Capitolo trentaquattro
Nailah atterrò con un tonfo sul prato. Le batté forte il cuore vedendo le ombre degli alberi e i viali costeggiati da statue. Dalla veranda arrivava il suono di voci maschili sommesse e di risate. Sembravano tutti rilassati e felici nonostante sapessero che un’altra vita andava incontro a una violenta fine.
Corse verso il muro di cinta. Una volta lì, si fermò e si voltò a guardare le luci che illuminavano le bifore della casa e le spesse mura, innalzate appositamente per separare le donne dal mondo esterno. Provò un’ultima, pungente scintilla di tentazione – sarebbe potuta rimanere in quell’opulenza per dimenticare il sangue che, almeno in parte, aveva sulle mani, le necessità di Cleo e Babu, i sogni impossibili che aveva condiviso con Kafele. Poi si voltò, affondò le unghie nella superficie porosa dei mattoni per tirarsi su e scavalcare il muro prima con una gamba e poi con l’altra. La parete ruvida le graffiò le mani e i piedi. Scivolando nella sabbia, si incamminò, decisa ad affrontare il mare di dune. Si tenne a distanza dal sentiero fino a quando non fu certa che le guardie del palazzo non potessero più vederla. Ricominciò a seguire il percorso appena illuminato, bisbigliando tra sé e sé per rompere il silenzio opprimente della notte.
Camminava da meno di mezz’ora quando un rumore di zoccoli la informò della presenza di qualcuno. Era un mercante di cotone che, diretto in città per il mercato, accettò di portarla con sé. L’uomo non fece caso ai suoi abiti raffinati e non fece domande sul perché fosse lì, sola nell’oscurità. Si limitò a masticare il suo tabacco e a pensare ai fatti suoi.
O, semplicemente, la cosa non gli interessava.
Quel silenzio diede a Nailah il tempo che le serviva per pensare a come agire. Era certa che a quell’ora Hassan avesse già rapito madame Sheldon. Non avrebbe mai fallito. Probabilmente erano diretti a quell’oasi, ma non aveva idea di come trovarla. Aveva bisogno di aiuto.
Le campane della cattedrale di San Marco suonarono le undici quando finalmente giunsero in città. Il mercante la lasciò alla borsa del cotone. Nailah lo ringraziò e corse via. Aveva la bocca secca mentre camminava sui marciapiedi deserti. Sentì una fitta al fianco. Cercò di concentrarsi sul magazzino in cui viveva Kafele, intenzionata a dirigersi subito là, ma quando passò accanto a casa sua e vide la luce di una candela alla finestra si fermò di colpo. Rimase sul selciato a fissare la fiamma tremolante, trattenendo il respiro. Chi era? Isa? Possibile che fosse tornata? O era Jahi? Nonostante l’aria fredda della notte, Nailah avvampò e il sudore le incollò gli abiti addosso. Entrò con le mani che tremavano e si diresse verso la stanza principale. Appena sollevato il chiavistello, emise un sospiro di sollievo: non c’era solo Isa, ma anche i bambini, addormentati in un angolo, e Kafele.
Prima che potesse dire qualcosa, Isa le corse incontro e la abbracciò con tanta forza da mozzarle il fiato. «Non potevo salire su quel treno», le disse con voce molto bassa per non svegliare i bambini. «Senza sapere dove fossi. Ho chiamato Kafele, che ti ha cercata ovunque». Si ritrasse e la squadrò. Aveva il kajal sbavato, la cipria raggrumata tra le pieghe della pelle. «Sei vestita come una puttana», disse. «Sei ferita?».
Nailah fece di no con la testa. Si voltò a incrociare lo sguardo ansioso di Kafele. «Mi serve aiuto». Poi, senza darsi il tempo di domandarsi se avesse davvero il coraggio di farlo, gli raccontò ogni cosa, mentre la sua espressione si trasformava da incredula a sconvolta, fino a scivolare nella cupa rassegnazione.
Quando finì, abbassò le spalle.
«Madre di Dio», esclamò Isa, accasciandosi a terra. «Non capisco come… come…? Jahi, mio fratello… tu…». Tese le mani ingioiellate come per strapparle di dosso la colpa e poi, per scaramanzia, le sputò dietro la spalla.
«Perché non me lo hai detto, Nailah?», chiese Kafele.
«Non volevo darti un simile peso», rispose. «Avevo paura».
