Le salsicce della Grande guerra
Sul diario di terza elementare era presente una pagina speciale, strutturata a mo’ di questionario. Le sfilze di puntini dimostravano come ci si attendesse che lo scolaro fornisse per iscritto risposte sintetiche a domande come “Quale cartone animato preferisci?” e “Qual è il tuo calciatore preferito?”.
Scrivere “Goldrake” e “Paolo Rossi” non era difficile, ma gli ultimi interrogativi della sfilza avevano a che fare con i nostri gusti alimentari, e ricordo che mi trovai in difficoltà.
“Qual è il tuo piatto preferito?” e “Quale piatto, invece, detesti?” non sembravano domande come le altre. Se avessi saputo spiegarlo, avrei protestato che coinvolgevano una sfera più intima del mio essere e che nessuno doveva sentirsi obbligato a scrivere in due parole che cosa gli piaceva o non piaceva mangiare.
“Qual è il tuo piatto preferito?” era una domanda personale, inopportuna da parte di un diario scolastico, alla stregua di “Chi ti piace di più fra le tue compagne?” o “Vuoi davvero bene a Gesù?”. Il problema principale, tuttavia, non aveva a che fare con la curiosità del diario, ma con la sua ottusa pretesa che potessi rispondergli in così poco spazio.
Il cibo era qualcosa di sacro, come i sentimenti e la religione, e trovai che quel genere di questionario fosse concepito per bambini diversi da me, minorenni privi di radici e di scrupoli, disposti a scrivere senza un rimpianto che il loro piatto favorito era la carne Simmenthal o il tonno che si taglia con un grissino.
In ogni caso, se era sincerità che il diario voleva da me, lo avrei accontentato: voltai pagina e, sulla nuova facciata intonsa, tracciai a Bic una sbilenca linea verticale, in grado di dividere lo spazio più o meno a metà.
Scrissi sulla colonna di sinistra “Piatti che mi piacciono”, a destra “Piatti che mi fanno schifo”, tirai il fiato e mi disposi a elencare le delizie. Al posto d’onore, a grandi lettere in maiuscolo elencai “uccellini scappati”, il nome familiare degli involtini fritti, farciti di carne, prosciutto e formaggio, che mamma preparava per il mio compleanno. Seguivano: tortellini, tortelloni, ravioli, gnocchi al ragù, lasagne, cannelloni, spaghetti alla carbonara, bucatini alla matriciana, zuppa imperiale, polpette ai piselli, cotoletta, svizzera di vitello, patate fritte oppure al forno, uovo sodo, uovo fritto, uovo Kinder, vafer, torta di riso e corn fleics.
A riconsiderarli, non erano pochi alimenti, ma decisi, in un impeto di salutismo, di aggiungere l’uva moscato e i fagioli bortolotti, che ritenevo chiamarsi così in omaggio al cognome del droghiere di zona.
Adesso potevo spostarmi a destra del confine e divertirmi a elencare tutto quel che non mi piaceva; già pregustavo una sensazione liberatoria all’idea di compilare una lunghissima lista nera.
Scrissi tutto, dalla bistecca di cavallo ai temuti broccoli, dal riso acquoso di zia Egle ai tortelli di zucca, un cavallo di battaglia della cucina campagnola che, all’epoca, trovavo ributtante. Non dimenticai di vergare a chiare lettere l’empio nome degli spinaci, e così pure quello del cinghiale: dopo averlo gustato insieme ai miei genitori in una trattoria dell’Appennino, trovandolo piccante e guarnito di pallini da caccia, lo consideravo il fratello quadrupede di Satana.
Quand’ebbi finito di compilare il mio elenco, andai fiero da mio padre per mostrarglielo.
«Dimentichi qualcosa!», esclamò babbo quando l’ebbe scorso rapidamente. «Non hai scritto le rane!».
Non le avevo mai mangiate, ma potevo supporre che fossero destinate alla colonna delle schifezze.
