Il campo estivo volgeva ormai al termine, quando il kombinat tavolo-panche-cucina della squadriglia Coguari, sottoposto nei giorni precedenti a sollecitazioni d’ogni genere, franò su se stesso sotto i nostri occhi: ci apprestavamo a sederci per pranzare, ma uno scricchiolio sinistro ci informò che una legatura aveva ceduto e, un attimo più tardi, vedemmo il pentolone di pasta precipitare a piombo verso il terreno.

Non ci fu il tempo d’un’imprecazione, perché nello spazio d’un batter di ciglia le sezioni di palo che formavano il ripiano del tavolo presero a scompaginarsi quasi ci fosse il terremoto, e per finire andarono giù, meste e asimmetriche, persino le panche. Quando la nuvolaglia di segatura e humus primordiale si fu diradata, vedemmo che il posto dove stavamo per accomodarci non esisteva più: erano rimasti in piedi solo i montanti, e sotto lo sfasciume s’intravedeva la pentola abbandonata sul nudo terreno, imperturbabile e ancora fumante.

Complimentandoci l’un l’altro per il pericolo scampato, ci risolvemmo a mangiare accoccolati sui talloni come boscimani, la gavetta praticamente posata sulle ginocchia. Eravamo troppo affamati per commentare l’accaduto e, in fondo, era l’ultimo pomeriggio di campo: ricostruire daccapo la cucina per una sola cena sarebbe stato da matti, anche perché di lì a poco eravamo attesi da un programma speciale.

Secondo un’inveterata tradizione, infatti, quel pomeriggio si sarebbero tenute tre partite di rugby, ognuna delle quali attesissima: alla finale del torneo fra squadriglie, per la quale avevamo mancato la qualificazione d’un soffio, sarebbe seguito l’arrivo del reparto femminile per la partita dei novizi e il conclusivo All Star Game a squadre miste.

Il secondo incontro, quello che mi riguardava in maniera diretta, era forse il più povero dal punto di vista tecnico, ma era l’unico che avrebbe visto giocare maschi contro femmine, e celava numerose insidie: si dava talmente per scontato che noialtri dodicenni avremmo asfaltato le coetanee da indurre i più anziani a minacciare gravi conseguenze nel caso avessimo subito una sola meta.

Così mangiai in silenzio i miei spaghetti al tonno, concentrato sugli schemi di gioco e pronto a qualsiasi durezza pur di evitare che le ragazze portassero l’ovale in meta.

«Piuttosto ammazzale», consigliò il tennista Stromboli, e in quell’età ignara di cavalleria gli diedero ragione in parecchi.

«Basta giocare veloci», smorzò gli ardori Fulgor. «Fate girare palla, e quelle non la vedono neppure».

«Giusto», approvò Alcatraz, che mi sembrava di conoscere da sempre con un occhio nero e il naso tumefatto. «E non ti scordare che, se quelle segnano, stanotte dormi fuori dalla tenda».

«È la tradizione», ricordò Anatra, con un sorriso acritico e vagamente beota.

«A proposito di tradizioni», mi si rivolse il Capo quando ebbe finito di mangiare, «vai a lavare la pentola, prima che inizino le partite».

Avevo lavato la grande pentola da venti litri praticamente tutti i giorni, ma era il destino dei novizi, e quello era il mio ultimo giorno da novizio, così non protestai. In virtù della stessa tradizione che m’imponeva obbedienza, l’anno successivo sarebbe stato di corvée qualcun altro; trascinando al fiume la pesante pentola sporca di sugo al tonno, quel pensiero riusciva a darmi gioia. Comunque la si mettesse, la mia schiavitù era quasi finita.

Giunto sulla riva, mi accomodai al solito posto ed estrassi l’ultima paglietta metallica della nostra dotazione. Per l’indomani era previsto pranzo al sacco, e la sera saremmo stati a casa. Mi prese una sorta di brivido nel pensare che la pentola sarebbe stata riposta per mesi nella cassa di squadriglia esattamente nello stato in cui l’avrei riconsegnata di lì a poco: contando la cattività che l’attendeva, meglio fare un buon lavoro.

Non so, cari signori, se abbiate mai lavato una pentola nel corso d’un torrente, ma è facile immaginare come la gelida temperatura dell’acqua non favorisca le operazioni, e finisca anzi per intorpidirvi le dita sino a renderle insensibili.

Allora, non c’è più senso di responsabilità che tenga: serve tenere le mani in acqua solo lo stretto indispensabile, e di tanto in tanto scuotere vigorosamente le dita, battere i palmi o compiere qualsiasi movimento che le riporti in vita.

Nel corso di simili operazioni può anche accadere, e purtroppo quella volta accadde, che la pentola decida di abbandonare le immediate vicinanze della riva, ché un frullo della corrente la fa girare e, prima che possiate trattenerla, ve la rapisce da sotto gli occhi, trascinandola al centro del corso d’acqua. Se mai vi accadesse di trovarvi in una situazione del genere, non illudetevi: il maledetto arnese, dopo avere esitato qualche istante fra gli spruzzi mentre voi vi levate le scarpe, partirà di slancio verso valle non appena avrete messo piede in acqua.

