso ballo di fughe e sotterfugi. Madame Sheldon non avrebbe mollato, com’è sicuro che la pietra spacca il vetro. E nemmeno il capitano. Meglio arrestare Nailah. Sta certamente mentendo. Era sicura che lo avrebbe fatto appena tornato dal deserto. Accigliata, pensò a lui, là fuori con il suo colonnello.
Avranno già parlato con Mahmood?, si chiese.
Edward diede un’occhiata alla sua bussola, alzò gli occhi verso la cima delle dune, poi si girò dall’altra parte, verso le munizioni che Tom aveva assicurato sul fianco del suo cavallo. Le linee verdi e rosse del retino erano sfocate per il calore. Le mosche sciamavano ovunque attorno alle teste avvolte dalle bende di mussola, alle uniformi ricoperte di sabbia, alle bocche e agli occhi dei cavalli; un ronzio che strideva nell’aria, il solo rumore a parte quello del vento che accarezzava la sabbia.
Edward chiuse la bussola. Mancavano cinque chilometri in direzione ovest al villaggio dove viveva Mahmood. «Ce la faremo per il tramonto».
«E dopo ci metteremo a dormire», disse Tom. «Torneremo di corsa in città nella mattinata».
Edward annuì, per quanto quella prospettiva lo infastidisse immensamente. Alistair ormai doveva essere già sulla via di casa.
Se lo erano fatti sfuggire a Lixori. Quando erano arrivati in quel borgo di case di fango, nel tardo pomeriggio del giorno precedente, Tom e Edward avevano trovato solo alcuni cammelli mezzi morti di fame, un pezzo di terra che a malapena si poteva coltivare e gente del deserto che li aveva studiati con occhi diffidenti, spiegando che non erano i primi visitatori bianchi che ricevevano: altri due tizi erano venuti e andati, uno grasso, l’altro con un’aria sostenuta. Avevano portato via con loro un paesano.
Edward era sicuro che il paesano in questione fosse il contadino di cui aveva parlato Jeremy. Aveva chiesto che tipo di affari avessero stretto con lui. Per tutta risposta aveva ricevuto scuotimenti di teste, labbra cucite e sguardi sfuggenti. Aveva insistito, e anche Tom. «Dove l’hanno portato quegli uomini bianchi?». Lo avevano chiesto un’infinità di volte. «Cosa hanno detto?».
Ma nessuno aveva risposto. Le donne avevano tirato a sé i figli, come se avessero paura.
Alla fine Edward e Tom avevano rinunciato ed erano partiti per la lunga cavalcata che ora era giunta quasi alla fine, fermandosi solo per dormire.
«Mi sento male», disse Tom mentre ripiegava le mappe, «se penso a cosa diavolo stanno combinando Sheldon e Wilkins con quel contadino. Voglio credere che lo abbiano riportato ad Alessandria per interrogarlo, ma temo che stiano provando a nascondere lui e qualsiasi cosa abbia visto».
Edward si accigliò. Disse che anche a lui era passata per la mente la stessa paura.
Tom digrignò i denti. «È di Sheldon che non mi fido. Non sono sicuro che abbia mai voluto che Clara tornasse a casa, considerando tutto ciò che sicuramente sa». Scosse la testa. «Rappresenta un pericolo troppo grande per lui. Venderebbe l’anima di sua madre pur di tener nascosto ciò che è successo. Quel manipolatore figlio di puttana».
«Come ce ne sono pochi», disse Edward pensando alle cicatrici livide di Olly. Se avesse potuto avrebbe cancellato quel ricordo dalla sua mente, come se non fosse mai esistito; e soprattutto lo avrebbe cancellato dalla mente di lei. Ma non poteva. E adesso si trovava a ore di distanza da Alessandria invece che vicino a lei. Dove avrebbe dovuto essere.
Aveva parlato con Ada, gettando al vento ogni cautela. Le aveva detto cosa sapeva, chiedendole di aiutare Olly. Lei gli aveva risposto che avrebbe voluto farlo, e che ci aveva anche provato. Impegnati di più, le aveva risposto. Adesso poteva solo sperare che fosse sufficiente.
Fece un respiro profondo. «Andiamo. Spero che questo Mahmood valga la pena del viaggio».
