La gramigna di Malossi
Trascorsi un paio d’anni all’università, nel senso fisico del termine: di rado frequentavo luoghi diversi da aule, mense e biblioteche, ma non perché fossi particolarmente studioso. Era lì che si socializzava e, se accettavi di mutare la tua inguardabile tosatura tuttavanti da tossico berlinese in un più accettabile taglio corto con il ciuffo alla Tin Tin, capitava persino di conoscere ragazze carine.
Silvia di Brindisi, Noemi di Venezia, Roberta di Chieti: fra le loro caratteristiche comuni vi era un immotivato côté saccente, una certa attrazione per il vegetarianesimo, e la tendenza a cacciarti alle prime luci dell’alba dai loro appartamenti misteriosamente ordinati. Niente a che vedere con il vecchio covo di Mario il Sardo e Tony d’Isernia, o con l’appartamento di via Avesella dove una banda di burloni veronesi aveva introdotto una gallina come mascotte.
No, le ragazze erano fatte di un’altra pasta. Molte di loro tenevano persino la foto del fidanzato appesa sopra il letto e, con ogni evidenza, erano persone intuitive: se ti allontanavano prima di offrirti la colazione, era perché avevano capito che avresti messo a soqquadro troppe cose.
Sembrava di capire che fosse proprio questa la differenza fondamentale fra maschi e femmine: tanto noi quanto loro ci compiacevamo di fare piani a medio termine, ma le ragazze perseguivano i propri progetti con cura certosina, un giorno dopo l’altro, mentre noi alternavamo la dedizione del samurai alla svogliatezza che i proverbi attribuiscono al mitico Michelàz: magner, bavver e fer un càz era da sempre il premio ideale che l’uomo si conferisce alla fine del duro lavoro. Come i padri dei nostri padri, una volta riposti gli strumenti della fatica potevamo sentirci autorizzati a spegnere il cervello, mentre le ragazze non sembravano provare un diverso senso del dovere verso lo studio, il lavoro o l’esotica istanza di rassettare casa. Per questo, non le invitavamo mai dal Lurido.
Ognuno si allenava a inverarsi nel proprio destino, gli eredi dei cacciatori di mammut come le future signore perbene. Restava ancora un mistero come avremmo fatto a incontrarci e dare vita a coppie stabili. Per il momento, salutarsi all’alba conveniva a entrambi: a questo modo lei restava in santa pace, libera di ripulire casa dai segni della battaglia, farsi una doccia e telefonare all’amica del cuore; tu, invece, potevi prenderti l’agio di scendere al bar più vicino con un sorriso da orecchio a orecchio, e valutare con favore che eri riuscito ancora una volta a fuggire in tempo, prima che ti proponessero di andare a fare la spesa insieme, o altre turpi perversioni da mariti e mogli.
Nonostante i momenti di svago, la condizione di studente universitario cominciava a pesarmi: a differenza di quanto capitato a Mario, nessuno mi offriva un’eredità perché mi laureassi, e sembrava che, anche una volta dottore, l’unica vera occasione di carriera fosse rappresentata da un’ulteriore permanenza dentro l’ateneo. Si trattava di lavorare quasi gratis, per un numero imprecisato di anni, nella speranza di vincere un concorso da ricercatore. Un lungo giro che non dava nessuna garanzia, se non quella di restare a casa con mamma e babbo fin oltre i trent’anni. Senza contare che, con il vecchio regime appena smantellato da Mani Pulite, il futuro era incerto al massimo grado: tutti gridavano alla crisi, l’Italia andava a fondo e non c’era tempo da perdere. Così, non appena i compagni più intraprendenti abbandonarono gli studi e cominciarono a guadagnare soldi veri, mi dissi che avrei dovuto prendere esempio da loro.
Il mio idolo personale era Sandra di Cervia, una ragazza cordiale, dalla bellezza appariscente e lo stesso accento d’una piadinara al lavoro nel suo chiosco. Dopo le prime bocciature, causate da un’irriducibile incapacità ad appassionarsi di cose invisibili, come l’analisi semiotica o la proprietà intellettuale d’un testo, Sandra aveva messo a frutto i propri talenti, e s’era impiegata come cubista al Cocoricò.
Abbronzata com’era, guadagnava in una sera quello che i nostri pallidi assistenti mettevano insieme in tre mesi, e c’era da domandarsi se davvero fossero loro, quelli intelligenti.
Personalmente, se mi avessero offerto centinaia di migliaia di lire per ballare in costume da bagno, non ci avrei pensato due volte. Le offerte, però, stentavano ad arrivare: dovevo inventarmi qualcos’altro.
