Capitolo due

Ovviamente la seguì. Era come se non avesse scelta. La guardò attraverso la nuvola del fumo dei sigari e i vapori dello champagne mentre le indicavano il suo tavolo. Dimenticò l’appuntamento con Tom, la cena fissata per la sua partenza dall’Egitto. Guardò le sue labbra che si muovevano mentre parlava al cameriere, il suo cenno di assenso a qualsiasi cosa le venisse proposta. (E queste furono la terza e la quarta cosa che notò). Il suo sguardo poi si fermò sulla linea degli zigomi, sugli schivi occhi a mandorla. C’era qualcosa di familiare in lei, ma non riuscì a individuare di cosa si trattasse.

La donna alzò lo sguardo su di lui, poi subito lo ritrasse. Troppo repentinamente. Edward fu certo che quel disinteresse fosse calcolato. C’era una certa tensione nelle sue spalle nude. Se ne accorse e provò un brivido di trionfo.

Lei lanciò un’altra occhiata nella sua direzione e inarcò le sopracciglia. Arrossì e non riuscì a trattenere un sorriso, sconfitta. Piegò la testa e i suoi boccoli castani oscillarono. Edward la osservò con aria soddisfatta. Gli piaceva quel sorriso.

Era quasi arrivato al suo tavolo quando lei si accorse che si era mosso. Quegli occhi, che non erano né blu, né grigi, né verdi si spalancarono per la sorpresa. Edward si accorse che aveva il colletto del vestito troppo largo, come se avesse da poco perso peso. Per qualche ragione quell’idea lo turbava.

«Si sta sedendo qui?», gli chiese lei mentre sfilava la sedia dal tavolo. «Non può. Ho un appuntamento con mia sorella».

«Eppure, eccomi qui». Le sorrise, desiderando intensamente che lei ricambiasse. «E non è un comportamento affatto scorretto, visto che sono quasi sicuro di conoscerla. Stavo appunto cercando di risolvere il mistero».

«E c’è riuscito?»

«Certo».

«Oh». Lei annuì, sembrava che stesse pensando a cosa dire. Posò gli occhi su di lui ed esaminò il suo completo da sera. «È davvero elegante per un uomo con il suo accento».

Edward scoppiò a ridere.

E anche lei.

Quella donna gli piaceva sempre di più.

«Mio padre possiede un’impresa tessile nel Derbyshire», le disse. «Siamo i nuovi ricchi. Ho cinque sorelle più grandi e tutte si sono rifiutate di sposare uomini titolati».

«Un peccato».

«Per me certamente. Di conseguenza sono stato mandato all’accademia militare di Sandhurst. Un ufficiale dell’esercito in famiglia è una gran cosa. Certo, non è come avere un lord». Sorrise e le porse la mano. «Sono il capitano Edward Bertram».

Quello che successe dopo, successe molto lentamente. Lei continuava ad avere un’espressione piuttosto attonita, ma la luce che le faceva risplendere i lineamenti, quella che lui aveva notato con tanto piacere, stava svanendo. Era come guardare qualcuno che precipitava. Non capì subito cosa stesse succedendo, ma prese la brocca, le versò un bicchiere e le chiese se andasse tutto bene.

«Ho appena rammentato chi sono», gli rispose. «Per un momento me ne ero scordata». Lo fissò. «Lei non indossa l’uniforme. Avrei potuto indovinare chi è se l’avesse indossata».

«Ma di che cosa sta parlando?». Era allibito dalle stranezze che stava dicendo, ma era più che sicuro che nessuna bizzarria sarebbe stata sufficiente a scoraggiarlo.

«Sono Olivia Sheldon».

Ecco, in teoria era sufficiente a scoraggiarlo.

Si scambiarono uno sguardo in silenzio. Nessuno dei due stava tentando di fingere che la cosa non avesse importanza. Lei sollevò il bicchiere d’acqua e poi lo riposò. Si accigliò e abbassò gli occhi così tanto da mettere in ombra le guance. Fu allora che Edward capì perché il suo volto gli era sembrato familiare. Naturalmente somigliava a Clara. Una versione più snella, dai colori diversi ma senza alcun dubbio sua sorella.

Lei disse: «Così sta ritornando a casa».

«Sì». Ora avrebbe dovuto dirle che nel giro di pochi mesi avrebbe lasciato l’Egitto. «Mi dispiace di essere stato lontano». Guardami, per favore. «Come si trova ad Alessandria?».

Lei fece una specie di sorriso. Sollevò la testa e incontrò lo sguardo di lui. E la disperazione nei suoi occhi gli fece desiderare, come non aveva mai desiderato nulla in vita sua, che Alistair Sheldon, l’uomo che tanti anni prima aveva corteggiato Clara in modo così ignobile ed era stato respinto a favore del suo socio in affari, avesse lasciato in pace la sorella più giovane.

 

Arrivarono tutti insieme. Clara, lanciando esclamazioni di piacere («Livvy, non ci avevi detto che veniva anche Teddy»), e i Carter, tutti felici di incontrare Olivia e Clara al ristorante («Che sorpresa», disse Imogen, il volto in fiamme per la gioia, cosa che la faceva sembrare molto più giovane dei suoi quarant’anni circa. Era sempre così felice di incontrarle: amica di lunga data della loro madre, le conosceva entrambe fin da bambine. «Mettiamoci allo stesso tavolo, perché no?»). Olivia si sentiva nello stesso tempo presente e stranamente lontana. Evidentemente si era alzata mentre i tavoli venivano spostati e le sedie sistemate perché a un tratto si ritrovò in piedi. Continuava a fissare quell’uomo, il suo viso la distaccava da tutto il resto. La sua pelle, così abbronzata sopra il colletto della camicia del frac; una traccia di barba dorata. I capelli castani che riflettevano deboli raggi di luce. Il sole, naturalmente. E i suoi occhi. Non danzavano più, proprio per niente. Ma erano appesantiti da qualcosa che lei non aveva mai visto nello sguardo blu di Alistair – calore; compassione.

Lo conosceva da meno di un quarto d’ora, eppure non si sentiva così a suo agio da mesi.

Quindi è così che ci si sente, pensò.

E poi: Che peccato.

I menu vennero portati e distribuiti. Qualcuno ordinò del vino («Champagne, direi», suggerì Tom). Olivia tentò di tenere lo sguardo fisso sul tavolo, sulle posate, sulle venature del legno… Ma niente, i suoi occhi continuavano ad andare verso la gamba di Edward, a pochi centimetri dalla sua. Sentiva la sua presenza nella pelle, nei muscoli. Sei una donna sposata. Sposata. E tuo marito ti ucciderà prima di lasciarti andare.