Le strade intorno alla casa di Sana erano affollate quando arrivò Nailah. Un gruppetto di bambini giocava all’ombra dei caseggiati insieme a Cleo. C’era anche Kafele, anche se avrebbe dovuto essere al lavoro. Si era tolto la giacca e si era arrotolato le maniche della camicia sotto il gilet, i folti capelli erano in disordine. Stava sorridendo, quel gran sorriso che regalava a Nailah con tanta semplicità.
Erano tutti presi da un gioco per cui, a quanto pareva, erano necessari un pallone di cuoio e molte grida. Isa era seduta a terra, vestita di seta color porpora impreziosita da perline d’argento, il viso scurito da occhiaie di stanchezza. Come un gioiello ossidato. Per la prima volta, Nailah notò quante rughe le segnassero la pelle, un tempo senza età. E quelle guance, ora tristi, quasi cadenti. Quanti anni aveva? Nailah non lo sapeva, Isa considerava l’età un argomento volgare. Tuttavia, guardandola adesso, Nailah si sentiva pronta a scommettere che fosse più vecchia della maggior parte delle attrici che salivano con lei sul palcoscenico. Era quella la ragione per cui era ancora in città, e non in giro per l’ennesimo tour? Nailah non aveva bisogno di chiederglielo. Per quanto volesse credere che Isa fosse rimasta esclusivamente perché era preoccupata – per amore – in cuor suo sapeva che c’era la forte probabilità che fosse stata la fine della carriera a costringerla a comportarsi da madre per la prima volta nella sua vita.
Nailah la guardò ridere e applaudire. Kafele tirava la palla su e giù in aria, gli occhi così luminosi che sembravano sul punto di esplodere. Anche lui stava recitando. Nailah se ne accorse all’improvviso e ne rimase disgustata. Solo i bambini erano stati indotti a credere che lo spettacolo fosse reale.
«Prendila, Cleo, prendila!», gridò un ragazzino quando Kafele lanciò la palla verso di lei.
La ragazzina spalancò gli occhi. Alzò le mani e afferrò la palla prima che le finisse addosso. Kafele si girò, piegò la testa indietro e si coprì la faccia con le mani simulando una tragica disperazione. Cleo scoppiò a ridere, saltellando di gioia – un gesto che Nailah aveva quasi dimenticato che fosse capace di fare. «L’ho presa, l’ho presa. Sei fuori. Tocca a me lanciare».
Nailah non si fece avanti, non fece nulla per attirare l’attenzione. Magari era tutta una finzione, ma non aveva il cuore di rovinarla. Invece si appoggiò al muro e si mise a guardare. I suoi occhi indugiarono su Kafele. Per un attimo si chiese come sarebbe stata la loro vita se si fossero sposati davvero. Tornare a casa a cena, dormire su un soffice materasso. Se fossero stati i loro figli quelli che correvano adesso sul selciato… Bambini e bambine con il volto danzante di Kafele. Nailah se li immaginò tutti, li delineò dentro di sé. Vide braccia paffute, gambe forti. Sentiva le loro voci. Diede loro tutto quello che faceva di Kafele l’uomo che amava: gentilezza, intelligenza, integrità. Non attribuì nulla di sé ai figli immaginari. Perché niente di lei era nemmeno paragonabile alle doti di Kafele.
L’immagine si posava come un lenzuolo trasparente sui corpi reali che aveva davanti. Con gli occhi socchiusi lottava per trattenere quelle visioni mentre Kafele prendeva Cleo in braccio e la lanciava in aria, facendo volare i suoi capelli neri. Che buffone.
Isa rideva, risate scroscianti che erano quasi credibili. Poi, come avesse avvertito la sua presenza, si girò. «Nailah», la chiamò.
Lei fece un salto, i suoi bambini svanirono. Spariti.
Cleo lasciò la palla che cadde con un rimbalzo irregolare, poi un altro, per poi rotolare a terra. Tutti guardarono Nailah, come se fosse una tempesta giunta improvvisamente a rovinare un giorno di sole. Fine dello spettacolo. Cala l’ignobile sipario.
Cleo corse verso di lei, paralizzandola con occhi che erano insieme fiduciosi e spaventati. E quando le chiese: «Sta meglio? Sta guarendo?», Nailah si domandò se la situazione potesse ancora andare meglio. Se potesse guarire.