Mio cugino Luigi, nel frattempo, si era laureato in economia e aveva aperto un’agenzia immobiliare in franchising. Era un’attività che gli fruttava bene e ci teneva a fartelo sapere indossando maglioncini rosa, scarpe a punta e cappotti spinati; guidava una specie di fuoristrada che, però, andava trattato con la stessa cura d’una Bugatti, e in pieno inverno partiva per le Seychelles con la fidanzata, una donna più anziana di lui che si era già rifatta il naso più volte, e sosteneva di essere una giornalista.
Tanto lui quanto la sua Mariasole teorizzavano apertamente che fare figli è una sciocchezza, e in tre anni la coppia era stata rallegrata solo dall’arrivo di un mostruoso chihuahua, il piccolo Brandon.
Quei due ti facevano pensare al bel giorno di primavera in cui Schopenhauer, anziché uscire a fare una passeggiata, restò chiuso in casa a lavorare. Doveva avere litigato con la sua ragazza, perché scrisse che l’amore sarebbe solo una menzogna, e una coppia d’innamorati corrisponderebbe non già a due anime gemelle, ma alla somma di due infelicità. Nemmeno il torvo prussiano, tuttavia, aveva previsto che, a quelle infelicità complementari, potesse sommarsi quella d’un mostriciattolo rauco e schizzinoso, talmente esigente da trasformarsi nel vero padrone di casa.
Sedeva a tavola con noi cristiani, il piccolo Brandon, la sera in cui mi spinsi a cena da loro. Era stato Luigi a invitarmi, forse per soddisfare una curiosità di Mariasole, e io avevo accettato solo perché meditavo di chiedere a mio cugino un consiglio su come compiere la metamorfosi da studente a uomo libero.
Mi ero presentato con una bottiglia di vino del supermercato, e ormai ero prigioniero nel loro appartamento di via Toscana, arredato in maniera impersonale come una suite d’albergo.
«La verità è che il mercato è pieno di opportunità», sostenne, mentre Mariasole serviva in tavola tre porzioni di lasagne industriali e una mattonella di cibo per cani. «La new economy tira come non mai. Lo sai che ci sono ragazzi della tua età che hanno investito poche centinaia di dollari in una startup, e adesso viaggiano in Porsche?».
«A me basterebbe una bella moto», precisai. Appollaiato di fronte a me sul suo seggiolone da infante, lo scherzo di natura abbaiò prima di tuffare il muso nella ciotola.
«Serve ambizione, nella vita», teorizzò l’ex paninaro.
«Ai ragazzi non manca l’ambizione», intervenne, dalla mia destra, la sua fidanzata. «È che l’Italia è un Paese per vecchi». Mi guardava in cerca d’approvazione, ora. Nonostante il cuore gelido delle lasagne, mi profusi in cenni d’assenso.
«È un Paese di gente che si lamenta sempre», la corresse Luigi. «Serve una guida che ci faccia rigare dritti».
Forse presagendo chi avrebbe dettato la linea negli anni a venire, allungò la mano al telecomando e diede vita allo schermo ultrapiatto del Sony a parete. Brandon, abbagliato da luci e colori, se ne ebbe a male, e Mariasole prese le sue parti.
«Non rompete, voi due. Voglio solo vedere la Borsa su televideo».
«Tranquillo, Brandon», si raccomandava la fidanzata, carezzando la testa calva del chihuahua. «Ma lo sai che odia la gente di colore?», mi fece Luigi, scorrendo a vista le quotazioni.
«Lei?», sussurrai, mortificato.
«Brandon! Ha già morso due volte il pakistano che porta le pizze».
Annuii, mesto, e cacciai in bocca il freddo cuore delle lasagne. Era come masticare un Calippo alla besciamella e ragù e, quando vidi Mariasole che strofinava il naso studiato in laboratorio contro il musetto puzzolente di Brandon, per poco non dovetti scappare in bagno.
«Fossimo in America, ti consiglierei di isolare una delle tante idee geniali che ti traversano la mente, e di fare impresa a partire dal suo sviluppo pratico», farneticava Luigi. I titoli di Borsa non gli avevano dato soddisfazione, così si era spostato sulle pagine delle notizie sportive. La sua Juventus, eliminati i francesi del Nantes, avrebbe giocato la finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax, ma Luigi aveva un buon motivo extra per sperare nel trionfo delle Zebre. «Ci ho giocato sopra un milione», spiegò. «Se Luca Vialli alza la Coppa, e questo è sicuro, ne incasso uno e otto. Ma se vinciamo con due gol di scarto, il che non è impossibile, i milioni diventano quattro e mezzo. E se, come prevedo, segna “Penna bianca” Ravanelli, si va in doppia cifra».
«Nel caso ci porti tutti e due alle Mauritius, amorino?». Lei aveva messo su un’aria da supplice e, per un istante, temetti che il plurale fosse dettato dal desiderio che il sottoscritto partisse con loro. «Il piccolino sarebbe felice di tornare a zampettare sul bagnasciuga di un atollo».
