Il cibo del viaggiatore
Mentre le bambine crescevano un giorno alla volta, mi capitava di assentarmi spesso dalla città per le mie spedizioni insieme agli Psicoatleti.
Mi ero accorto che i viaggi a piedi erano qualcosa di più importante, per me, di un’attività sportiva o d’una vacanza alternativa. Camminare sulle orme dei padri mi dava una vertigine speciale, che la madre delle mie ragazze non sapeva condividere. Viaggiare a piedi era un modo per conoscere il mondo che ci stava intorno e, allo stesso tempo, dimenticare per un po’ chi dovevi essere nella vita di tutti i giorni: quando avevo deciso di andare al mare a piedi con il vecchio Luther, bardati come dovessimo traversare l’Islanda nella stagione buia, mi aspettavo una goliardata. Invece avevamo vissuto una piccola odissea, dormendo nei fienili e ricevendo in regalo dai contadini acqua, informazioni pratiche e storie autentiche. Avevamo sentito il dialetto cambiare una collina dopo l’altra e, una volta giunti sulla spiaggia, la mia prima domanda era stata: «Quando lo facciamo un’altra volta?».
Dopo c’erano stati molti altri viaggi, e qualche anno più tardi avevo traversato l’Italia a piedi da un mare all’altro, partendo con mio fratello dall’Argentario per giungere in tre settimane sulla riviera del Conero.
A quel punto, mi era presa la curiosità di cimentarmi con un itinerario di respiro europeo: all’abusato Camino di Santiago, preferii la millenaria e semisconosciuta Via Francigena. Insieme al mio compagno di viaggio Galerio, nel 2006 la percorremmo con filologica tenacia, una tappa dopo l’altra secondo l’itinerario medievale, inanellando serate in oscure località dell’Artois dove l’unica cena a disposizione dei forestieri è composta da birre e patatine fritte.
La nutrizione è un aspetto chiave del cammino, ma da quelle parti sembrava difficilissimo rispettare una dieta sensata: nel procedere sconsolati attraverso i dipartimenti dell’Aube e dell’Alta Marna, mi rimbombavano in mente le righe di Jerome Klapka Jerome dedicate allo stomaco, il vero organo in grado di guidare le nostre esistenze.
Come ci sente buoni e felici, quando si è sazi, soddisfatti di noi stessi e del mondo. È molto strano, questo dominio del nostro intelletto da parte degli organi della digestione. Non possiamo lavorare, non possiamo pensare se lo stomaco non vuole. È lui che detta emozioni e passioni. Dopo le uova col prosciutto ci dice: “Lavora!”, dopo una bistecca con la birra ci dice: “Dormi!”, dopo una tazza di tè (due cucchiaini per tazza e infusione per non più di tre minuti), dice al cervello: “Ora fa’ vedere la tua forza”.
A noi sarebbe bastato un po’ di frutta che non sapesse di cella frigorifera, e magari un caffè decente, ma dove passavamo non se ne trovava quasi mai.
Giungemmo in Svizzera accusando i primi sintomi dello scorbuto, e in quello stato penoso traversammo le Alpi, insidiati da un pellegrino tedesco coperto di tatuaggi religiosi; solo scesi in Italia tornammo a mangiare cibi freschi, che ci restituirono il colorito e la fiducia necessaria per giungere a Roma rispettando la tabella di marcia.
Servono novanta giorni, come ai tempi dell’arcivescovo Sigerico, per arrivare da Canterbury all’Urbe sulle proprie gambe, e, come ben sapevano i medievali, l’uomo che arriva alla fine d’un viaggio non è mai lo stesso ch’era partito.
Per un paio d’anni feci il bravo, cercando di convincermi che la Via Francigena era stato il viaggio della mia vita, e che adesso potevo accontentarmi di oneste gite e trekking d’una settimana al massimo.
Nel mentre, aiutavo Dafne, Sofia e Irene a consumare il loro primo paio di scarponcini: a differenza della loro madre, le piccole sembravano provare piacere nel seguirmi nelle mie scorribande sull’Appennino e in Alto Adige, e la curiosità di vedere cosa si nascondeva dietro la prossima collina sembrava, per loro, più forte della fatica.
Era sufficiente che il padre raccontasse una storia, e le piccole camminavano; appena lui si fermava, però, cadeva anche la sospensione dell’incredulità e le tre cominciavano ad accusare i sintomi della stanchezza.