Rimase in strada a lungo – il tempo sufficiente per assicurarsi che Isa si occupasse della colazione, facendosi aiutare da Cleo, e per venire a sapere che Jahi sarebbe passato a pranzo. «Non l’ho mai visto così agitato», disse Isa. «Ha incaricato Sana di chiuderci dentro per la notte, dice che non ci vuole in casa nel caso tornino i militari o tu provi a scappare con Cleo, ma non mi ha voluto dire perché». Scosse la testa e alzò un sopracciglio.
Nailah sentì il cuore intenerirsi all’improvviso. Qualsiasi fossero i motivi per cui Isa restava a casa, sembrava che adesso ci tenesse sul serio, alla sua famiglia. Istintivamente si piegò in avanti e abbracciò la madre, affondando la testa contro la sua spalla. Si sentiva come se si stesse per addormentare in piedi.
«In che casino ti sei ficcata?», le sussurrò Isa. «Che succede?»
«Non lo so», rispose Nailah. «Davvero non lo so».
Kafele l’accompagnò a piedi alla St Aloysius. Si tenevano per mano mentre percorrevano i larghi viali del centro. Le strade brulicavano di carretti e carrozze, e uomini, così tanti, che si affrettavano verso casa alla fine della loro giornata.
«Quando ti sentirai pronta», disse Kafele, «mi racconterai tutto del guaio in cui ti sei messa. Me lo dirai e io saprò come aiutarti».
«Non sono sicura che tu possa farlo».
«Certo che sì. Questa è solo una stagione di tristezza. Tempi difficili, niente di più».
«Potrebbero durare a lungo».
«Allora li affronteremo insieme. Ci sarò sempre per te, ricordatelo. Farei qualsiasi cosa per te, darei la vita…».
«Non dirlo. Ti prego, no».
Non poteva sopportare che Kafele sacrificasse tutto per lei di nuovo.
Babu era solo e dormiva, quando tornò da lui. La sue guance erano arrossate ma il respiro sembrava più regolare. E poi la fronte non scottava più.
Madame Sheldon aveva lasciato ai piedi del letto un mucchio di regali: un cambio pulito per lei, del sapone, un pacchetto di biscotti al cardamomo, delle pesche e un libro. Nailah sfiorò con il pollice la stoffa, un cotone celeste, il più soffice che avesse mai posseduto. Guardò il libro. Alice nel paese delle meraviglie. Non ne aveva mai sentito parlare. Alzò la copertina e dentro c’era un piccolo biglietto ripiegato.
Ho pensato che potresti leggerlo a tuo cugino. È una storia che mi è venuta in mente spesso in queste ultime settimane. Mi dispiace di non averti visto oggi, tornerò domani. Se non ci sarai, verrò a trovarti a casa. Davvero non posso più aspettare.
Spero che tu stanotte riesca a riposare un po’ e che Babu si riprenda. Mentre non c’eri, si è svegliato per qualche minuto e ha sorriso. Forse è un buon segno? Ci vediamo domani mattina.
Nailah posò la guancia sul materasso di Babu, prese la manina morbida tra le sue. «Che cosa devo fare, habibi?», chiese al piccolo che dormiva. «Vorrei che tu mi dicessi cosa devo fare».
Di nuovo a Ramleh, Olivia seguì Fadil in casa. Appena si tolse il cappello in anticamera, un movimento in salotto attirò la sua attenzione: dita che tamburellavano su un bracciolo. Strinse le labbra, si sentì soffocare. La testa di Alistair spuntò da dietro la sedia.
«Dove sei stata tutto il giorno?», le chiese.
Olivia rispose: «Con Imogen», ma le venne fuori una voce alterata e tesa, come se non fosse lei a parlare. Deglutì. «Non mi aspettavo che tornassi».
Alistair piegò il giornale e le andò incontro. Lei restò inchiodata sul posto. Le prese il mento tra il pollice e l’indice. Con l’altra mano le toccò lo zigomo. «Questo è orribile», disse. «Non mi piace come ti sei ridotta il viso».
Olivia lo fissava, il suo cuore picchiava duro dentro di lei. Anche lui la fissava. Gli occhi celesti ridotti a due fessure. Non le era mai parso così spaventoso. Aveva per caso scoperto cosa avevano fatto lei e Edward? Era quella la ragione per cui era tornato? Per punirla?