Adesso era chiaro che non parlava di me, e il sollievo che provai fu guastato solo dall’isterico berciare di Brandon.
«Ma certo che ti servo il secondo», lo rassicurava Mariasole. «Ci sono le polpette tagliate fini come piacciono a te, Bibi!». Un istante dopo, rivolta l’attenzione agli umani, c’informò: «Per i bipedi, invece, pollo alla creola».
Mi rallegrai, ma avevo sbagliato i miei conti: anche la pietanza usciva dritta da una busta, e il sugo liofilizzato aveva il sapore fasullo dei condimenti nati in provetta.
Potevamo fingere di trovarci in America, insomma, anche se da noi era complicato fare impresa.
«Buono», mentii. Quando incappai in un cubetto spugnoso di seitan, però, meditai di proporre uno scambio a quel rognoso di Brandon, detto Bibi: il bastardo si abbuffava a mezzo braccio da me di polpette di vitello, preparate a una a una dal macellaio, e a noi cristiani toccava la sbobba industriale.
«Alla fine, sai cosa ti consiglio?», domandò mio cugino quand’ebbe avuto ragione della pietanza. «L’inglese e il francese li conosci bene, no?».
«Piuttosto bene», confermai, in attesa di capire che cosa avesse in mente. «Ho anche i diplomi, da qualche parte». Se stava provando a convincermi a emigrare, avrebbe trovato una fiera resistenza. Non ero di quelli che abbandonano la barca in difficoltà, io.
«Traduzioni», annunciò asciutto. «Non aspettarti di lavorare sui grandi romanzi, però».
«Se è lavoro pagato, traduco anche le Pagine Gialle», mi scoprii.
«Tu non hai bisogno di traduzioni, amorino», s’intromise la guastafeste dal naso mutante, e il cane iniziò ad agitarsi e ringhiarmi contro.
«Malossi», sillabò Luigi. Doveva essere la parola magica per rabbonire Brandon, perché quello abbassò subito la cresta, e tornò a becchettare dalla ciotola.
«E chi sarebbe, Malossi?», chiese invece Mariasole.
«Un mio cliente», rispose asciutto mio cugino. Queste, invece, erano le sillabe per rabbonire lei. «Ha una casa editrice di soldatini», aggiunse, ermetico, «e so per certo che ha bisogno di ragazzi in gamba».
Eberardo Malossi, il primo uomo a conferirmi modeste somme di denaro in cambio di lavoro, era un cinquantenne corpulento che nasceva come tipografo e si era improvvisato editore in proprio una decina di anni prima.
Il suo intuito gli aveva suggerito di puntare su una nicchia particolare di collezionisti: solo i maschi facoltosi di mezz’età spendono cifre importanti per le miniature militari, così la Retroprint di Malossi si era presentata sul mercato con una serie di titoli dedicati alle uniformi della Seconda guerra mondiale. La documentazione scrupolosa e i bei disegni ne decretarono il successo fra gli appassionati di storia militare, e il volumetto dedicato alle divisioni combattenti delle SS dovette essere ristampato tre volte.
«È un bel mestiere, peccato che la maggior parte dei clienti sia gente che, a casa propria, si fa le seghe vestita da nazista». Così, senza infiorare la verità, Malossi aveva concluso per me la presentazione delle linee editoriali.
Nel giro di due lustri l’attività si era diversificata su più collane, ciascuna dedicata agli armati d’un diverso periodo storico e, con l’imminente lancio di “Carri da guerra assiri”, si sarebbe arrivati a inaugurare la dodicesima collezione della Retroprint.
Il marchio era un punto di riferimento per gli appassionati del settore e, per mantenere costante il livello delle uscite, era costretto ad acquistare i diritti di volumi pubblicati all’estero: erano finemente illustrati, ma con le illustrazioni arrivavano pagine e pagine di didascalie in inglese, francese, tedesco, spagnolo e persino russo. Ecco perché Malossi si era circondato di giovani traduttori senza scrupoli, disposti a essere pagati in nero e lavorare a notte fonda per tradurre con pochi giorni di preavviso studi monumentali sulle mollettiere nella Grande guerra, o arcipelaghi di note astruse, dedicate all’evoluzione dell’equipaggiamento degli Zappatori imperiali.