«Di cosa?», chiese Kafele con espressione addolorata. «Di me? Quante volte ti ho detto che voglio aiutarti e che puoi fidarti?». Si voltò, si portò le mani dietro al collo, afferrando la stoffa ruvida della sua camicia.
«Mi dispiace tanto», disse Nailah. «Perdonami».
Kafele fece un respiro profondo. «Nailah, avresti potuto salvare Clara Gray, se solo avessi parlato».
«Non credevo che le avrebbero fatto del male. E avevo paura. Non volevo perdere i bambini, essere portata via». Si premette le nocche sugli occhi per trattenere le lacrime. Non cercare scuse, si disse, non ne hai. «Potremmo ancora impedire che Hassan uccida madame Sheldon. So dove l’ha portata, posso descriverti il posto. Dobbiamo andare…».
«No», disse Isa. «Nessuno crederà che non siate coinvolti anche voi, vi impiccheranno come complici».
«Ma Kafele non ha fatto niente».
«Non importa», rispose Isa. «Una donna inglese è morta, un’altra rischia la stessa fine. Le mogli degli inglesi più ricchi d’Egitto. Non ci saranno sconti di pena».
«Vuoi dire che non dovremmo fare nulla?»
«Certo che faremo qualcosa», disse Kafele. «Non lascerò che muoia una donna innocente». Guardò il soffitto corrucciando la fronte. Alla fine disse: «Andremo in caserma e diremo tutto. Preciseremo che hai appena scoperto la verità, nella speranza che ci credano. Saremo più credibili, presentandoci spontaneamente».
«È così pericoloso», disse Isa. «Kafele, non farti coinvolgere. Non sono affari tuoi».
Qualcuno bussò alla porta.
«Nailah? Ci sei?».
Nailah trattenne il fiato. Era la voce del capitano, forte e profonda, inasprita dall’urgenza. Era inconfondibile.
Kafele imprecò.
Nailah schiuse le labbra per dire che avrebbe affrontato il capitano da sola, ma non fece neppure in tempo ad articolare la prima parola: Kafele la superò e poi scese.
«Fermo», gridò Nailah, seguendolo. «Aspetta».
Lui si voltò. I suoi occhi nocciola la fissarono nell’oscurità.
«Lascia che vada io», gli disse. «Mia madre ha ragione, è troppo pericoloso. Ho fatto male a cercarti».
«Pensi che potrei lasciarti sola in questa storia?». Indicò con un cenno della testa il soggiorno: Isa non si era neppure mossa, a dispetto delle sue belle parole cariche di affetto e preoccupazione. «Io non sono come lei», le disse. «Hai sempre meritato di meglio».
Bussarono ancora più forte, i cardini della porta scricchiolarono con fragore.
«Kafele, non voglio che qualcuno ti faccia del male».
«Me la caverò, e anche tu». Aprì la porta.
Il capitano non era solo. Nell’oscurità si intravedevano altri uomini, dei soldati, e tra loro il colonnello e Fadil con testa fasciata da bende insanguinate.
Una voce femminile incrinò l’aria della notte: l’accento di madame Carter era inconfondibile. «E così sei a casa». Avanzò superando il colonnello. «Dove sei stata?»
«Ti abbiamo cercata», disse il capitano. Il suo viso, nel buio della notte, era teso per la paura e la rabbia.
«Stavamo per venire in caserma», disse Kafele. Nailah trasalì vedendolo così esile davanti alla figura imponente del capitano. Nonostante ciò, Kafele era lì al suo fianco, con il corpo magro ma ben dritto davanti al colonnello. «Nailah sa dov’è madame Sheldon. Ha appena risolto il mistero».
Il capitano guardò Nailah. «Dov’è? È stato tuo zio a colpire Fadil e a sparare a Sheldon?».
Nailah si sbalordì. «Ha sparato a sir Sheldon?»
«Questa non è una risposta. LEI dov’è?»
«C’è una piccola oasi, due palme…».
«Maledizione», disse il capitano. «Maledizione».
«La conosciamo», disse il colonnello.
Nailah provò un breve sollievo. «Ma c’è Hassan con lei».
«Hassan?». Il capitano strinse i pugni. «Lo stramaledetto cocchiere? Lo ammazzerò». Si voltò verso un soldato che Nailah non conosceva. «Portali entrambi in caserma, Stevens».
Si lanciò al galoppo senza aggiungere altro, sollevando una nuvola di polvere scura lungo la strada. Dietro di lui il colonnello, madame Carter e Fadil.