Sollevò il menu, l’idea di mangiare le pareva assurda, del tutto irrealizzabile. Senza avere la minima idea di dove stesse andando, si alzò.

Si alzò anche lui.

«Stai bene?», dissero in coro Clara e Imogen, tutte preoccupate. Anche loro erano scattate in piedi.

«Mi sembra che scotti», disse Clara. «Ti senti debole?»

«È molto rossa in viso», disse Imogen. «Tom, dalle dell’acqua».

«Per favore», disse lei. Lui fece un passo nella sua direzione. «Mi passerà». Guardò verso la porta del ristorante, la sua carrozza era sotto gli alberi in strada. Ed ecco i cavalli che l’avrebbero riportata a casa, l’ultimo posto al mondo dove avrebbe voluto recarsi ma l’unico in cui poteva andare. Prese la borsa e si girò.

«La accompagno», disse Edward.

«Sì, è una buona idea», disse Imogen.

Era un’idea tremenda.

«No», disse Clara che già stava raccogliendo le sue cose. «Accompagno io Livvy a casa».

Un’alternativa quasi peggiore. Prima di incontrare Alistair, Olivia aveva bisogno di stare sola, di raccogliere le idee. Sei una donna sposata. Sposata. Disse a Clara di restare: se la sarebbe cavata da sola. Davvero. Non era necessaria tanta preoccupazione, per l’amor del cielo.

Fece per andarsene. Clara protestò di nuovo, ma Olivia insistette. Mentre varcava la porta del ristorante, salutando con la mano, si sentì addosso il peso degli occhi di lui. Avvertì sul collo una sensazione di calore.

Fuori sul marciapiede, si sforzò di riprendere fiato. Piegò la testa all’indietro, guardando il cielo ora pieno di stelle, e cercò di provare un minimo di sollievo: finalmente fuori da quella sala affollata. Si rifiutava di sentirsi abbattuta. Non lo era. No, non lo era affatto.

Mandò a prendere la carrozza. Non si girò neppure a guardare la finestra del ristorante dietro di lei. Non tentò di vederlo di sfuggita, seduto al tavolo. Basta così, ordinò a se stessa. È ora di piantarla.

Alistair era a casa quando lei rientrò. Una candela era accesa nella loro stanza da letto: la vedeva dal vialetto di ingresso; un frammentario tremolio di luce che si prendeva gioco di lei. Strinse le labbra, espellendo lentamente il respiro. Alistair era sicuramente furioso. Non sopportava che la moglie uscisse senza di lui, specialmente in compagnia di Clara. Quando sua sorella aveva proposto quella cena la sera sembrava ancora lontana: era stato semplice ignorare la collera di suo marito, fingere che non avesse alcuna importanza.

Si sfiorò la pelle morbida dei fianchi e sentì i lividi – risalenti appena alla notte prima. Veniva punita perché non era Clara. Per quel colpo all’ego di Alistair, e forse anche al suo cuore, che Clara gli aveva inflitto incautamente, quando aveva scelto Jeremy al posto suo.

L’ombra di Alistair si muoveva dietro i vetri della finestra. In attesa, sempre in agguato. Olivia respirò profondamente, cercando la forza d affrontare ciò che stava per accadere. Le sembrava più difficile del solito, quella sera. Più difficile che mai. Strano. Ricordò a se stessa che avrebbe lottato, in fondo lo aveva sempre fatto. Non si sarebbe arresa. Almeno quello.

Lui naturalmente alla fine avrebbe prevalso. Sapeva anche questo.

Ma visto che non c’era niente da fare, avanzò di un passo sulla ghiaia, entrò in casa e salì lentamente le scale.

 

La mattina dopo non andò a nuotare. Alistair uscì per andare al lavoro, con un debole sorriso sulle labbra. Non ci sono andata, ma non certo a causa tua, avrebbe voluto gridargli.

Fece colazione in camera, tirando un filo scucito della poltrona, mentre ascoltava Edward in sala da pranzo, di sotto. La sua voce profonda arrivava fino a lei. Pensò che stesse parlando in arabo, anche se Alistair non lo tollerava in casa. Scoprì che quell’idea le piaceva. No, non ti piace. Non puoi. Sai cosa ti farà Alistair se solo si insospettisce. Sentì una risata, altre parole, una sedia che grattava per terra, rumore di passi nella sala.

Una pausa.

Trattenne il respiro.

Nessun rumore.

Si immaginò che lui la stesse aspettando in fondo alle scale, il viso abbronzato che guardava in alto. Le gambe le facevano male per la voglia di scendere e andare a vedere. Si ordinò di restare seduta sulla poltrona.

Passi sulle mattonelle, la porta di ingresso che veniva aperta e poi richiusa. E questa volta non poté fare a meno di alzarsi, correre alla finestra e allungare il collo. Lo vide fare il giro intorno alle stalle e uscirne a cavallo. Ammirò l’agilità con cui salì in sella e si allontanò cavalcando lungo il vialetto, le redini in una mano, l’altra abbandonata lungo il fianco. L’uniforme della marina in qualche modo lo faceva sembrare più alto rispetto alla sera prima. Più robusto e slanciato. Al cancello, si fermò. Lei si ritrovò a stringere con più forza il davanzale della finestra. Poi Edward si girò, guardò in alto, verso di lei. Si scambiarono uno sguardo, le fece un piccolo gesto di saluto con la mano.

Anche mentre ripeteva a se stessa che era sposata, sposata, lei sollevò la mano e ricambiò il sorriso.

 

«Sembri ancora piuttosto acciaccata», disse Clara mentre si sedevano in terrazzo per il tè della mattina. «Non hai dormito? Mi sono preoccupata».

«Sto bene».

«Non mi pare».

«Sono solo giù di corda, nient’altro».

«Forse sei…».

«No che non lo sono». Olivia sussultò, per un attimo distratta dai suoi pensieri su Edward e rapita dalla ripugnante idea di portare dentro di sé la carne e il sangue di Alistair un po’ più a lungo dei sette-otto minuti che le imponeva ogni notte. Prima di partire dall’Inghilterra era andata a farsi visitare da una ginecologa, le aveva dato un marchingegno che usava segretamente per assicurarsi di non rimanere mai incinta. Solo Dio sapeva cosa avrebbe fatto Alistair se fosse venuto a sapere che ne faceva uso. Solo a pensarci si sentiva la febbre.

Clara disse: «Se lo fossi, le cose potrebbero andare meglio, sai».

«Ne dubito».

«I bambini… ti ripagano di ogni sacrificio».

«Clara».

«Senza Ralph e Gus non so cosa farei».

«Clara!», gridò Olivia. «Non voglio avere un figlio da Alistair. Non potrei sopportarlo». Si portò una mano alla bocca, sbalordita con se stessa per aver parlato in modo tanto esplicito.