La sua espressione, impassibile sotto la pelle trasparente, non rivelava niente.
Olivia sapeva che avrebbe dovuto chiedergli prima di tutto perché era partito.
Ma ora che si trovava totalmente sola con lui, non riusciva a pensare che a un imperativo: scappare.
Guardò le scale.
Alistair sorrise, inclinò la testa. «Dovresti farti un bagno», disse. «Ti raggiungo. Mi piace guardarti mentre lo fai».
«Sono piuttosto stanca».
«Ma devi solo startene distesa in acqua, no?». Le premette le labbra sulla fronte. «È bello stare di nuovo insieme, vero?»
«In verità no», disse lei. Alistair fece un sorrisetto come se trovasse divertente il suo tentativo di difendersi. E questo la fece infuriare. La rabbia le diede forza. Si ritrasse, fece due passi indietro. «Preferirei che mi stessi lontano», disse con una voce sempre più decisa. «Vorrei che tu fossi ovunque, tranne che qui. Vorrei che tu fossi…».
«Morto?».
Olivia arrossì.
Alistair rise, un ghigno sgradevole. «Morto nel deserto? Penso che potrebbe anche succedere». Si fermò, sempre sorridendo. «Molti fanno questa fine, ovviamente».
Olivia sospettò che avesse voluto fare un riferimento di cattivo gusto alla morte dei suoi genitori, ma non fu quella la ragione per cui il sangue le si ghiacciò nelle vene: ripensò al presentimento che aveva avuto sulla partenza di Edward, la sensazione che qualcosa di terribile sarebbe successo tra le dune.
Avrebbe voluto trovare una risposta da dare ad Alistair, un rifiuto che lo rimettesse al suo posto e svilisse le sue stesse paure, ma le parole le sfuggivano. Non riuscì a far altro che guardarlo.
«Sbrigati», disse Alistair. «È l’ora del bagno».
Quando Olivia arrivò, Ada era nella stanza da letto. Olivia si lasciò cadere sul bordo del materasso perché non riusciva a stare in piedi. Cercò di slacciarsi la giacca, a fatica. Ada accorse ad aiutarla e in silenzio le tirò via le mani; la sua pelle era fresca, il suo tocco tranquillo. Le tolse la giacca. Olivia si mise le mani sul collo. Era ricoperto di sudore.
«Ha bisogno di farsi un bagno», disse Ada.
Olivia la guardò. «Ho paura», ammise, e poi cominciò a tremare sempre di più. Non l’aveva mai confessato prima ad alta voce.
«Certo che ha paura». Ada le sfiorò la spalla e poi uscì per andare a preparare il bagno.
Olivia sentì i rubinetti borbottare e poi il rumore metallico dei tubi di rame non appena la caldaia al piano di sotto iniziò a pompare acqua calda. Rimase esattamente dov’era, fino a che Ada non la venne a prendere. Seguì la scia della sua vaporosa gonna marrone, passo dopo passo, con cautela, un piede avanti all’altro. Anche perché altrimenti sarebbe caduta. Procedeva come se fosse un’invalida, e in effetti si sentiva come un’invalida, disorientata dalla sua stessa impotenza, dalla presenza minacciosa di Alistair al piano di sotto. Non sapeva come mai le attenzioni di suo marito le sembrassero improvvisamente così spaventose, visto che le aveva tollerate per tanto tempo. Forse la notte con Edward l’aveva resa vulnerabile, la sua tenerezza l’aveva indebolita. O forse era lo sguardo che Alistair le aveva lanciato poco prima: come se la situazione stesse per precipitare. Sbrigati. Era giunta ai limiti della sopportazione. Le fiamme bollenti che fluttuavano sopra il suo stomaco, i denti sulla sua pelle, i panni imbevuti di sperma nella sua bocca… Pensava davvero che tutto questo potesse ucciderla.
«Facciamo presto», disse a Ada mentre entrava nella vasca piena d’acqua insaponata. «Voglio solo finire in fretta». Non voleva farsi trovare nuda da lui.
Ada si diede da fare, strofinandole via dai capelli e dalla pelle il calore del giorno, con gesti rapidi e metodici. Aveva quasi finito quando la maniglia girò. Olivia si irrigidì.
«Non la lascerò», le disse Ada in un sussurro.
