Come tutte le epoche veloci, gli anni Ottanta del XX secolo sembrano destinati a essere ricordati con nostalgia o esecrazione, senza vie di mezzo. Con il senno di poi, fu il decennio nel corso del quale le cose cambiarono per sempre.

Le nuove generazioni, figlie degli ex Sessantottini, avevano fatto il loro debutto in società al tempo di Brežnev e Jimmy Carter, indossando pantaloni a zampa d’elefante e trovando in casa “Linus”, “il manifesto” e “Lotta Continua”, ma per la metà del decennio eravamo tutti rivestiti di felpe colorate Zerododici Benetton e tessuti jeans. Portavamo i capelli tagliati corti e calzavamo con orgoglio scarpe sportive d’importazione: Nike i viziati, New Balance gli originali, Adidas tutti gli altri. Non è qui il luogo adatto per ricordare determinati prodotti rivolti ai giovani maschi, come la Gommina gel capello, o gli spray che le ragazze usavano per rendersi la chioma paglierina, e nemmeno certi fondotinta a base chimica, in grado di depositarsi in tracce bruno-arancio, indelebili come l’UniPosca, sui colletti delle camicie. Basterà ricordare che la più caratteristica sottocultura giovanile italica del tempo fu quella dei paninari, sfrenati feticisti dell’abbigliamento di marca, ricombinato in maniera così originale da farli apparire l’anello mancante fra lo zappaterra e l’astronauta: piumini rigonfi e calzettoni scozzesi in bella vista, scarpe da boscaiolo dell’Oregon e jeans istoriati di toppe non davano esattamente l’idea della leggerezza o dell’agilità, ma era conciati così che i fratellini minori degli yuppies affollavano i centri storici della Repubblica.

Che cosa mangiassero era chiarito dal loro stesso nome: hamburger, cheeseburger e patatine fritte, ma non perché andassero di fretta. Di tempo libero, anzi, ne avevano a bizzeffe, come i Vitelloni degli anni Sessanta, e lo spendevano seduti di traverso sulle selle delle Vespe posteggiate di fronte alle vetrine milanesi di Wendy, o a quelle bolognesi del Ping Pong e, più tardi, in tutta Italia, davanti a Quick, Burghy e McDonald’s. Come agli sfaccendati felliniani, a loro interessava solo divertirsi e cuccare le sfitinzie, ma rispetto ai loro avi i paninari originali avevano un penchant per la rissa insensata, le droghe veloci e il Fronte della Gioventù; nel giro di poche stagioni, però, quella sottocultura si trovò sovraesposta, imitata da troppi e parodiata nel Drive in televisivo, al punto che “paninaro” diventò un semplice sinonimo di “giovane italiano alla moda”.

Un giorno del 1986 compresi che anche mio cugino Luigi, il figlio di zio Athos e zia Wanda, era diventato uno di loro: all’improvviso si era tagliato i capelli come un camionista austriaco, corti sopra e lunghi dietro; ai piedi calzava gli scarponcini Timberland d’ordinanza, e indossava maglioni a rombi colorati sopra a t-shirt rosa o giallo fluo coperte dai loghi di marche da surf. Era uno sport che non avrebbe mai praticato, ma quelle magliette sgargianti avevano il merito di esaltare il suo nuovo incarnato color terra di Siena, ottenuto a forza di creme chimiche e lampade a raggi Uva.

Era diventato un’altra persona, virtualmente irriconoscibile, e le parole che gli fiorivano in bocca sembravano delineare una lingua nuova, uscita dalle pagine a fumetti del Randa, l’eroe di carta dei “panozzi”: Luigi adesso parlava di sé come di un “gallo di Dio”, e di me, purtroppo, come di un “gino”, uno sfigato, come tutti quelli che non facevano parte della loro scena.

«Vado a gallare in centro» era l’annuncio con il quale avviava la Vespa PK, pronto a levarsi di torno fino a sera, quando sarebbe rientrato per cambiarsi e uscire nuovamente verso qualche discoteca, dove dimostrarsi un impeccabile “cucador” e fare a cinghiate con le bande, assai meno à la page, di ragazzacci in bomber e anfibi provenienti dai quartieri periferici.

«’Sti ragazzi non hanno proprio un accidente da fare», sospirava zio Athos che, all’età del figlio, lavorava già nel fine settimana come manovale. «Sono senza ambizioni e, Dio solo sa perché, è come non avessero mordente», diagnosticava, meditabondo. Si vedeva che il suo cruccio era autentico, ma intanto era dispostissimo a scucire altre cinquanta carte non appena il figliolo ne avesse fatto richiesta.

Al capo opposto del virtuale “parlamento dei ragazzi”, e della catena alimentare, erano le composite tribù degli alternativi: fra metallari, punk e seguaci della musica hardcore, uniti nel rifiuto ideologico del fast food in quanto simbolo dell’Amerika di Reagan, andavano facendosi largo tendenze d’importazione che, negli anni, avrebbero segnato la storia del costume italiano ancor più profondamente rispetto alla fiammata degli hamburger e dei piumini da sci. Nei centri sociali dell’epoca, in rete con i movimenti del dissenso europei, britannici e d’Oltreoceano, suonavano ogni settimana band straniere, i cui membri non di rado manifestavano disagio per la pizza al salame da consumare fra il soundcheck e l’inizio del concerto: non sapevano, i compagni italiani, che macellare animali era una pratica barbara e imperialista? E non erano stanchi di ubriacarsi tutte le sere? Non sapevano nemmeno che in America, nel Regno Unito e in Germania andavano prendendo piede varianti radicali del vegetarianesimo, come la filosofia vegana? E del pensiero straight edge (niente droghe, alcol o sesso occasionale) formulato da Ray Cappo degli Youth of Today, e portato avanti di pari passo alle suggestioni Hare Krishna da un numero sempre più vasto di band, cosa ne dicevano, those lazy Italians?

