Capitolo trentasei

Nailah guardò attraverso la piccola finestra dell’ufficio in cui era rinchiusa, fissò il cielo che da blu si faceva grigio, poi bianco e pian piano giallastro. Alla luce, i recinti vuoti tornavano a essere capannoni e stalle desolate, niente di più, perdendo il fascino donato dalla notte.

Un nuovo giorno.

Con un improvviso battito d’ali uno stormo si levò dai cancelli. Il colonnello comparve un istante dopo, dritto in sella, il corpo irrigidito da una tensione spessa come uno strato di argilla. Sotto al cappello della divisa, il volto che ben conosceva aveva un’espressione dura.

Nailah strinse gli occhi per mettere a fuoco, ma non vide nessuno con lui.

Il capitano non c’era.

Il colonnello scese da cavallo e lo legò. Scomparve in un casotto contrassegnato dalla scritta «Colonnello Thomas Carter». Meno di un minuto dopo ne uscì sbattendosi la porta alle spalle e dirigendosi nella stanza accanto a quella di Nailah, in cui si trovava Kafele. Nailah si precipitò al muro opposto, ricoperto di mappe. Tutto ciò che riuscì a sentire fu il suono attutito e frammentario della voce del colonnello seguito da una indistinta litania.

Guardò l’orologio sulla parete. Erano passati cinque minuti, poi sei, otto, e poi ancora.

Da fuori arrivò uno scalpiccio di zoccoli. Tornò alla finestra appena in tempo per vedere arrivare sir Gray insieme a un uomo mal vestito e con una grossa pancia. Doveva averli visti anche il colonnello, perché uscì dalla stanza e li raggiunse, ordinò a uno stalliere di portar via i loro cavalli e poi li condusse nel suo ufficio.

Per un po’ non accadde nulla. La caserma iniziò a riempirsi di soldati. Nailah si lasciò cadere sul pavimento.

Infine, la porta della sua stanza si aprì e il colonnello entrò. «È morta?», domandò Nailah alzandosi di scatto. Doveva saperlo, non riusciva ad aspettare ancora. «Temiamo di sì». La voce del colonnello era distaccata e concisa. «C’era una tempesta, non abbiamo potuto portare avanti le ricerche, ma abbiamo trovato il suo cavallo». Si indicò il collo: «E un colletto di pizzo». Aveva un’espressione gelida. «Mia moglie è fuori di sé». Fece una pausa. Muoveva la mandibola, come se tenerla ferma fosse troppo doloroso. «Lo sono anch’io, del resto. Il capitano Bertram è ancora là fuori».

«Sta bene?»

«Nessuno sta bene». Il colonnello avanzò verso di lei. «Clara aveva dei figli, uno ha meno di un anno. Avevano entrambi tutta la vita davanti». Fece un respiro profondo, rabbrividendo. «Meritavano di vivere».

Da fuori arrivava una voce secca che impartiva ordini. Nailah si spaventò quando la porta della stanza accanto si aprì. Voci, passi. Lanciò un’occhiata alla finestra, poi di nuovo al colonnello, che annuì. Attraversò la stanza, posando le dita sul davanzale con un groppo in gola. L’uomo grasso che era arrivato con sir Gray aveva caricato Kafele su un carro della polizia.

«Dove va?». Le parole le uscirono a fatica.

«Il commissario Wilkins lo sta conducendo in prigione», rispose il colonnello.

«No». Quasi si strozzò con la sua stessa voce. «Non ha fatto niente. Lo giuro. È stato Hassan. Con la mia complicità. Ho scritto io la prima lettera a sir Gray, potete controllare la mia grafia».

«Non è possibile. La lettera è stata strappata tempo fa, appena l’hai inviata».

«Cosa?». Nailah si portò la mano alla tempia. Quella lettera… le aveva ispirato tanto terrore! E per quanto tempo aveva pensato alle terribili conseguenze che avrebbe potuto provocarle! In realtà era sparita subito. Distrutta.

«Kafele ha accettato di confessare qualsiasi cosa Wilkins gli imputerà», spiegò il colonnello, «a patto che tu venga liberata».

«No», scosse la testa con violenza. «No». Tornò alla finestra, affondando le unghie nell’infisso di legno. Vide Kafele inciampare, spintonato da un poliziotto, e poi la porta blindata del carro chiudersi con violenza alle sue spalle. «Non può confessare. Non glielo permetterò». Guardò di nuovo il colonnello e singhiozzò. «Li fermi. Per favore». Giunse le mani per supplicarlo. «Dovete lasciarlo andare. Arrestate me».