A quel modo, ogni passeggiata andava calibrata con cura: il dubbio non era tanto se le bambine ce l’avrebbero fatta, quanto se ce l’avrei fatta io a tenerle distratte fino all’arrivo, senza cedere al fiatone e alla voglia di salire in silenzio. Giunti al rifugio, mi premiavo con un rustico Bauerntoast, mentre loro preferivano i gelati confezionati a forma di mucca alla panoplia di torte artigianali a disposizione. Mi ricordavano troppe cose della mia infanzia per sgridarle, ma erano troppe anche per tacere, così le divertivo raccontando di quando anche loro padre era un bambino, e insieme allo zio combinava le marachelle.
Ascoltavano incredule, provando a immaginarsi come dovevo essere alla loro età, e non riuscivano a credere che, un giorno di venticinque anni prima, mi ero cimentato nell’impresa di bere d’un fiato una bottiglia di Fanta da un litro e mezzo.
In città, le accompagnavo all’asilo e cercavo di convincermi che quella vita mi andasse a perfezione; in realtà, stavo già progettando insieme a Cesare, il logista degli Psicoatleti, il viaggio verso Gerusalemme.
Partimmo nella primavera del 2008 da Roma, per inoltrarci attraverso la metà del Paese che ci era meno familiare.
Traversammo in un mese il vecchio Regno delle Due Sicilie, faticando di giorno lungo i tratturi, e rimpinzandoci ogni sera: a mano a mano che si procedeva verso Sud, facemmo onore ai maccheroni alla chitarra e agli arrosticini, alle scarole ripiene di olive e pecorino, alle linguine alla salsiccia preparate alla maniera del Sannio, e ancora a mozzarelle e caciocavalli, alle “tagliatelle del compare” della tradizione lucana, e infine alle orecchiette, alla zuppa di cozze e al polpo arrostito.
Giunti a Taranto, ci imbarcammo sull’Olonese, un malconcio trentasei piedi messo a disposizione da un amico; poiché nessuno di noi era un marinaio, però, ci toccò assumere uno skipper che ci aiutasse a solcare il Mediterraneo.
Si vedeva lontano un miglio, persino fra i trafficati moli della vecchia città greca, che Salvatore Barletta, un lupo di mare cinquantenne con variegati precedenti, era una persona speciale: tanto per cominciare poteva vantare una straordinaria somiglianza con Hemingway, o perlomeno con l’iconica foto in cui lo scrittore, ritratto in primo piano, indossa un maglione in lana grossa a collo alto e accenna a un burbero sorriso. Detto di questa somiglianza fisica, va ricordato che il Barletta non si esprimeva affatto in inglese, trovandosi più a suo agio con le varianti pugliesi dell’italiano, e con la lingua franca dei navigatori: «Se ti sabir, rispondir», era il suo motto. «Se ti no sabir, capa bassa e tazir!».
In navigazione non sprecava una parola che non fosse un “issa”, “’maina” o “allanimekittemmuort”. Era un comandante esigente ma, nonostante il mare grosso che faceva perdere pezzi all’Olonese – il genoa si strappò prima di arrivare a Marina d’Ugento, e di fronte a Gallipoli ci abbandonò anche la radio di bordo – ci condusse stoicamente fino a Santa Maria di Leuca.
Mentre procedevamo all’ormeggio, Salvatore allontanò il ragazzo in attesa di fianco alla bitta.
«Siamo in avaria e, per la legge del mare, non pago una minchia», mise in chiaro. «Dimmi, piuttosto, dove si può mangiare una buona pizza ovæle!».
Era questo il suo problema: una volta a terra, non riusciva a smettere i modi sbrigativi che risultavano efficaci nella vita di bordo, e spesso finiva per sembrare un tanghero.
Il giovane dipendente del porto meditò di non rispondere, ma il nostro timoniere alzò la voce e pretese di sapere senza tante storie dove ci si poteva sfamare.
Fummo indirizzati al primo locale in vista oltre i moli, e laggiù il Barletta si produsse in un nuovo monologo autoritario, stavolta ai danni del cameriere. «La fate, qui, la pizza ovæle?», mise in crisi l’uomo. «Ovæle, la voglio! Che esca dal piatto a destra e sinistra! Kapishammè?». Quello annuì, e l’uomo di mare riprese: «Il quarto di sinistra lo voglio ai funghi… Ma qui avete solo funghi del supermercato, si vede lontano un miglio. E allora, per la Madonna degli Affogati, da quella parte ci voglio la melanzæna!».