Il mio primo incarico, la traduzione dall’inglese di Irish Regiments in the American Civil War, si rivelò più laboriosa del previsto: filai svelto sulle trenta pagine di testo introduttivo, ma m’impantanai davanti al centinaio di brevi didascalie che illustravano le uniformi riprodotte sul volume. Erano superbi dipinti a olio d’un tale Malcolm McMurdo e, senza l’aiuto di quelle figure, non avrei mai saputo ricostruire il vero significato di termini che, alla fine, risultavano oscuri anche in italiano: cosa significavano “mostreggiatura” e “buffetteria”? E si poteva andare certi che un Marshall irlandese dell’Ottocento fosse l’equivalente del maresciallo dei Carabinieri? Non riuscii a occuparmi d’altro per due settimane, ma alla fine consegnai a Malossi una versione accettabile di I reggimenti irlandesi nella Guerra di secessione, e ne ricavai un’intera carta da centomila. Conservo ancora quel volume a marchio Retroprint fra i ricordi più cari, e mi spiace di avere perso fra un trasloco e l’altro le testimonianze delle mie successive collaborazioni con il vecchio Malox.
Lavorai per lui un paio d’anni, lasciando il segno con la traduzione del best seller US Marines in the Vietnam War, che in versione originale aveva venduto trecentomila copie, e alla Retroprint fece segnare il record di sei ristampe. A Malossi fruttò pacchi di milioni, a me le solite centomila lire, e quella volta avvertii con esattezza cosa si prova a sentirsi sfruttati.
Dovetti fare le prove allo specchio, prima di trovare il coraggio di fargli le mie rimostranze, ma quando lo affrontai, Malox prima m’invitò a pranzo, e poi si comportò con una tale tracotanza da risvegliare il leone che dormiva, da qualche parte, dentro di me.
«Chi ce lo mette il rischio d’impresa, qui?», fece presente seduti in una trattoria fuorimano. «Il sottoscritto che lavora da una vita, o il giovanotto senz’arte né parte?».
Citò l’insuccesso di Arcieri inglesi nella guerra dei Cento anni come fosse stata mia la decisione di farlo uscire e, quando notai ch’era stata una sua scelta, andò su tutte le furie.
«C’è poco da arrabbiarsi», feci presente. «Coi Marines la casa editrice ha guadagnato bene, e io sono qui a chiedere se vi sembra giusto, che a me ne sia venuto solo l’ingaggio-base».
«Chi ti credi di essere, Umberto Eco? Guarda che c’è la fila, fuori, per lavorare con me!».
«Così non si può fare», m’intestardii. «La squadra, mister, ha meritato il premio-partita».
La metafora calcistica mi si ritorse contro all’istante. «D’accordo», concesse Malox mentre ci servivano due scodelle di gramigna alla salsiccia. «Altre centomila di premio, e finiamola qui. Altrimenti finisci di corsa nella lista dei giocatori cedibili».
Tacqui, mortificato, e valutai di lasciare solo Malox con due porzioni di gramigna; poi mi figurai la calma olimpica con la quale le avrebbe trangugiate una dopo l’altra, troppo preso dai suoi pensieri per domandarsi che fine avessi fatto, e decisi che dovevo colpirlo in un altro modo.
«Sei proprio uno stronzo», scandì la mia voce. «Uno stronzo e un avaro. Puoi tenertele, le tue centomila».
Malox fece tanto d’occhi e, quando vide che mi alzavo, borbottò solo: «Vai a farti fottere».
«Vai a farti fottere tu, invece», replicai, a tono non tanto basso, mentre gli stavo in piedi di fronte. I commensali dei tavoli vicini seguivano la scena con interesse crescente, e intesi una signora dagli zigomi alti annunciare: «Alè. Adesso si menano». In effetti mi prudevano le mani, ed ero ormai troppo caldo per preoccuparmi del pubblico.
Quando Malox, con un gesto al rallentatore, raccolse dal tavolo un pezzo di pane smangiato e me lo lanciò in faccia, persi il controllo in via definitiva: presa la caraffa dell’acqua, gliene lanciai addosso il contenuto.
Si sentì la meraviglia coagulare in un «Ooh» collettivo, e ora anche Malox era imbufalito, come se il ritrovarsi bagnato davanti a tutti fosse l’umiliazione estrema.
«Ti spacco il muso», gridò, e non avevo dubbi che ci avrebbe provato sul serio; così, sollevato d’un palmo il bordo del tavolo, glielo spinsi addosso a due mani ancor prima che si mettesse in piedi: Malox pericolò all’indietro con tutta la sedia, quindi si aggrappò in maniera disastrosa alla tovaglia e andò giù di schiena tirandosi addosso stoviglie, oliera e gramigna.
Gli sarebbe cascato addosso anche il tavolo, se non l’avessi trattenuto, ma l’editore della Retroprint non se ne dimostrò troppo grato: nonostante le assicurazioni fornite ai camerieri, finimmo a spintonarci come ragazzini nel cortile della trattoria, e Malox non ne ebbe abbastanza finché non scivolò daccapo. Stavolta finì con la faccia nella ghiaia e, quando lo vidi risollevarsi pesto e furibondo, preferii avviarmi di buon passo verso la città. Tanto, arrivati a quel punto, un passaggio non me lo dava di sicuro.