Clara la fissò. «Oh, Livvy».

«Evitiamo di parlarne».

«Penso che dovremmo, invece». Clara allungò il braccio e le afferrò la mano. «Magari ti sentiresti meglio».

Olivia istintivamente aprì la bocca per dire che no, non si sarebbe sentita meglio, proprio per niente, ma poi esitò sentendo il calore del tocco di Clara. Le venne la tentazione di lasciarsi sfuggire la verità che non aveva mai confessato, almeno in parte. Perché doveva essere così difficile? Clara le aveva detto che da bambina era stata talmente chiacchierona che era impossibile farla tacere. Sempre, sempre: il tuo piccolo cuore era come un libro aperto. Ora non riusciva neanche a immaginare cosa significasse sentirsi tanto liberi. Senza avere le difese alzate, una barriera invalicabile dentro di te, un muro che blocca ogni desiderio di parlare, che censura e controlla. Le suore sarebbero state felicissime di sapere che dentro di lei quel muro reggeva ancora; si erano date tanto da fare per erigerlo nel suo cuore. Allergiche alle lacrime, perlustravano il dormitorio di notte malmenando le ragazze che piangevano, tutte coloro che erano abbastanza sciocche da abbracciarsi a vicenda alla ricerca di conforto. Niente lacrime. («Piuttosto succhiati il pugno», le aveva detto la sua migliore amica Beatrice quella orribile prima notte. «Loro si arrabbieranno di più se tornano e ti trovano ancora a piangere…») Il pugno non aveva funzionato per Olivia (e le suore si erano arrabbiate ancora di più, moltissimo). Con il tempo, credeva di aver imparato a fingere che non ci fosse nulla di vero, che l’incubo che stava vivendo non fosse reale. Bastava non parlarne… Rifiutarsi di accettare quello che stava succedendo. E questo l’aveva aiutata a sopravvivere. In un certo senso.

E la stava aiutando anche adesso.

Almeno fino a ieri sera. Ora, semplicemente, non poteva più continuare a fingere. Non voleva. Non più.

«Livvy…».

«Non posso sfuggirgli», disse all’improvviso. Le parole le erano come scappate di bocca, finalmente libere. Le lasciarono un vuoto nel petto. «Lo odio per questo, ma odio me stessa anche di più…».

«Non odiarti, Livvy. Non farlo». Clara le strinse la mano ancora più forte. «Non lo permetterò. Odia lui, solamente lui».

«Non so cosa fare, Clara».

Sua sorella continuò a fissarla. «Livvy», disse lentamente, «si tratta solo di parole, giusto? Il suo modo di fare, intendo. Niente di fisico, no? Me lo avresti detto se c’era qualcos’altro, vero?».

Olivia deglutì e fece un cenno. Era ancora incapace, perfino con Clara, di ammettere la mortificante verità. «Solo parole».

Il sollievo che rischiarò il viso di Clara le fece capire che aveva fatto bene a mentire. «Anche così, immagino che sia piuttosto dura», disse Clara. «Vorrei aiutarti. Dimmi come posso farlo».

«Non ne ho idea. L’ho sposato. Ho compiuto io questa scelta».

«In realtà non avevi scelta».

«Però l’ho fatto. Avrei dovuto essere più forte. Trovare un’altra strada».

«Quale altra strada? Dove potevi andare? Con quali soldi?»

«Non lo so». Olivia aggrottò la fronte mentre cercava per l’ennesima volta una via di fuga che avrebbe potuto imboccare all’epoca. Lei e Beatrice avevano esaminato insieme ogni singola possibilità, più e più volte. Olivia abitava con lei e la zia quando era arrivato Alistair. Anche Beatrice stava per lasciare l’Inghilterra per andare nella casa dei genitori in India: erano missionari, avevano pochi soldi. Olivia aveva programmato di usare la sua rendita per andarsene a sua volta e trasferirsi laggiù. Prima che Mildred bloccasse tutto quanto. L’aveva minacciata di allertare le dogane se Olivia avesse tentato di sfidarla facendosi prestare i soldi per il biglietto. Le aveva detto che avrebbe informato gli agenti che Olivia era sotto la sua tutela e viaggiava senza permesso: a quel punto l’avrebbero spedita in convento e fine della storia. Disperata, Olivia aveva consultato degli avvocati – un sacco di avvocati. Forse Mildred non aveva tutto il potere che millantava? Nel caso, era determinata a scoprirlo. Ma tutti le avevano detto la stessa cosa – e cioè che i termini della custodia non si potevano discutere; Mildred poteva fare di lei quello che voleva, finché il tribunale avesse ritenuto che stesse agendo nel suo esclusivo interesse. Le consiglio di accettare la situazione, mia cara. È la cosa migliore. Lei è così giovane, una donna sola, senza mezzi per assicurarsi un minimo di indipendenza. Nessun giudice la prenderà sul serio. E anche se ne trovassimo uno, lei non potrebbe permettersi le spese legali. «Ho tentato di convincermi che avrei potuto trovare dei lati positivi, fare di necessità virtù», disse ora. «Non sapevo che Alistair… pensavo… non so, che forse avrei potuto provare a farmelo piacere. E poi mi aveva detto che tu vivevi qui. Che ti avrei rivisto». Posò gli occhi sul viso afflitto di Clara. «Questo ha reso le cose più facili».

«Oh, Livvy».

«È fatta», disse Olivia, «e io sono sua. E non perde occasione per ricordarmelo. Non mi concederà mai il divorzio».

Clara trasalì. «Vorresti divorziare?». La sua voce era sommessa, come se avesse paura di quello che stava dicendo. «Ma pensa a cosa ti succederebbe. È una cosa che non fa nessuno».

«No», disse Olivia, «non credo sia mai successo».

«Dove mai andresti a vivere? Non sono sicura che Jeremy vorrebbe… Be’, che tu venissi a vivere con noi. I ragazzi, lo scandalo!».

«Credimi, Clara. Non te lo chiederei».

«Potresti anche farlo, Livvy, se fossi io a decidere. Ma», spalancò gli occhi, impotente, «la tua vita sarebbe…».

«Finita. Certo». Olivia chinò la testa. Lo è comunque. «Come ho detto, è inutile parlarne. Sarebbe necessario che Alistair mi concedesse il divorzio, e non lo farà mai». Sospirò. «Parliamo d’altro? Preferirei».

Clara ebbe un attimo di esitazione.

«Ti prego, Clara».

«Va bene», disse. «Ma io sono qui, Livvy. Ricordatelo. Ci sarò sempre. Non sei sola».

«Certo». Era già qualcosa.

Clara le lasciò la mano e le fece una carezza. «Devi mangiare di più». Sorrise mestamente. «Cominciamo con la torta».