«E sul resto della pizza?», domandò, accomodante, il cameriere.
«Un quarto capperi, un quarto patate lesse e un quarto peperoni», rispose seccato Salvatore, come se tutti dovessero conoscere la ricetta della pizza ovæle. «Coi peperoni sulla destra!».
L’indomani provammo a traversare il canale d’Otranto con il mare infuriato: solo noi eravamo usciti dal porto, e all’inizio incrociammo qualche peschereccio che rientrava, poi più nessuno. Eravamo soli nel punto più turbolento fra l’Adriatico e lo Ionio: guardando verso il largo si distingueva con precisione la linea oltre la quale l’acqua cominciava a ribollire.
«Che dite, ci andiamo?», domandò Salvatore.
«Da solo ci andresti?», m’informai a mia volta.
«Da solo ho traversato l’Atlantico nove volte», rispose, e io gli feci cenno di procedere.
Ci fu un istante nel quale l’Olonese smise di essere una barca filante, lanciata sul filo del vento, e si trasformò in un grosso oggetto galleggiante, prigioniero della burrasca. Le vele sbattevano come non mai: in quelle condizioni, invece di aiutarci, minacciavano di portarci a fondo, così Salvatore le fece ridurre, ma fu l’ultima manovra che riuscimmo a compiere prima di assicurarci alle battagliole. Lavorando di solo timone non c’era verso di mantenere la prua verso Corfù, ma continuammo a lottare rosicchiando un quarto di miglio alla volta, con la barca che s’inclinava in maniera paurosa prima su un fianco e poi su quello opposto, sfiorando ogni volta l’acqua con la testa dell’albero.
Ci arrendemmo solo nel pomeriggio, quando dovemmo ammettere che, percorse a malapena nove miglia, valeva la pena di rientrare a Leuca prima del buio, per provarci daccapo il giorno successivo.
Passammo la notte alla fonda, affacciati su un’insenatura in vista del faro, alla quale potevi pensare come alla Baia della salvezza. Avevamo rischiato seriamente di finire fuoribordo e annegare, solo per seguire la tabella di marcia e la voce dell’orgoglio che c’imponeva di andare sempre avanti. Eravamo sopravvissuti a una giornata rara, di quelle che alle nostre mogli e fidanzate, una volta rientrati a casa, sarebbe stato meglio non raccontare nel dettaglio. Era vero che le donne si confrontavano da millenni con la schematica visione maschile della vita ma, nonostante questa abitudine, a volte non reggevano allo stupore per gli exploit più azzardati dei propri compagni e, ancora all’inizio del XXI secolo, finivano per chiamarli irresponsabili e deficienti.
I miei compagni dormivano già sotto le stelle, sdraiati nel pozzetto uno addosso all’altro come fratelli di sangue, e anche Salvatore russava pancia all’aria, biascicando frasi incomprensibili fra un peto e l’altro. Dormiva un sonno tormentato, e mi domandai come potevano avere arricchito, in cucina, la sua pizza ovæle.
Allora mi venne da sorridere ripensando a zio Nestore: lui, prima di addormentarsi in autostrada mentre filava a 180 chilometri orari, cercava di andare d’accordo con tutti i camerieri. Riusciva a legare persino nei postacci e, se pure aveva mangiato fuori tutta la vita, non gliene era mai venuto alcun danno.
Da Akko, la vecchia San Giovanni d’Acri, si snoda il sentiero dell’Israel National Trail, reso evidente dai segnavia bianchi, arancioni e azzurri; in un giorno l’itinerario conduce al monte Carmelo, sulla grande baia di Haifa, quindi procede, senza allontanarsi dalla costa, verso Nethanya e la conurbazione di Tel Aviv e Giaffa.
Camminavamo in sette, assetati e coperti di polvere. Lungo la via, mangiavamo carne halal e falafel nelle tavole calde arabe; cibo kosher certificato quando cenavamo nei kibbutz. Certi giorni capitava di fare colazione con aringhe e burro, altri con la frutta fresca, e la limonata era strepitosa tanto negli insediamenti arabi quanto in quelli ebraici.
Solo nelle ultime tappe si piega verso l’interno, toccando la città araba di Ramla per poi risalire il letto in secca d’uno uadi verso le prime alture, dove si trovano, simili a miraggi, il surreale parco tematico “Israele in miniatura” e il sito del castello templare di Latrun. Ormai eravamo a ridosso della linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949; non restava che inerpicarsi per le roventi colline di Giudea, dove persino i boy scouts girano armati, e in fondo ai valloni si scorgono ancora relitti di camion e blindati, messi fuori combattimento durante la prima guerra Arabo-Israeliana.