Babbo, invece, spiegò che la carne bianchissima di quelle creature gracidanti era d’una bontà sopraffina, e io mi feci l’idea che volesse prendermi in giro. Come si vedrà, non andavo lontano dal vero.
«Una volta dovresti provarle», m’incoraggiò. «Non tutti gli animali brutti hanno una carne cattiva».
Se dovevo basarmi sul cinghiale, era difficile credergli. «Non le mangerò mai, le rane», garantii. «Mi fa schifo solo pensarci».
«Ti fidi troppo delle apparenze», mi liquidò mio padre. «Un giorno vedrai che non sono affatto male».
Non doveva essere passato un mese, che ci trovammo insieme a mamma e a una dozzina di parenti in una chiassosa trattoria di campagna. Avevo appena finito di spolpare la mia piccola coscia di pollo, quando babbo domandò con una strizzata d’occhio: «Allora? Com’era?».
«Buono», assicurai.
«Visto?», replicò, e notai che Nestore, l’unico tra i suoi fratelli a non avere preso moglie, si lisciava i baffi per nascondere un sorriso sospetto.
«Visto cosa?», domandai, preoccupato.
«Non tutti gli animali brutti, come ti dissi, hanno una carne cattiva».
Dovevo essere stato gabbato, ma ancora non capivo come.
«Hai appena mangiato una rana, amore mio». Mamma confermò i miei sospetti più orribili. Mi sorrise in tono di scusa, e chiese senza troppa convinzione: «Non era male, vero?».
Ero arrivato a scambiarla per pollo: sarebbe stato ridicolo sostenere che non mi era piaciuta, ma le risate degli uomini, adesso, mi facevano battere le tempie dalla rabbia, e scoppiai a piangere stizzito.
«Quante storie!», protestò babbo. «Ma forse piangi perché ne vuoi un’altra».
«Smettila!», gli gridai contro, anche se l’espressione che assunse mi consigliava di andarci piano con le alzate di capo.
«C’è rimasto male, poverino», mi consolava mamma, e zio Nestore raccontò che anche a lui, da ragazzo, avevano fatto mangiare le rane senza che ne avesse espresso il desiderio.
«Era una prova di coraggio per entrare in una società segreta», improvvisò da par suo. «Io, all’inizio, avevo paura, ma poi mi sono accorto che non erano niente di terribile. Anzi».
«E ci sei poi entrato, nella società segreta?», indagai.
«Perbacco», rispose. «Tutta la vita, ci sono rimasto dentro. Mai sentito parlare della Carboneria?»
Al massimo conoscevo la carbonara, così gli domandai di cosa si trattasse. «Ci battevamo contro i tiranni e lo Straniero», proseguì lo zio, filologico.
«Forte», ammisi, provando a immaginare il costume di battaglia dell’organizzazione.
«Adesso che hai mangiato le rane, puoi batterti anche tu», assicurò.
Guardai trionfante i miei genitori: mi avevano ingannato per farmi mangiare un animale immondo, ma adesso ero della Carboneria ed era meglio che ci pensassero bene, prima di prendermi in giro un’altra volta.
Nonno Otello, il padre di babbo e zio Nestore, era un uomo robusto e vecchio come il secolo avviato a concludersi: era del 1901, il patriarca, e se pure lo trovavi immancabilmente seduto a capotavola, ormai impacciato dalla mole e dagli acciacchi, la sua verve sembrava inesauribile, e gli occhi grigi erano traversati da lampi d’eccitazione ogni volta che si scaldava per qualche argomento. Si capiva che, da ragazzo, aveva avuto l’argento vivo addosso.
La sua prima alzata di capo memorabile risaliva ai tempi della scuola: poteva essere il 1910 quando, condotto in gita scolastica sulle rive del torrente Savena, aveva ben pensato di non ubbidire al maestro, che si raccomandava di stare lontani dalle spallette del ponte, e anzi le aveva scavalcate, per tuffarsi in acqua sotto lo sguardo ammirato dei compagni. Ne aveva ricavato una sospensione da tutte le scuole del Regno, dalla quale era stato graziato solo dopo un paio di stagioni.