Rivolse la sua attenzione al dolce con l’uvetta che avevano di fronte a loro. Mentre abbassava il coltello e le briciole si rovesciavano sul piatto, smise di sorridere. Notando le ombre sul suo viso e il pallore della sua pelle, Olivia ricordò il modo in cui guardava Ralph, il giorno prima.

Le chiese se stesse pensando a lui.

Clara sollevò lo sguardo, evidentemente sorpresa dalla domanda, e disse: «No, no».

«Allora che c’è che non va?»

«Niente, Livvy. Niente. Non c’è proprio nulla che non vada. Sono in cima al mondo».

In cima al mondo? Olivia sbottò in una risata soffocata. Non sapeva da dove le fosse uscita quella reazione. Era sconvolta, certo, più che sconvolta. Però la risata tornò, fendendo la tensione che aleggiava nell’aria. Non riuscì a trattenersi.

Anche Clara si mise a ridere, con il coltello in mano. Le brillavano gli occhi. E neppure lei era in grado di smettere. Più rideva, più Olivia le andava dietro. Ma di cosa ridevano? Non ne aveva idea.

Alla fine, Clara si strofinò gli occhi con il palmo della mano. «Oh, Livvy», disse prendendo fiato, «che c’è di guasto in noi?»

«Non lo so», disse Olivia, «davvero non lo so».

Clara sospirò e scosse la testa. «Sono comunque contenta che Teddy sia tornato», disse, ricordandolo anche a Olivia. «Mi sento meglio sapendo che è qui e che ti può anche fare un po’ di compagnia. L’ho conosciuto non molto tempo dopo il suo arrivo ad Alessandria, tre anni fa. Mi sono ritrovata a chiacchierare con lui una notte a una festa. Da allora è stato un grande amico per me. In questi giorni conto di fare affidamento su di lui. Ti piacerà, quando imparerai a conoscerlo».

«Certo», disse Olivia, «certo». Sollevò la brocca di fronte a lei. «Tè?»

«Quello è il latte».

Olivia guardò il contenitore che aveva in mano. Latte. Certo.

 

Nei tre giorni successivi, Olivia non ebbe altra compagnia a parte Clara. Restarono a casa. Clara provò a convincerla a uscire ma lei rifiutò. Non che non ne avesse voglia, anzi. Normalmente amava svagarsi recandosi da qualche parte – se non in centro, almeno allo Sporting Club per bere qualcosa, oppure alla Stanley Bay, la spiaggia pubblica di Ramleh, per fare una passeggiata. Perfino i negozi dei sobborghi – le rosticcerie, i fornai e i fruttivendoli che tutti gli inglesi residenti a Ramleh frequentavano – erano un pretesto per cambiare aria. Ma adesso non ce la faceva. Se ripensava a come si era comportato Alistair la sera che era andata a cena al Sabia… aveva paura di farlo arrabbiare di nuovo. Prima o poi ce l’avrebbe fatta a respingerlo, ne era sicura, ma non ancora.

«Bene allora», disse Clara, «dovremo trovare qualcosa da fare in casa. Che ne dici del bridge?».

C’erano delle volte, quando giocavano, che Clara diventava silenziosa e aveva l’aria stanca; però se Olivia le chiedeva se c’era qualcosa che la turbasse lei si schermiva e le diceva che stava splendidamente.

«No, non è vero», ribatteva Olivia. E poi, pensando alle tensioni con il marito a cui Clara alludeva spesso, le chiedeva: «Si tratta di Jeremy? Ti ha fatto arrabbiare?»

«Non più del solito», rispondeva Clara. «E io non posso permettere che tu stia in pensiero per me, Livvy. Assolutamente no».

Per distrarla, spostava il discorso sui bambini (Avresti dovuto vedere Gus questa mattina…), o su qualche programma per il futuro, cose da fare insieme. (Mi piacerebbe andare al Cairo, non ci sono mai stata, non da quando mamma e papà sono morti e siamo dovute partire. Potrebbe essere bello tornarci insieme ora. Potremmo scendere allo Shepheard, una breve vacanza, anche solo per andare a vedere la nostra vecchia casa).

Non nominavano mai Alistair. Però Olivia si sentiva più libera da quando aveva ammesso di odiarlo. Era felice di averglielo detto. Sentiva che Clara le avrebbe chiesto di parlarne di nuovo, stava solo aspettando il momento giusto, proprio come Olivia non attendeva che l’occasione più adatta per estorcere a sua sorella la vera causa dei suoi tormenti. Stavano percorrendo un sentiero che richiedeva prudenza, fianco a fianco, e stavano ancora imparando a conoscersi meglio l’un l’altra. Olivia si disse che alla fine ci sarebbero riuscite, senza dubbio. Erano insieme e avevano tempo.

Da parte sua si disse che avrebbe potuto essere più sincera, la prossima volta che Clara le avesse chiesto di Alistair. Si tratta di parole, vero, Livvy? Doveva trovare il coraggio per confessare e togliersi dalla mente il ricordo dell’espressione sollevata di Clara quando le aveva mentito.

Forse.

Di Edward non parlava mai. In compenso Clara le chiedeva notizie sul suo conto in continuazione. Teddy. «Non mi è venuto a trovare», disse Clara. «Sono molto arrabbiata con lui. Diglielo. Digli di passare a salutarmi, per favore».

«Va bene». disse Olivia.

Non lo fece.

Si costringeva a evitarlo del tutto, quando era in casa. Come poteva Alistair scoprire che c’era qualcosa non andava – anzi, come poteva esserci qualcosa che non andava se lei non lo avvicinava mai?

Faceva colazione in camera e aspettava che Edward uscisse la mattina prima di andare a nuotare. Poi si rifugiava al piano di sopra, al sicuro, molto prima che lui rientrasse la sera.

Le cene erano complicate. Sedevano al tavolo uno di fronte all’altra, Alistair tra loro a capotavola. Edward le faceva così tante domande con il suo morbido accento del Nord, indagando senza sosta: come era andata la giornata? Cosa aveva visto fino a adesso di Alessandria? Era andata a nuotare? Dove aveva imparato? La presenza di Alistair era un macigno per lei, e quindi non si era permessa neppure una volta di incrociare il suo sguardo. Tuttavia desiderava da morire che continuasse a parlarle e a farle delle domande, fosse anche solo per essere sicura che la stesse guardando e fosse interessato a lei. Rispondeva a monosillabi. Sperava che la sua freddezza bastasse a scoraggiarlo. E allo stesso tempo quella prospettiva la terrorizzava.

La quarta sera, dopo cena, Alistair andò al club. Il silenzio che regnava in casa convinse Olivia che anche Edward era uscito. Andò in salotto, felice di non essere costretta a richiudersi nella sua stanza, per una volta.

