Distribuite in giro per la casa c’erano ben quattro librerie, alte fino al soffitto e stipate di libri. Un intero piano della libreria più prossima alla cucina era dedicata ai sacri testi di mio padre: l’Artusi e Il talismano della felicità godevano dei posti d’onore, fianco a fianco con innumerevoli ricettari antichi e moderni, giù giù fino ai numeri natalizi più recenti della “Cucina Italiana”.

Il piatto che cucinava nelle grandi occasioni, i “maccheroncini alla Bacco”, richiedeva qualcosa come mezza giornata di preparazione, e la cura che metteva nel tagliare ogni cubetto di mortadella era degna di un orologiaio, eppure lavorava cantando, lieto sino alla grulleria, come non lo vedevi mai quand’era seduto di fronte alle xerografie dei manoscritti cinquecenteschi o impegnato al proiettore di microfilm. Solo molti anni dopo avrei compreso che metteva nella cucina la gioia tipica di chi si lascia alle spalle un mondo fitto di parole scritte, e gode nel ritrovarsi fra odori e sapori che conobbe bambino, ancora analfabeta.

La cucina era la pancia della casa, e ognuno là dentro tornava com’era da giovanissimo: mamma, che aveva giocato a nutrire le sue bambole come tutte le piccolette, pensava a quei pochi metri quadrati come a un luogo da gestire con razionalità, e allo stesso modo il pensiero la assisteva nel fare la spesa e cucinare. Babbo, invece, si gettava nelle sue imprese con la vena istrionica e incontenibile dell’ex cinno da cortile: con un frullatore in mano era in grado di sporcare anche il soffitto, ma potevi stare certo che da quel campo di battaglia sarebbe uscito vincitore, per portarci come trofeo qualcosa di insolito e gustoso. Che si trattasse d’un primo, d’un secondo o d’un piatto unico, il tacito patto fra coniugi prevedeva che sarebbe stata mamma a fare le porzioni. In ogni caso lei, prima di azzardare una forchettata, avrebbe scoccato uno sguardo carico di preoccupazione verso il piatto di babbo, per poi sospirare: «Sorbole. Oggi aumenteremo di tre chili».

Era preoccupata per la forma del marito e lui a parole le dava ragione, ma non appena mamma si distraeva, babbo era capace di farti l’occhiolino accennando alla pentola ancora piena per metà, invitandoti a servirgli il bis senza troppa pubblicità. Agli occhi di noi figli era il loro gioco, ma non c’era dubbio che, se nostra madre era troppo incline a preoccuparsi di continuo, d’altro canto babbo aveva una passione per il cibo non comune.

«L’alimentazione è cultura», ripeteva spesso, mentre si faceva aiutare a lardellare quaglie, farcire pernici o ungere leccarde, ed era felice di raccontarti nel dettaglio lo straordinario menu consumato da Edoardo III d’Inghilterra e Filippo VI di Francia quando s’incontrarono sotto le mura di Calais, per siglare una tregua nel corso della Guerra dei Cento Anni.

Nonostante il suo approccio da storico, sempre attento a tradizione e radici, babbo amava anche la cultura delle altre civiltà.

Era uso ai panini americani come alle rosette con la mortadella, e adorava le specialità del Levante: fu lui a farmi conoscere blinis, taramas e tzatziki, e sempre lui a introdurmi nel roteante mondo del kebab. A differenza di mamma, non disdegnava le uscite al ristorante cinese, dove potevo esercitarmi a catturare con le bacchette tocchi di carne caramellata, bocconi di ravioli alla soia e altri sapori fin lì sconosciuti.

Mio padre e zio Nestore erano fratelli ma, in fatto di alimentazione, avevano costumi molto diversi: babbo amava cucinare ed era curioso di provare specialità iberiche, bretoni e turcomanne, mentre lo zio non possedeva nemmeno un grembiule, e continuava a mangiare all’antica.

Quell’uomo dallo sguardo furbesco e i baffi spioventi da pistolero sapeva apprezzare la tradizione alimentare dell’Alta Italia come quella del Mezzogiorno, ma si vantava di non essere mai entrato in un ristorante che proponesse cucina forestiera. A sentir lui, i cinesi ti servivano gatto all’arancia e gatto alle mandorle, ed era un grande raccontatore di leggende metropolitane che vedevano gente macellata, fatta a pezzi e servita con i germogli di bambù ad allegre tavolate di colleghi della vittima.