La vidi filare via, beffarda e come viva, a una velocità di parecchi metri al secondo, e l’acqua non era fredda come il presentimento della punizione in arrivo: altroché a dormire fuori, mi avrebbero messo. Come minimo, mi sarebbe toccato ricomprarla rinunciando a parecchi gelati. E, peggio, subire chissà quante prese in giro. Ero spacciato, e chiunque si fosse affacciato sulla riva in quel momento non avrebbe capito il dramma che poteva tenere un dodicenne in acqua sino a metà coscia, gli occhi spalancati di paura, pregando una pentola perché si fermasse.

Non so come, ma essa dovette udirmi: dopo aver percorso il primo tratto con la velocità d’una freccia, parve esitare brevemente, quindi un capriccio della corrente la spinse verso un’ansa della riva opposta, e laggiù la pentola sembrò trovare approdo e pace.

All’improvviso, recuperarla parve più semplice che mai: immerso nell’acqua gelata sino alla cintola, camminavo a piedi nudi sul fondo sassoso, felice come un giovane fachiro che sta passando il suo esame di abilitazione. La pentola era ormai vicina, sembrava anzi protendere i manici verso di me, come un bambino smarrito spalancherebbe le braccia per stringere il padre rispuntato all’improvviso.

Adesso bastava impadronirsene, ritrascinarla dalla parte giusta, e filare ad asciugarsi. Non fu, però, semplice come dirlo: non appena si trovò di nuovo nella corrente, la pentola imbarcò acqua a litri e divenne solidale al flusso senza tempo che imponeva al torrente di gettarsi in un fiume, e a questo nel mare. Rischiavo di arrivarci anch’io, su qualche spiaggia veneta, se non avessi mollato in fretta quell’arnese che mi trascinava a valle con la forza d’un sommergibile.

Per quel che ne sapevo, ogni passo poteva avvicinarmi a un mulinello, o a una cascata. Con la forza della disperazione, tentai di sollevare la pentola per sottrarla alla forza della corrente, ma era come provare a frenare un cavallo imbizzarrito. Ero impegnato nel corpo a corpo, quando una voce di donna gridò di non fare pazzie. Sulle prime, semplicemente non le badai, ma quella si sgolava talmente che fui costretto a sollevare lo sguardo: sulla riva opposta a quella del campo doveva correre un sentiero, perché erano apparsi due individui adulti e un numero imprecisato di bambini. Erano tutti vestiti da escursione, ma non camminavano: per il momento, erano impietriti a fissarmi.

«Non riesci a venire fuori?», indagò, con cautela, l’uomo.

«E vallo ad aiutare, no?», lo rampognò la donna.

«Vieni di qua, giovane!», mi incoraggiò lui, senza muovere un passo verso l’acqua.

«Non posso!», gemetti. «La pentola!».

«E lasciala andare, la pentola!», si raccomandò l’uomo, mentre la donna strappava a casaccio la giuncaglia. Se era un bastone che cercava, stava guardando nel posto sbagliato, ma non ebbi la presenza di spirito necessaria a farglielo notare.

Dovevo avere ormai le labbra viola quando, a forza di gridare «Aiuto!», gli escursionisti riuscirono ad attirare l’attenzione dei Coguari ancora intorno alla tenda. Apparvero, uno dopo l’altro, Fulgor, Anatra, Alcatraz, il tennista Stromboli, Carioca e Actarus: restarono anche loro per un attimo a guardarmi, dopodiché il Capo si gettò in acqua senza neppure levarsi le scarpe, cinturò il suo novizio da sotto le ascelle e lo trascinò sulla riva giusta ancora attaccato alla pentola.

«Cosa facevi, il bagno?», domandò il vice, ma battevo i denti ed era complicato rispondere.

«Sta bene, quel poverino?», indagò la donna, la pena negli occhi.

«Meglio di prima», garantì Alcatraz, e aggiunse con noncuranza: «Lo fa sempre».

«Cos’è successo?», domandò Fulgor, grondante.

«Mi è partita la pentola… Per non perderla… Le sono andato dietro».

«Sei un grande», ammise Stromboli, e le sue parole ebbero l’effetto d’un punch al mandarino. «Ma non si gela, là dentro?».

Trovai la forza per un debole sorriso, e confidai con modestia: «In effetti è freddina».

Mi riportarono alla tenda che tremavo e, come accade fra i più giovani, la mia abnegazione venne premiata senza bisogno di ricorrere alle parole: a trasportare la pentola, stavolta, ci pensò il Capo, osservando che mai era stata così pulita, e nessuno osò prendermi in giro.

Difficilmente un novizio, anche se aveva rischiato da poco di annegare, avrebbe potuto sperare in un trattamento più favorevole, e non avrei saputo dire se era più la gioia di essere ancora vivi, o la soddisfazione di far parte della squadriglia Coguari.