Si sedette al piano, con le dita che scorrevano sui tasti, e fece un salto per via di un rumore che veniva dalla terrazza. Era Edward che saliva le scale. Si fermò per un attimo, e la guardò attraverso le finestre aperte.

«Credevo che fossi uscito», disse, mentre per la sorpresa si dimenticò che non avrebbe dovuto rivolgergli la parola.

«Lo ero». Annuì rivolto verso la dépendance dove il suo attendente aveva preso una camera. «Sono andato a trovare Fadil. Il mio cavallo ha perso un ferro».

«Oh». Non le venne in mente altro da dire. Si irrigidì, preparandosi ad andarsene.

Edward entrò nella stanza. Si sedette di fronte a lei alla luce delle candele, prese una sigaretta e gliene offrì una.

Lei scosse la testa.

Per un momento scese il silenzio. Da lontano arrivava il rumore delle onde del mare. Si accese un fiammifero e tirò una boccata.

«Bene», disse lei, «preferirei…».

«Resta qui», le disse. «Ti prego».

«Non dovrei».

«Dovresti, invece», disse. «Questa è casa tua. Non sopporto di vederti in questo stato». Si piegò verso di lei con le braccia poggiate sulle gambe e la sigaretta in mano. «Parlami, Olly». Sollevò le sopracciglia in un’espressione sorpresa. «Posso chiamarti così?»

«Se vuoi». E poi, visto che Alistair era uscito e che gli ultimi giorni erano stati davvero indicibilmente lunghi, e che in realtà la cosa che più desiderava era esattamente quella – restare, parlare, come aveva detto Edward, offrirgli qualcosa di sé – aggiunse: «La mia amica Beatrice in patria mi chiamava così».

«Una tua buona amica?»

«La mia migliore amica».

«Hai dovuto lasciarla».

«In verità cerco di non pensarci».

«Perché è troppo dura?»

«Sì», disse, felice che lui la capisse. «Esattamente».

Prese un’altra boccata e sbuffò fuori il fumo. «Anch’io cerco di non pensarci», disse. «Ho cinque sorelle».

«Me lo ricordo».

Edward sorrise. Sembrava contento che lei se lo ricordasse. «Mi scrivono tutte le settimane. Non ne saltano una. Tra l’una e l’altra hanno un centinaio di bambini».

«Un centinaio?».

Lui rise. «Parecchi. Dio solo sa come trovano il tempo di scrivermi».

«Però lo fanno».

«Sì, lo fanno. E mi raccontano minuziosamente le loro storie, aneddoti sulle corse con i pattini sul ghiaccio, sulle gare a cavallo. Mi sto perdendo tutto questo e non lo sopporto, non so dirti quanto sia dura. Ma mi aiuta, sai, pensare che la vita va avanti». Alzò gli occhi su Olivia, scrutandola, perfettamente immobile sullo sgabello del pianoforte. Diede un colpetto alla sigaretta nel posacenere. «Qualche volta è meglio aggrapparsi alle cose che ti sei lasciato indietro. Ti permette di conservare il legame con la tua vera identità».

«Dici?». Olivia fece scorrere le dita sui tasti del piano, pensando a quello che le aveva detto, pensando a lui. Ne premette uno, poi un altro; le note vuote riempirono la stanza. «Il giorno in cui sono arrivata ad Alessandria, Clara è venuta a trovarmi qui a casa». Parlava senza sapere dove stava andando a parare. «Non la vedevo da quando avevo otto anni. Non c’eravamo mai scritte. Non avevo il suo indirizzo e nostra nonna non ha mai dato a Clara il mio». Esitò per un attimo, pensando a tutti i biglietti che aveva scritto e gettato via. Una solitudine spaventosa. «Non nutrivo più alcuna speranza di rivederla», disse. «Non pensavo che sarebbe mai successo. Ed ero così nervosa… Non sapevo se lei avrebbe voluto conoscermi. Mia nonna mi aveva detto che non aveva mai chiesto di me…».

«E invece l’aveva fatto», disse Edward con dolcezza.

«Sì», disse Olivia, «Clara me lo ha detto. Ma quando sono arrivata qui, non avevo idea di cosa mi aspettasse. E invece, proprio nel viale di accesso… c’era Clara, mi stava aspettando. Non so dirti cosa ho provato quando l’ho vista. Sembrava così… diversa da come me l’ero immaginata. Credo che mi aspettassi quasi di incontrare una quattordicenne». Olivia si interruppe perché la confusione di quel momento si impossessò nuovamente di lei. «Aveva con sé un pasticcio di rognone», aggiunse. «Mi disse che era il mio piatto preferito, da bambina, ma io non ricordavo di averlo mai mangiato. Ero troppo… colpita, credo, da tutto l’affetto che mi dimostrava, dal fatto che fosse lì, vera, reale». Si corrucciò. «Avresti dovuto vedere la sua faccia quando capì che me ne ero dimenticata. Cercò di farmi credere che non le importava, snocciolò una caterva di “è assolutamente comprensibile” e “non ti devi preoccupare nella maniera più assoluta”».

«Me lo immagino».

Lei scosse la testa. «Per tutti questi anni si era ricordata quale fosse il mio dolce preferito. Si era aggrappata a questi dettagli, a ogni piccola cosa. Io invece ho dimenticato tutto». Pensava ai recenti silenzi di Clara, alle ombre che le scurivano il viso. «Deve aver sofferto. Il mio comportamento… Non sopporto l’idea di averle procurato tanto dolore. Penso proprio che non ne possa più di tutta questa sofferenza». Si guardò le dita. «Non so perché ti sto dicendo tutto questo». Fece un sorriso imbarazzato.

Lui la scrutò, apparentemente assorto in una profonda riflessione. I suoi occhi erano ricolmi della morbida luce delle candele. Poi disse: «Clara è sempre stata preoccupata per te, da quando la conosco. È stata una delle prime cose di cui abbiamo parlato quando sono arrivato. Aveva tentato in tutti i modi di trovarti».

«Lo so».

«Nessuno può capire quello che ti è successo meglio di lei».

«Lo so», ripeté Olivia. Le parole le uscivano a stento. Sentiva un groppo alla gola che si ingrossava sempre più e le impediva di parlare. Deglutì con forza e lo mandò giù.

«Una volta ho chiesto a Clara», disse, «perché vostra nonna avesse fatto una cosa del genere. Separarvi in questo modo, intendo».

«E lei?»

«Ha detto che fu a causa di vostra madre. Che vostra nonna la odiava».