Eravamo partiti carichi di pregiudizi ma il dono più prezioso dei viaggi a piedi è proprio questo: lungo la strada sei esposto al rischio di cambiare idea, perché là fuori è pieno di gente in carne e ossa; finisci per ascoltare un sacco di opinioni, sogni e segreti, di quelli che si confidano soltanto a chi domani ripartirà. Così, scambiando opinioni, e guardando la gente negli occhi, le nostre certezze cominciavano a sgretolarsi.
È facile odiare chi non si conosce; dovresti essere davvero spietato, invece, per colpire la persona che ti racconta la propria storia, e ti invita in casa per condividere il pane quotidiano.
L’ultima notte prima di arrivare a Gerusalemme raggiungemmo soltanto a sera il kibbutz che ci avrebbe ospitato: sognavamo un piatto strabordante di hummus e polpette vegetali, ma erano già sorte le prime stelle a decretare l’inizio dello shabbat, e non ci fu modo di procurarci nulla da mangiare. Impietositi dal nostro stato, consentirono a ordinare per noi qualche pizza dalla cittadina più prossima: il locale era gestito da musulmani, non tenuti dal divieto sabbatico, e questi, per pochi shekel di sovrapprezzo, consentirono a inviare un ragazzo che ci recapitasse la cena. Fu un bel momento di collaborazione, capace di farci sognare un futuro di pace per quella terra contesa. Purtroppo, quando il fattorino si presentò cambiammo umore: per un beffardo malinteso, anziché sette pizze ci aveva portato una sola pizza divisa in sette spicchi. Quando comprese l’equivoco, si dimostrò costernato, ma ormai era tardi per effettuare una nuova ordinazione. Doveva essere destino che quella sera ci coricassimo leggeri.
L’indomani, scesi dalle alture e percorsa sino alla fine Jaffa Road, piangemmo lacrime di gioia ai piedi delle bianche mura di Gerusalemme: eravamo arrivati alla Città tre volte Santa, la culla di tutte le storie, e finalmente il nostro peregrinare avrebbe acquisito un senso.
Presto avremmo visto il sepolcro di Nostro Signore, il Muro del Pianto, la Moschea Dorata e la valle del Giudizio, e potevamo domandarci, il cuore in gola, che effetto facesse camminare, dormire e mangiare nel perimetro della città vecchia, dove ogni pietra è sacra.
Una settimana più tardi, sull’aereo che ci riportava in Italia, non pensavamo più a nessuno come a un nemico, e per molto tempo ci saremmo meravigliati di come, a casa, bastasse aprire un rubinetto per bere acqua fresca.
Mi piace pensare che il ricordo della sete, insieme alla pietà per chi vive in un posto difficile, ci abbiano aiutati a diventare persone più sensibili.
Per certo, abbiamo toccato con mano che la Pace non corrisponde allo stato di natura, ma è il risultato di un lungo processo che passa attraverso la conoscenza, il rispetto e la condivisione: «Salaam» e «Shalom» non suonano poi così diverse, e vale sempre la pena di sognare un futuro di concordia, anche quando seppellire i rancori sembra impossibile.
Venti mesi più tardi, in vista dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità nazionale, ci riproponemmo di traversare la Repubblica da Nord a Sud.
Fu esattamente quello che facemmo tra il 7 aprile e il 13 luglio del 2010, partendo dalle falde della Vetta d’Italia, in testa alla valle Aurina, per giungere a capo Passero, presso l’estremità meridionale della provincia di Siracusa.
Ogni sera dormivamo sotto un tetto diverso, e il dialetto non era mai lo stesso della sera prima. Anche la cucina cambiava senza sosta, una valle dopo l’altra: dai canederli passammo alla carne salata, dalla cultura della birra a quella del vino, e dall’areale della grappa a quello dei liquori d’erbe. Andammo incontro a passo d’uomo, da veri ambasciatori del cibo lento, alla piada e al pecorino di fossa, alla cicerchia e alla patata lunga di San Biase; quando si cammina, il pranzo si riduce a uno spuntino energetico, ma la sera ci tuffavamo sulle cene con la giusta motivazione di chi ha camminato tutto il giorno nel vento o sotto il sole, e l’indomani farà altrettanto. Ci nutrivamo con pieno diritto, stupiti al ricordo delle cene inutilmente abbondanti consumate in città, dopo un giorno intero seduti alla scrivania.