Olivia la guardò. Ada fece un sorriso a denti stretti.
«E come?», le chiese Olivia.
«Stia attenta. Vedrà».
Ada diceva la verità. Rimase sul posto, a solo cinque passi di distanza, impedendo ad Alistair di arrivare a prendere il sapone. Gli disse di non preoccuparsi, che lei era più che brava. Meglio lasciarle sole… Perché non scendeva a leggere i giornali, anzi? Quando capì che non sarebbe riuscito a mandarla via, Alistair smise di insistere. Era arrabbiato, Olivia lo vedeva dal tic di irritazione nel suo sguardo. Ma a quanto pareva era troppo codardo per affrontare Ada apertamente. Non voleva accettare l’idea che lei stesse difendendo Olivia, certo che no, come non voleva neppure pensare a cosa sarebbe successo se Ada gli avesse detto che sapeva tutto. Considerava la violenza un piacere privato, un segreto da conservare racchiuso nell’inviolabilità del letto matrimoniale. Solo loro due.
Il privilegio della moglie.
«Ti potrebbe licenziare per questo», le disse Olivia quando lui se ne andò.
«Sono stanca di fare questo lavoro», rispose Ada. «Temo di non svolgerlo nel modo più appropriato».
«Non sei una vera cameriera, vero, Ada?».
Lei si versò lo shampoo in una mano e non rispose.
«Perché sei in Egitto?»
«Sono qui da un po’», rispose Ada. «Io… be’, aiuto a tenere d’occhio la gente. Crescendo ho imparato a badare a me stessa. Per un periodo ho provato a fare la domestica ma non era il lavoro adatto a me. Poco dopo invece mi è capitato invece questo lavoro, e cioè tenere d’occhio gli altri». Le versò lo shampoo sulla testa. «C’è sempre un uomo, da qualche parte, che ha una disputa con un altro uomo. E tutti si sentono meglio se sanno che c’è una persona esperta che tiene d’occhio la famiglia, pronta a far scattare l’allarme se per caso succede qualcosa di imprevisto». La insaponò. «Di solito non devo mantenere il segreto su quello che faccio, naturalmente. Il signor Sheldon mi ha però dato indicazioni precise in questo senso, quando mi ha chiesto di venire a dare un’occhiata alla situazione, in particolare a lei…».
«Quando è successo?»
«Proprio alla fine di maggio. Sono venuta subito».
Olivia ripensò alla sua conversazione con Imogen a pranzo e si accigliò per quella coincidenza. «Perché a Clara non è stata affibbiata una guardia del corpo?», chiese.
«L’hanno portata a Costantinopoli».
«Sai per caso che cosa è successo, Ada?»
«No. Glielo direi subito se lo sapessi. Lo giuro. Mi dispiace di non essermi presa abbastanza cura di lei. Non sapevo cosa fare, mi creda, quando mi sono resa conto di come stanno le cose». Ada sospirò. «Lei è in trappola, credo, e non vedo vie di uscita. Ma cercherò di aiutarla in ogni modo».
«Ada, non so cosa dire. Sono stata così scortese con te».
«No». Il volto spigoloso di Ada arrossì. «Neanche un po’».
Olivia le prese la mano. «Grazie». Era una sospensione dell’esecuzione, niente di più, ma in quel momento significava così tanto per lei.
Con l’avvicinarsi della sera, Olivia diventava sempre più nervosa. Ada le stava accanto, ma di certo non poteva restarle vicino tutta la notte, a meno che non si piazzasse sotto le lenzuola tra lei e Alistair. Olivia non aveva scelta: avrebbe dovuto sopportare le ore, i minuti, i secondi strazianti che dividevano il tramonto dall’arrivo dell’alba.
Ma non sapeva come fare. Quell’attesa le faceva venire la nausea, doveva continuamente correre al bagno.
Alistair uscì dopo cena. Non le disse dove stava andando, sbraitò sulle scale che sarebbe tornato più tardi. Arrivò un biglietto da Imogen, le diceva che non era riuscita a far arrivare un messaggio a Tom; Fadil aveva ragione, nessuno in caserma sapeva dove fosse. Se tutto andrà bene, torneranno domani. Stasera vado da Benjy. Voglio vedere cos’altro posso scoprire.