Né la pena, né la sua sospensione, va detto, avevano raffreddato l’ardore del suo spirito patriottico.
A sedici anni, appreso che gli austriaci avevano sfondato il fronte a Caporetto, Otello aveva lasciato un biglietto per i genitori, quindi era fuggito dal borgo natale di San Lazzaro per portarsi in treno verso le retrovie; nello zaino aveva una collana di salsicce che, insieme al maglione e alle mutande di ricambio, costituivano tutto il suo equipaggiamento di aspirante martire per la Patria. Le armi contava di riceverle una volta arruolato, ma non aveva fatto i conti con la burocrazia italiana: nel caos seguito alla disastrosa ritirata, si erano persi i registri di battaglioni e reggimenti, e i pochi ufficiali rimasti al proprio posto preferivano aspettare che arrivassero in rinforzo i giovani regolarmente precettati, piuttosto che rischiare qualche punizione arruolando di straforo un minorenne sconosciuto.
Mentre vagava alla ricerca d’un reparto disposto ad accoglierlo, il sedicenne in abiti civili era finalmente stato notato da un gruppo di alpini, di ritorno malconci dalla prima linea. «Dove vai, bocia?», gli avevano domandato. «Torna bene dalla mamma, ché qui non è lavoro per te».
L’avevano rispedito a casa, per fortuna sua e della numerosa progenie che avrebbe generato, ma prima di lasciarlo andare avevano voluto aprire il suo bagaglio: nonno era anche disposto a lasciare ai militari le mutande e il maglione, ma quelli si illuminarono in volto solo quando scoprirono le salsicce, e se le divisero sotto gli occhi del legittimo proprietario.
Quasi settant’anni più tardi, lontanissimo dal fango e dalle trincee del Bellunese, nonno raccontava la storia, ancora imporporato di stizza: apostrofava come “ladri” e “maledetti” quegli alpini che, riavviandolo a casa, gli avevano salvato la vita, e reclamava l’impossibile restituzione delle sue salsicce, delle quali sosteneva di ricordare benissimo consistenza e profumo. Dal suo punto di vista, insieme a una prelibatezza, gli avevano sottratto la possibilità di una giovinezza eroica – l’avrebbe sostituita con una non disprezzabile gioventù da dongiovanni di paese negli anni Venti – e doveva essere questa, ai suoi occhi, la colpa più grave delle Penne nere.
Quando era arrivata “l’altra guerra”, infatti, ormai era un padre di famiglia troppo in là con gli anni per essere richiamato, e così era rimasto a lavorare all’ufficio postale di San Lazzaro. Non aveva storie di battaglie da raccontare a noi nipoti maschi, tutti appassionati di soldatini, film bellici e fumetti della serie Supereroica.
Dopo la mancata vestizione in grigioverde, nonno era tornato alla sua vita di provincia, dove si era distinto soprattutto come faro della vita da caffè, sciupafemmine e scapolo irriducibile. «Spuset bàn, Otello! Spùset!», gli raccomandava il curato ogniqualvolta se lo trovava di fronte.
Il dandy Otello, invece, non ci pensava affatto: preferiva le mangiate pantagrueliche con gli amici, le riviste a teatro e le corse in motocicletta con una fidanzata sempre diversa seduta alle spalle e, quando la signorina di turno osava insistere per un fidanzamento ufficiale, nonno capiva che era tempo di scaricarla, in senso letterale: fermava la moto e invitava la giovane a scendere, prima di rombare via, alla volta di nuove avventure.
Solo la maestrina del paese, minuta ma dotata di un carattere di ferro, l’aveva messo in regola senza lasciarsi spaventare dalla sua fama: si erano sposati al tramonto degli anni Trenta e, nonostante la situazione internazionale invitasse alla cautela, insieme avevano concepito sette figli.