Olivia annuì lentamente. «Credo che la odierà per sempre». Tornò con il pensiero a tutto quello che le era stato raccontato dei suoi genitori. Di solito non le piaceva pensare a loro – non avere ricordi privati, suoi e solo suoi, la faceva sentire terribilmente distaccata, come se non fossero che personaggi di un racconto – ma quella sera, mentre Edward la guardava, si sentiva in grado di affrontare la prova. «Mio padre era un archeologo», disse, «era venuto in Egitto per uno scavo. Mamma era già qui, era cresciuta ad Alessandria. Si conobbero, si sposarono e si trasferirono al Cairo. Papà non tornò mai in patria, per tutto quel tempo».

«E tua nonna non ne fu contenta?»

«Provò a convincerlo a tornare, molte volte a quanto pare, specialmente dopo la nascita di Clara. Insistette per anni. Quando Clara compì sei anni alla fine ci riuscì; si era data da fare perché gli venisse offerto un posto a Londra. Ma, ecco», Olivia alzò le spalle, «mia madre era incinta di me e non volle lasciare l’Egitto. Anche per colpa mia, credo». Abbassò il capo pensando all’ostinazione con cui Mildred aveva preteso di ottenere una completa vendetta negli anni successivi. «Avrei solo voluto avere qualcosa dei miei genitori. Se solo potessi ricordare qualche cosa».

Lui spense la sigaretta nel posacenere. «Lo sai perché hai dimenticato?».

Olivia non rispose subito. Era disorientata dalla quantità di cose che gli stava raccontando, dalla strana sensazione che questa nuova confidenza le trasmetteva – in qualche modo si sentiva leggera, come quando le scioglievano i lacci del corsetto e tornava a respirare, e allo stesso tempo le girava un po’ la testa.

Lui non le mise fretta. Si limitava a guardarla.

«Era il giorno in cui arrivammo in Inghilterra, io e Clara, dopo la morte dei nostri genitori». Cominciò a narrare con maggior precisione. «Era tutto così orribile, un freddo polare». Guardò in alto, verso il soffitto, e le tornò in mente quel mattino grigio. Una scena la scosse: una giovane Clara che gridava sulla banchina, il viso sconvolto, trattenuta dalla loro nonna. E lei stessa, che si dimenava nel vestito nero da lutto, trascinata via da suore che non aveva mai visto, singhiozzando e soffocando in preda al panico. «Il viaggio in carrozza con quelle suore fu molto lungo. Non mi rivolgevano la parola. Il collegio, quando arrivammo, era enorme. Buio. E gelido, così gelido. Mi persi nei corridoi. Stavo cercando i gabinetti, capisci». Prese fiato rivedendo se stessa correre lungo i corridoi. Non era arrivata in tempo, e poi suor Agnese aveva detto a tutte le altre ragazze che se l’era fatta sotto. «Restavo sveglia tutta la notte. Avevo paura…».

«Del buio?»

«No», scosse la testa. «Della possibilità che Clara venisse a prendermi e non trovasse la strada per raggiungermi». Lo guardò con gli occhi così asciutti che le facevano male. «Ti prego, non dirlo a Clara. Non potrebbe sopportarlo, se lo sapesse».

«Non lo farò di certo», disse.

«Grazie». Si mise la mano sulla gola. Il grumo sembrava essersi sciolto. Indicò le sue sigarette. «Ripensandoci, potrei anche prenderne una».

«Ah sì?». Quando lui sorrise, l’atmosfera nella stanza parve farsi più leggera.

Accese una sigaretta e gliela passò. Le loro dita si sfiorarono.

Olivia aspirò, tossendo.

E lui fece un altro mezzo sorriso. «Non farlo se non ti piace».

«Devo solo farci l’abitudine».

«Odio quelle suore», disse lui.

«Anch’io».

Ci fu un breve silenzio.

«Parlami di Beatrice», le disse Edward.

E così lei fece.

In seguito non avrebbe saputo dire quanto avessero parlato. Sapeva solo che le ore passavano, le candele si erano completamente sciolte nei loro candelabri.

Alla fine Olivia pensò con grande riluttanza ad Alistair, che stava tornando, e disse che doveva andare a dormire.

Si alzò, e lo fece anche lui. «Non ce la faccio a pensarti qui, tutto il giorno… Starai impazzendo».

«Clara viene a trovarmi, e poi nuoto».

«Ma non ti va di uscire?»

«Alistair non vuole che io prenda la carrozza».

Edward si rabbuiò. «Questo non va bene».

Lei fece per andarsene.

«Olly», la chiamò.

Si girò.

«Hai visto cosa abbiamo fatto?», disse in tono grave, ma i suoi occhi brillavano. «Abbiamo parlato. E non è andata così male, non credi?»

«No», sorrise lei, «non così male».

 

La mattina dopo lo vide andar via. La salutò come aveva fatto il primo giorno. Lei ricambiò.

Fece colazione, si sedette al piano per un po’, ripercorrendo la loro conversazione della sera prima, mordendosi le labbra mentre sorrideva per la sorpresa che fosse successo davvero.

Lei era una donna sposata, spo… soffocò la voce dentro di sé. Non voleva sentire quella parola.

Aveva bisogno d’aria, quindi andò a nuotare. Dopo si sedette sugli scogli, ancora gocciolante, con sotto il telo da spiaggia. La calda luce del mattino le scottava le spalle. Il sole diventava ogni giorno più feroce. Poteva sentire la sua pelle tirata, abbrustolita dalla calura. Alzò lo sguardo al cielo con gli occhi chiusi, chiedendosi dove fosse lui in quel momento.

«Ciao, Olly».

La voce veniva da dietro.

Girò la testa di qua e di là per vederlo. Sorrise, una reazione spontanea e improvvisa. Era talmente felice di quella sorpresa che non provò neanche a nascondere la gioia. Era a parecchi metri di distanza, sul prato ai piedi delle rocce, la giubba slacciata, una camicia bianca, stivali lunghi. Si schermava gli occhi con le mani per ripararli dal bagliore del sole.

«Che ci fai a casa?», gli chiese, e solo in quel momento rammentò che era ben poco vestita. Provò a sollevare il telo ma era bloccato sotto di lei, e non poteva tirarsi in piedi senza scoprirsi in modo sconveniente. «Eri andato via, ti ho visto».

«Ora sono tornato».

«Evidentemente».

Lui rise.

Olivia sollevò di nuovo il telo da mare. «Edward».

Lui alzò le mani e si girò per darle le spalle.

«Ho avuto un’idea».

«Un’idea?». Si alzò in fretta e si dimenò per avvolgersi nel telo.

«Ti ho comprato un regalo».

«Sul serio?». Il suo cuore sussultò. «Che cos’è?»

«Vuoi vederlo?»

«Mi posso rivestire prima?».

Lui rise di nuovo: «Penso che sia saggio, sì».

Tornando verso casa le suggerì di mettersi qualcosa di comodo.