Eravamo partiti camminando chiusi nei giacconi imbottiti, sprofondando nella neve alta, per spogliarci a mano a mano che la stagione progrediva: scesi dalle Alpi, traversammo la Pianura Padana in calzoncini corti. Poi venne la stagione delle piogge primaverili: da Pieve Santo Stefano a Visso non ci fu giorno in cui non dovessimo camminare qualche ora con gli impermeabili addosso e gli zaini nascosti dalla copertura antipioggia, ma ci sostenevano robusti panini alla porchetta e marmellate di frutti dimenticati come la pera cocomerina, che cresce solo vicino alle sorgenti del Tevere.
Vedemmo maturare il grano e assaggiammo le primizie: succulente fave a Celano, sulle colline che dominano la piana del Fucino, cipolle croccanti a Isernia, e carciofi nella piana di Paestum.
In quella stagione matta coprimmo 2191 chilometri a piedi, fra scoperte di nuovi dialetti, matrimoni che andavano in pezzi e decisioni di licenziarsi: complice il grande silenzio che regna nelle campagne, e alcune apparizioni a sfondo simbolico, due Psicoatleti decisero che la separazione sarebbe stato il male minore, altri due che valeva la pena di fare il grande salto verso il lavoro autonomo e, prima di arrivare alla meta, nacquero altrettanti amori.
Certo, anche la fatica si faceva sentire: in Calabria, convinti dalle teorie d’un fanciullo vestito di bianco che si aggirava per le scogliere, cominciammo a nutrirci di soli fichi. Giunti a Capo Vaticano, stremati al limite dell’allucinazione, ne mangiammo tre chili in due. Ci stavamo spingendo oltre il sottile confine che delimita il regno della follia, ma non potevamo che procedere verso Sud, parlando con le presenze che, avremmo giurato, ci accompagnavano sotto il sole a martello.
Ci riprendemmo al di là dello Stretto, consumando dapprima una fetta d’anguria ad Alì Terme, quindi una cena completa a Sant’Alessio Siculo: la pasta ’ncasciata e gli involtini di pesce spada farciti alle erbe ci restituirono la gioia di vivere, e di scoprire che cosa si nascondesse ancora più a Sud.
Un sacco di posti dove facevano la granita buonissima, di questo ci rendemmo conto: furono proprio le granite alla mandorla e al gelso, insieme agli arancini di riso che consumavamo dopo il tramonto, a spingerci oltre Acireale e il cono dell’Etna, verso le luci di Catania e Siracusa.
L’ultimo giorno di viaggio, calcando le traversine della ferrovia dismessa fra Noto e Pachino, patimmo di nuovo la sete come in Terra Santa, e faceva sorridere ripensare all’inizio del viaggio, spersi in mezzo a valli intere coperte da una coltre candida, pronta a sciogliersi per farsi acqua da bere.
«Non c’è da preoccuparsi», disse rauco un amico, mentre sostavate sotto un ulivo a ridosso dell’oasi marina di Vendicari, le magliette in testa e i volti ridotti a maschere di sale. «Fra poco saremo a Marzamemi. Lì troviamo anche l’aranciata».
«E una birra fresca», aggiunse un’altra voce che conoscevi da tanti anni.
Non speravate in niente di più che bere. Dopo avere traversato a piedi tutta l’Italia, sapevate che la cena sarebbe andata bene in ogni caso. Mentre sfilavi la maglietta dalla testa per pulirti il volto, questo concetto parve rimbalzarti in testa e produrre una sua musica: il bambino schizzinoso ch’eri stato, convinto che lontano da casa si mangiasse malissimo, aveva lasciato il posto a un essere meno tenero e più resistente.
Sotto i barbagli del sole, il pensiero era corso alle tue figlie, che presto avresti riabbracciato e riempito di baci. Subito dopo ti erano venuti in visita, come vivi ricordi, i nonni Otello e Gemma, e ancora zio Nestore che li aveva raggiunti in cielo a soli cinquant’anni. Non volevano spaventarti, come si crede facciano i fantasmi, ma sostenerti nell’ultima tappa.
Stanco com’eri, ti sentivi pieno di pace: a voi non restavano che poche ore di strada e, dove stavano i nonni e lo zio, non ci si stancava mai. Così avevi sorriso, e ti eri domandato quale effetto poteva fare, a quegli spiriti benevoli, vedere il nipotino che si era fatto uomo.