Olivia si svestì per la notte tremando, preparandosi al peggio nell’oscurità. Ricordava le parole del biglietto di Edward. Scappa. Non aveva mai pensato prima a fuggire. Al massimo aveva cercato di scappare dal proprio marito violento come una lepre inseguita dai cacciatori. Ma ora era molto più amica di Imogen – se fosse stata a casa, quella sera, sarebbe andata da lei. Semplicemente, non conosceva abbastanza bene i Pasha per coinvolgerli nelle sue faccende.
«Che ne dice di casa di sua sorella?», chiese Ada con aria dubbiosa. «Sarà al sicuro là, visto che c’è la polizia». Ma non sembrava convinta. «Potremmo portare con noi Fadil».
«Alistair mi troverebbe». O forse Mildred l’avrebbe spedita dritta a casa.
«Da qualche altra parte, allora?»
«No, non c’è nessun’altra parte», disse Olivia. «Non è patetico? Non ho nessuno da cui andare».
Si avvicinò alla finestra. La lanterna dei beduini formava una pozza di luce sul vialetto di accesso. La madre e i suoi ragazzi si stavano preparando per la notte. Al sicuro.
Al sicuro.
«Ada» le disse, «ho avuto un’idea».
Sentì Alistair tornare a casa molto più tardi quella sera. Il suo cavallo passò al piccolo galoppo, il rumore degli zoccoli sulla ghiaia era sorprendentemente forte attraverso il tessuto della tenda. Lo vide con gli occhi della mente scoprire il loro letto vuoto, aprire le porte delle due camere degli ospiti, sbirciare attraverso il buco della serratura di quella chiusa a chiave, sorgere la sagoma di un corpo sul letto. I cuscini erano allineati proprio come faceva un tempo Clara, stando a quanto le aveva raccontato Sofia. Certo, Alistair avrebbe potuto buttar giù la porta. Olivia sperava che non lo facesse, non proprio la prima notte in cui scappava – voleva invece che si accontentasse del proposito di parlarne il giorno dopo – ma avrebbe potuto farlo. Era la ragione per cui Olivia si era spostata lì. Non l’avrebbe mai cercata tra i contadini, specialmente quelli che lo disprezzavano; era troppo arrogante anche solo per pensarci. E se avesse avvertito la polizia della sua assenza, tanto meglio: si sarebbe fatto giorno prima del loro arrivo. Un altro giorno. Un giorno nel quale Edward sarebbe potuto tornare.
Sapeva che stava abbrancando al volo ore, frammenti di sicurezza. Non era uno stile di vita tollerabile, non sul lungo periodo, ma per ora era l’unico che si potesse permettere.
Espirò lentamente. Una mano le toccò la spalla. Non era quella di Ada, che si era subito addormentata. Non erano i ragazzi beduini: anche loro dormivano rannicchiati ai piedi di Olivia. Era la madre, il suo volto triste in ombra, nella notte quasi senza luna. La donna, che non aveva fatto domande quando Olivia e Ada erano comparse sulla porta e si era limitata a invitarle a entrare, le si sedette accanto.
«Non si preoccupi», le disse toccandosi con la punta delle dita il cuore per poi sfiorarle la guancia. «Non pianga».
«Non sto piangendo», sussurrò Olivia. «Non lo faccio mai».
La donna scosse la testa.
Prese la mano di Olivia e gliela posò sul viso umido e bagnato di lacrime.
All’alba, Olivia e Ada tornarono lentamente verso casa. Fadil era già sveglio e sedeva alla porta di ingresso, il fucile appoggiato sulle gambe. Magari era stato là tutta la notte.
«Puoi essere pronto per uscire alle otto?», gli chiese Olivia. «Dobbiamo tornare alla St Aloysius».
«Mi può dire perché andiamo lì?», chiese. «Cosa vuole da quella ragazza?»
«Non voglio rivelarlo, per ora». Imogen aveva ragione, inutile dare spiegazioni. Fadil non poteva arrestare Nailah e Olivia non voleva che si sapesse della relazione di Clara, se non fosse stato assolutamente necessario. Una volta che Olivia avesse scoperto l’identità del suo amante, allora sarebbe andata da Fadil e avrebbe accettato il suo aiuto per catturarlo. Sempre se Edward non fosse già tornato.
Oggi, pensò, succede tutto oggi.