«Perché?», chiese.

«Lo vedrai».

Quando scese, con il corpo ancora umido sotto il vestito di cotone, lo trovò ad aspettarla nel porticato.

«Così va bene?», gli chiese.

Appena lui la vide gli si illuminarono gli occhi. «Credo proprio di sì». Tese la mano indicando la porta di ingresso. «Dopo di te».

La condusse nella scuderia; l’aria là era polverosa e dolciastra, vibrante del rumore dei pony da calesse che trascinavano gli zoccoli sul fieno. Si fermò di fronte a una stalla che ospitava un cavallo marrone.

«È tuo», disse aprendo il cancello.

«Mio?»

«Sì».

«Ma», disse, «Alistair…».

«Non c’è bisogno di dirglielo. Gli spiegherò che l’ho presa per me, che ne ho avuto pietà. Una giumenta da riproduzione, non più nel fiore degli anni, che sarò ben felice di prestarti».

Olivia entrò nella stalla e carezzò il manto setoso della cavalla, sentendone i muscoli. «Questo però è vero, giusto? Non è più nel fiore degli anni, intendo».

«Ci tengo che sia tua», disse senza rispondere alla domanda.

Lei scosse la testa. «Non so andare a cavallo».

«Te lo insegnerò io. Mi piacerebbe molto. Se ti fa sentire più tranquilla, possiamo farlo quando Alistair è al lavoro. Se te lo chiede, digli che hai imparato in Inghilterra. Cavalcare sarà qualcosa solamente tuo. Potrai andare via, lontano».

Le mani di Olivia corsero sul collo della cavalla, intorno alla testa; la bestia si strusciava sui suoi palmi mentre le narici tiravano fuori aria calda e umida. E allora pensò: Ha fatto questo per me. Ci ha pensato, l’ha programmato. Lo guardò con la coda dell’occhio. Lui la fissava perplesso, aspettando ancora di scoprire se aveva fatto la cosa giusta. Alistair mi ucciderà se capisce che cosa significa.

«Olly?»

«Lontano», ripeté lei lentamente. «Mi piace quest’idea».

E lui scoppiò a ridere. «E allora andiamo».

Lei spalancò gli occhi. «Ora?»

«Ora».

Esitò, ma solo per un attimo. «Va bene».

«Che nome vuoi darle?», le chiese mentre tornavano indietro, verso la luce del sole.

«Bea, penso», disse impulsivamente.

«Per la tua amica?»

«Sì».

«Va bene. È un bel nome».

La condusse in un campo vicino, inginocchiandosi e offrendole la mano per aiutarla a salire. Aveva assicurato a Bea una sella da uomo. Lei esitò, guardandola dubbiosa; per la prima volta le capitava di chiedersi come avrebbe fatto a mettere una gamba da un lato della sella e l’altra dall’altro.

Guardò Edward, ancora inginocchiato per terra. «Ora capisco perché mi hai chiesto di indossare qualcosa di comodo», gli disse.

Lui sorrise rammaricato. Le disse che temeva di non sapere insegnarle a cavalcare all’amazzone. Sperava che lei non si scandalizzasse.

«No», rispose lei, ben decisa a non scandalizzarsi. Appoggiò il piede sul palmo di lui. «Naturalmente no».

E tuttavia arrossì quando lui la sollevò e lei dovette divincolarsi e spostarsi per mettersi in posizione senza mostrare le sottane. Poi si sistemò il vestito tutto intorno a sé, coprendosi, e giurò a se stessa che avrebbe usato la sua piccola rendita per procurarsi il prima possibile la gonna con sotto i pantaloni, fatta apposta per cavalcare, che aveva visto reclamizzata a Londra.

Lui la aiutò con le staffe. Lei cercò di non fissare i movimenti delle sue mani che sistemavano il cuoio e delle sue braccia che le sfioravano le calze.

Afferrò le redini di Bea, incoraggiandola a muoversi. Gli alberi erano gravidi di fiori primaverili che li riparavano dalla strada, nascondendoli. Spandevano un profumo fresco e dolce, che si mescolava con l’odore intenso della terra bagnata di rugiada. Dopo un po’ Olivia dimenticò tutta la sua agitazione e cominciò a rilassarsi.

Lui la lasciò indietro e andò al centro del campo per guardarla. Le gridò di andare più veloce. «Dalle un calcio. Non le farai male».

Olivia assestò un colpetto leggero alla pancia di Bea con l’interno dei piedi, ma il cavallo continuò ad avanzare con il suo passo pesante. Provò di nuovo. «Andiamo, andiamo». Nulla. Si sentì improvvisamente goffa. «Forza, andiamo». Non sembrava che funzionasse, niente affatto. Si rivolse a Edward con un grido: «Cosa sto sbagliando?».

Lui era in piedi, senza la giubba, le maniche arrotolate e le braccia conserte. C’era talmente tanta luce che era impossibile distinguere la sua espressione. Stava forse ridendo?

«Edward…?»

«Il calcio deve essere forse un po’ più forte».

«Così?»

«No, un po’ più forte».

«Così?»

«Un po’ di più».

Per l’amor del cielo. Conficcò con forza i piedi.

«Sì, così, molto bene. Ora abbassa i talloni».

«L’ho fatto».

«Non proprio, no. Tira su le punte dei piedi. Le punte, non i talloni… I talloni giù. No, ora sono più in su. Olly, i tuoi piedi stanno uscendo dalle staffe, mettili… no, non così. Non ti preoccupare. Faresti meglio a fermarti, ti faccio vedere io».

Lei lo guardò strizzando gli occhi mentre Edward si avvicinava attraversando il prato e scuotendo la testa per prenderla in giro. Le tremavano le gambe. Tese i muscoli per controllarsi. Calma. Lui si avvicinò ancora. Armeggiò con le redini di Bea facendo scorrere il cuoio tra il pollice e l’indice, cercando di distrarsi dal rossore che le stava colorando le guance.

«Stai bene?», le chiese. «Ti sei stancata?»

«No», rispose lei. Poi: «Ho paura di non essere una brava allieva».

«Stai andando molto bene. Molto meglio dei miei sottoufficiali, quando iniziano».

Olivia non poté fare a meno di ridere.

Rise anche lui. «Ecco». Le afferrò lo stivale, scostando la gonna. E immediatamente smise di sorridere. «Tutte queste sottogonne», disse sottovoce. Il viso abbronzato e rivolto in avanti si rabbuiò per la concentrazione. Aveva un’espressione quasi severa.

Lei sentiva le sue dita sfiorarle il polpaccio, il loro calore attraverso le calze. Edward le afferrò la caviglia, alzò gli occhi e incontrò lo sguardo di lei. Per un istante Olivia ebbe l’impressione che tutti e due avessero smesso di respirare.