Nonna Gemma aveva fatto in tempo a mettere al mondo Giuliana e Brenno prima che avesse inizio la Seconda guerra mondiale; Nestore e Doris erano rispettivamente del ’41 e del ’43, mentre mio padre era stato registrato all’anagrafe al tramonto della Repubblica di Salò. La famiglia aveva continuato a crescere in tempo di pace: zio Walter era arrivato nei giorni del referendum, seguito dopo diciotto mesi da zia Lucia, l’unica a essere nata sotto la Repubblica.
Alla loro mensa, nella casa patriarcale sotto i portici del centro, si mangiavano spesso i passatelli in brodo e il bollito con le mostarde, e ci stava che la porzione da mezzo chilo di zuppa inglese servita da nonna come dolce risultasse un po’ eccessiva.
Anche lì, però, guai a lasciarne un grammo, ché oggi regna l’abbondanza, ma domani potrebbero sempre tornare le selvagge orde d’armati stranieri a requisire il bestiame, violentare le donne e deportare gli uomini, così è meglio riempirsi la pancia finché si può stare allegri.
Una volta che sedevo alla sua destra, nonno Otello mi riprese poiché avevo posato la mia pagnotta sottosopra. «A tævla e a lèt, a i vôl dal rispèt», borbottò, mentre un’ombra gli passava sul volto. «Il pane non si mette mai a testa in giù. Lo sai perché?». Mica lo sapevo.
«In ricordo dell’ultima cena di Nostro Signore», spiegò. «Pregandolo, gli domandiamo il pane quotidiano e, dal momento che ha la bontà di darcelo, bisogna trattarlo bene».
Nessun altro cibo godeva dello stesso prestigio a eccezione del sale, che andava maneggiato con mille cure pena lo scatenarsi di antiche maledizioni, e poteri particolari erano attributi anche all’olio, tanto a “quello buono di Brisighella” come all’altro, appena spillato dalla latta verde della Sasso.
Il vino, invece, meritava un discorso a parte: se ogni uomo doveva finire il vino che si ritrovava nel bicchiere, non era solo in ricordo del sangue di Gesù, che pure sarebbe apparso un motivo bastevole. La faccenda, in questo caso, si arricchiva di un côté sociologico: il giovane maschio andava gradualmente abituato al vino fra le mura di casa, affinché non si rendesse ridicolo quando si fosse trovato a bere fuori.
Un uomo che non regge l’alcol, infatti, sembrava quanto di più disdicevole si potesse avere in famiglia: chi si ubriaca facilmente parla a vanvera. Spiffera segreti. E, da ultimo, si comporta in maniera da farsi ridere dietro. Tutto il contrario delle doti richieste a un maschio, perlomeno secondo nonno Otello: a sentir lui, per farsi strada nel mondo, bisognava guadagnarsi fama di galantuomini, avere buoni amici, coltivare la resistenza fisica e, soprattutto, non perdere la fiducia nel fatto che domani sarà una giornata fantastica.
«Fra cinnazzi si rispetta il più forte», era la sua teoria. «Quando gli uomini maturano, invece, tendono a seguire chi non si perde mai d’animo».
Sta di fatto che, non appena mi sedevo alla sua destra, nonno Otello si premuniva di versarmi il vino nel bicchiere: un dito di sangiovese a otto anni, due a dieci, mezzo bicchiere a dodici e, da lì in avanti, avrebbe preso a riempirmi il bicchiere di vetro spesso, da osteria, sin quasi all’orlo.
Becchettando il vino, ascoltavo i suoi racconti di quando i ragazzini portavano i pantaloni alla zuava e correvano felici dietro a un cerchio di legno. Qualcosa rotolava anche dentro di me e, osservando le guance ruvide come grattugie del patriarca, provavo una sorta di vertigine: forse, un giorno, sarebbe finita per tutti la stagione delle scoperte e delle imprese, per lasciare spazio all’età adulta e alla possibilità di generare vita nuova.
Davvero sarebbe toccato anche a me, prima o poi, sedere a capotavola?