«Non posso», disse il colonnello, anche se si capiva che non avrebbe desiderato nulla di meglio. «È Kafele che lo ha voluto. Una confessione è una confessione e Wilkins vuole dei colpevoli. Lo avrebbe arrestato comunque». Sorrise con amarezza. «Sei una donna, una donna egiziana. A quanto pare, è preferibile che tu non venga toccata».

«Anche Tabia era una donna egiziana». La voce era resa stridula dalla paura.

«Sì, e come sai quello che è successo è stato messo a tacere».

«E lei pensa che sia giusto?»

«Certo che no. Come non penso che sia giusto tutto il resto».

«Non può permettere che il commissario Wilkins arresti Kafele».

«Cosa diavolo pensi che possa fare io?», urlò il colonnello. Nailah si fece subito piccola piccola. La guardava con occhi infuocati ma pieni di dolore.

«È innocente».

«Anche Olivia e Clara lo erano. Le avresti salvate, se solo avessi parlato».

«Sono tornata per madame Sheldon».

«Non abbastanza in fretta, e ora sono morte entrambe. Morte… Alistair Sheldon si è beccato un proiettile in corpo. Non avresti voluto entrarci, ma rimane il fatto che sei coinvolta, Nailah. Devi rassegnarti al fatto che ci saranno delle conseguenze, anche se non quelle che vorresti tu». Il colonnello alzò gli occhi al soffitto. Sopra al colletto incrostato di sabbia, la vena pulsava. «Kafele… nella migliore delle ipotesi resterà ai lavori forzati per decenni».

Nailah si premette una mano sullo stomaco al pensiero di Kafele che diventava vecchio e stanco in manette, o peggio, che annaspava livido con il cappio al collo.

«Quando…», bisbigliò. «Quando sarà celebrato il processo?»

«Presto».

«Potrebbero dichiararlo innocente». Sentì nascere una flebile speranza che le aprì il petto, arrivando quasi fino al cuore. «Ci saranno delle udienze. Testimonierò per lui, la verità verrà fuori. Anche su Tabia».

Il colonnello la guardò sdegnato. «Non ci sarà nessuna udienza», disse. «Si deciderà tutto presso un unico tribunale. Giustizia sommaria. Wilkins sta supervisionando le prove e conducendo gli interrogatori. Dipingerà le tragedie di Clara e Olivia come episodi di violenza nata dall’avidità, dirà che sono state rapite perché mogli di uomini ricchissimi. Da parte di egiziani cattivi. Perfidi. Kafele sarà punito e tutti saranno felici. Credimi, Nailah, è nell’interesse di Wilkins che tutto rimanga nascosto. Ha le tasche gonfie di mazzette». Scosse la testa. «Dubito che qualcuno avrebbe mai permesso che venisse fuori la verità. È tutto troppo squallido, troppo sconveniente. Troppo pericoloso».

Nailah abbassò lo sguardo. Quel resoconto così freddo e spietato l’aveva sconvolta: dunque Tabia era stata crudelmente uccisa e i suoi assassini sarebbero rimasti in libertà.

«Non c’è davvero nulla che lei possa fare per Kafele?»

«L’unica speranza sarebbe trovare Hassan o El Masri. Il buon vecchio zio Jahi. Se riuscissimo a portarli in tribunale per fargli giurare davanti a Wilkins che Kafele è innocente, forse potremmo salvarlo. Dove sono, Nailah?»

«Non lo so».

Il colonnello la fissò. Non le credeva.

«Non lo so. Lo giuro. Non ho idea di dove siano andati».

«Allora, chi ha aiutato Hassan? Deve esserci qualcun altro».

Nailah gli raccontò di Nassar Shahid.

Il colonnello sospirò. «Maledetto Nassar Shahid».

«Lo arresterà?».

Il colonnello stava per risponderle, ma la porta si spalancò, interrompendolo.

Era sir Gray, pallidissimo. «Ho visto Fadil», annunciò. «C’è qualcuno con lui sul suo cavallo, ma non so chi sia».

Il colonnello uscì lasciando la porta aperta e Nailah lo seguì. Guardò verso il cortile, sconvolta. Fadil era ormai arrivato, stava smontando da cavallo a meno di due metri da lei, con le bende insanguinate ancora intorno alla testa. Sulla sella era riversa una donna ricoperta di sabbia.

Nailah lo guardò sollevare quel corpo tra le braccia con una tale tenerezza che le fece male al cuore.