Poi lui inclinò il piede e le piazzò la staffa sopra la punta. «Così», disse.

«Sì». Lei riuscì a fare un piccolo sorriso. «Certo. Capisco».

 

Dopo quel giorno, ogni mattina lui la portava a cavalcare. Usciva di casa come al solito, fermandosi di fronte alla sua finestra, rivolgendo il saluto di sempre – uno formale a lei, un altro con due dita a suo marito, dannazione – poi faceva rapporto in caserma, avviava le esercitazioni dei suoi uomini («Ottimo lavoro, non avete bisogno di me qui») e a quel punto tornava indietro.

Olly aveva confessato ad Alistair che aveva cominciato a cavalcare Bea. Si era detta che era meglio che lo venisse a sapere direttamente da lei. Gli aveva spiegato che faceva solo brevi giri intorno a Ramleh, per prendere l’aria fresca e fare esercizio. Alistair ne discusse con Edward – di sicuro non gradiva che Olivia stancasse il suo cavallo, no? – ma lui rispose che al contrario era più che felice che la moglie del suo amico prendesse Bea in prestito. Davvero, non aveva nessuna intenzione di opporsi.

Continuarono a sostenere la versione che Olly aveva imparato a cavalcare in Inghilterra.

Lei si comprò l’abbigliamento adatto. Un giorno, quando incontrò Edward nelle stalle, fece una piroetta mostrando i pantaloni nascosti nella gonna. «La sarta era sconcertata», disse ridendo.

Edward, gustandosi la sua gioia, dovette prendersi un attimo prima di rispondere. Quando ci riuscì, le assicurò che aveva un aspetto stupendo.

«Bene», disse lei raggiante.

«Cosa ne pensa Alistair?».

Lei si rannuvolò. «Era meno convinto di te». Alzò le spalle a fatica. «Nessun problema».

Era chiaro che non era vero. Lui stava per esortarla a dirgli di più, ma Olivia lo precedette andando da Bea. «Partiamo?», chiese.

Era evidente che non voleva parlarne, quindi Edward rinunciò.

I giorni passavano, e poi le settimane, e lei cavalcava sempre meglio. Molto meglio. Le insegnò il trotto, il piccolo galoppo, e poi a saltare; gli piaceva la luce che le rischiarava il viso quando superava gli ostacoli, il modo in cui dimenticava tutta la sua infelicità per quei pochi, felici momenti.

Escogitarono altri modi per vedersi. Mezze ore rubate in salotto, prima che Alistair tornasse a casa, serate colte al volo quando lui andava al club. Parlarono di così tante cose, loro due… Non era mai abbastanza. Lei cominciava a dirgli tutto, senza più pause tra una parola e l’altra. Smise di chiedere scusa per le confidenze che gli faceva.

E lui ne era felice.

Gli parlò a lungo del collegio e delle suore. Di sua nonna, di come si era comportata. Gli disse che era stata Mildred ad aiutare Alistair a trovarla. («Gli diede il mio indirizzo, l’unica persona a cui abbia mai detto dove fossi»). Edward detestava Mildred, detestava tutti e anche se stesso – perché non aveva fatto nulla quando avrebbe potuto aiutarla.

Lui le raccontò la storia della sua infanzia, di certo più per vederla ridere che per un vero desiderio di rammentare i giorni in cui le sorelle lo agghindavano con i loro vestiti da donna. E quando Olivia rideva, rideva anche lui, felice di averle portato un po’ di allegria.

Alla fine di aprile Edward andò a trovare Tom. Gli chiese se ci fosse un modo per far saltare il trasferimento a Jaipur.

Tom si mise le mani in testa. «Posso chiedere cosa ha provocato questa decisione?»

«Non importa».

«Invece importa eccome». Tom si passò le mani sul volto magro, lisciandosi i mustacchi. «Non ha niente a che fare con le tue lezioni di equitazione, vero?»

«Le mie… Come lo sai?»

«Me lo ha detto Imogen».

«Imogen? E come ha fatto a…».

«Imogen sa sempre tutto, vecchio mio».

Edward volse gli occhi al soffitto. I punkah di tela oscillavano avanti e indietro smuovendo l’aria calda.

«Non ti preoccupare», disse Tom con voce rassicurante, «la sua cameriera vi ha visti una volta. E questo è tutto. Sai quanto si preoccupa Imogen per quelle ragazze».

Edward sospirò annuendo. Imogen gli aveva parlato della sua grande amicizia con la madre di Olly, Grace. Per anni aveva cercato di scoprire che fine avesse fatto Olly. Ho scritto così tante volte a quella donna, Mildred. Si è sempre rifiutata di dirmi cosa avesse combinato e dove fosse Olivia.

«Se posso, vorrei darti un piccolo consiglio», disse Tom. «Meglio non tentare di cambiare ciò che non si può cambiare. Accetta le cose come sono».

«Stai parlando dell’India?»

«Non solo».

«Posso evitare di andare o no?»

«No».

«Va bene». Merda. «Non dire a Olly che parto».

«Non era quello che volevo sentirti dire».

Edward, che stava già uscendo dall’ufficio, non replicò.

«Lei è sposata, Bertram. Con un detestabile bastardo. Alla fine sarà l’unica a pagare. Lascia perdere, vecchio mio».

Un consiglio che Edward non era pronto ad accettare.

Voleva chiederle di partire con lui, di lasciare Alistair, di lasciare tutto. Ma quando la vedeva parlare con Clara in casa, alle feste… con le teste vicine, una bionda e l’altra castana, così a loro agio insieme. Aveva visto Ralph correre verso Olly, ogni volta che Clara lo portava con sé, staccandosi dalla mano della mamma per urlare Zia Libby, saltellando. Olly lo stringeva tra le braccia. Sapeva che sarebbe stato tremendamente egoista separarle. Non poteva farlo, non ora che si erano ritrovate.

Ogni notte andava a letto pensando a lei che dormiva al piano di sopra. Si rifiutava invece di pensare all’uomo che le stava accanto. Sognava di carezzarla, solo lui, di abbracciarla; il suo desiderio cresceva ogni giorno. E forse lo voleva anche lei – lo capiva dal modo in cui, a volte, tutto il suo corpo di punto in bianco si immobilizzava, e dal ritmo controllato del suo respiro. Eppure Edward si imponeva di trattenersi. Fino a che lei non gli avesse mandato un segnale, doveva accontentarsi semplicemente di averla conosciuta. Quella donna aveva già sofferto fin troppo nel corso della sua vita. Che razza di mascalzone sarebbe stato se le avesse chiesto di tradire suo marito? È sposata, Bertram, con un detestabile bastardo.

No, doveva essere lei a fare il primo passo.