«È successo a gente di una ditta che conosco bene», ti giurava. «È stata la segretaria, a ritrovarsi nella scodella il dito del direttore commerciale. Era sparito da una settimana e l’hanno riconosciuto dall’anello».

Nonostante l’indubbio orrore di quella scena, non c’era verso di sapere il nome della ditta, o cosa ne aveva pensato la polizia. Era come se il racconto andasse preso in senso trasfigurato, simbolico o metaforico, in ogni caso spostato verso la dimensione delle fregnacce.

«Ma lo sapete come friggono le patatine, da Burghy?», era capace di uscirsene, serio come quando ti aveva confidato di far parte della Carboneria. «Usano lo stesso olio per un mese! Un mese, parola! Me l’ha confidato un amico che lavora in quel ramo, e non ha nessun interesse a raccontare balle».

Zio Nestore era rappresentante di vernici industriali e il suo lavoro lo portava sempre in giro per l’Italia a incontrare grossisti e clienti: doveva essere grazie a quella marea di conoscenze che metteva insieme il suo repertorio di leggende da riferire all’indicativo, come fatti certi, e non di rado sigillati dall’esclamazione definitiva: «L’hanno anche detto in tivù!».

Magari in tivù, la sera prima, avevano annunciato che una pantera era fuggita dalle gabbie del circo e vagava per le colline dell’Irpinia, ma nella versione di zio Nestore la fiera era già stata avvistata alle porte della nostra città. «È spuntata all’alba sul parcheggio del Centergross, e ad avvistarla è stato un magazziniere che conosco bene. Quello c’è rimasto secco ma, per sua fortuna, la bestiona ha visto un camion in arrivo, si è presa paura ed è scappata chissà dove».

Quand’era in città, lo zio faceva base in un appartamento da scapolo che svolgeva anche la funzione di magazzino: secondo mio padre, Nestore là dentro non si era mai cucinato nemmeno un piatto di spaghetti. «È mio fratello e lo conosco bene: quel cristiano è vent’anni che mangia fuori a colazione, pranzo e cena», spiegava senza nascondere l’esecrazione. «Ha cominciato da studente, quando si andava da Lamma, sotto le Due Torri, a ordinare per due lire tonno, cipolla e fagioli. Poi, al militare, ha preso l’abitudine di pranzare in latteria, quando ti servivano ancora frittate e formaggi. E, da quando ha aperto la partita Iva, dice che mangiar fuori gli conviene: sarà per questo che non si è mai sposato…».

Socievole ed errabondo com’era, Nestore sapeva consigliarti un’imperdibile trattoria a buon mercato in qualsiasi angolo d’Italia, e spesso i parenti ricorrevano ai suoi consigli in occasione di trasferte lavorative o viaggi di piacere.

Una volta gli diede retta anche mio padre e il risultato fu che finimmo con mamma e il cadetto in un chiassoso ristoro per camionisti sullo stradone di Occhiobello.

Mangiammo male, e mamma dovette pranzare a testa bassa per evitare gli occhiolini dei clienti più ubriachi.

Alle rimostranze di babbo una volta tornati in città, però, zio non si scompose. «I casi sono due», stabilì. «O è cambiata gestione, o avete proprio sbagliato posto. Dove dico io ci sono i profumi nei bagni a disposizione dei clienti».

Dov’eravamo stati noi, invece, nei bagni sarebbe stato opportuno entrare armati.

«Poche balle, Nestore!», si scaldò babbo, e insistette che il posto era proprio quello consigliato dallo zio pochi giorni prima.

Lo zio allora schioccò la lingua, come non sapesse spiegarsi cosa poteva essere andato storto e, senza darsi per vinto, insistette che saremmo dovuti tornarci insieme a lui. «Ci tratteranno bene», garantì, ma mio padre non ne volle sapere e, da quel giorno, “i consigli di Nestore” divenne in casa nostra un’espressione proverbiale.