I paninari furono addomesticati dai media, che dedicarono loro fiumi d’inchiostro, siparietti televisivi e pellicole cinematografiche, mentre i giovani alternativi dalla testa rasata o carica di trecce afro, attenti ai diritti degli animali e aperti a stili di vita non-europei, furono indubbiamente sottorappresentati da stampa e televisione.

Eppure, nello spazio di un quarto di secolo, sono quelli che mio cugino Luigi chiamava “gini comunisti” ad aver lasciato il segno più profondo nella cultura giovanile italiana: Timberland, Moncler e cinture El Charro oggi vengono portati solo separatamente per non sembrare, appunto, la parodia d’un paninaro, e nessuno è più convinto che abbuffarsi di proteine animali e patatine fritte sia un’attività ammirevole. Al contrario, prima i dreadlock, poi i tatuaggi e i piercing sarebbero usciti dai centri sociali per diventare moda negli anni Novanta e Duemila; più in generale, rispetto ai tempi della nostra infanzia, si è fatta largo nella società l’idea che serva una maggior attenzione all’ecologia, all’equilibrio fra umani e altre creature viventi, e che l’alimentazione non dovrebbe essere ispirata al principio dell’eat all you can.

In quegli anni, invece, era in corso una versione su scala nazionale della Grande abbuffata: l’Italia consumava più calorie che mai, finalmente era a disposizione di chiunque la possibilità di coprirsi di marchi commerciali come piloti di Formula 1, e chi non partecipava all’orgia del consumismo era guardato come un noioso guastafeste. I ristoranti erano sempre pieni, le dispense domestiche traboccavano di alimenti ricercati come il salmone, il caviale o l’allora onnipresente rucola, ma la nouvelle cuisine non aveva preso piede nel nostro Paese se non come fenomeno di costume: fuori si brindava con bottiglie ricercate e si consumavano antipasti ipocalorici di concezione francese, tanto per sembrare fichi, ma a casa ci si continuava a sfondare di frittate di pasta, lasagne e patate al forno.

Il risultato fu che, nel giro di pochi anni, la Repubblica mise su peso, e non erano tutti muscoli.

Proprio adesso che ci si poteva strafogare a piacimento, saltò fuori che ingrassare era out.

I golosi maledissero lo spirito del tempo, e si misero in coda con i dinamici per iscriversi in palestra. Quando però si resero conto che l’aerobica era faticosa e la cyclette anche, optarono in grande maggioranza per abbandonare l’attività fisica, e preferirono puntare tutto sul cambiamento del regime alimentare.

Iniziava così il calvario collettivo delle diete alla moda, uno degli argomenti di conversazione che gli italiani avrebbero trattato più volentieri nelle occasioni sociali: adesso tutti ti volevano raccontare quale dieta seguivano, persino al bar mentre addentavano un bombolone alla crema, oppure seduti al ristorante.

Nel pieno dei prismatici Ottanta forse non c’era in tutta la Repubblica un singolo individuo fra i diciotto e i cinquant’anni che non seguisse un particolare regime alimentare.

Il dottor Tarnower, l’americano celebre per avere firmato il libro La dieta Scarsdale, era considerato il nume tutelare del nuovo corso. Si parlava di lui come di un guru e di un trascinatore, anche se nessuno l’aveva mai visto altro che in foto: Tarnower era stato freddato già da qualche anno a colpi di pistola da un’amante gelosa, stanca di dover condividere le attenzioni del dottore con la giovane segretaria.

Da un tizio così, fino al decennio precedente, in Italia si sarebbero guardati tutti, invece adesso quella barocca uscita di scena sembrava aggiungere autorevolezza ai suoi metodi: grazie ai consigli postumi del dottor Tarnower, martire del benessere, persino zio Athos e zia Wanda speravano di dimagrire fino a confondersi con i modelli della “Settimana della moda”, un ideale estetico che mai avevano avuto prima.

“E tu, che dieta fai?” era una domanda da prendere sul serio, ché la dieta era in grado di collocarti nella società; chi non ne seguiva nessuna, era da considerarsi infrequentabile.

Apparvero nelle scansie dei frigoriferi prodotti americani a marchio Weight Watchers, formaggi in fiocchi saporiti come carta crespa, beveroni da astronauti a firma Enervit Protein, e lattine di bibite dietetiche della Misura. Fu allora che la cucina si cominciò a confondere con la farmacia, e i più impressionabili non si sarebbero ripresi mai più: ancor oggi in tanti non riescono a pensare al sapore dello spezzatino, dei calamari alla piastra o della lattuga senza fare l’equivalenza fra porzione media e kilocalorie.

La grifagna fisionomia del deceduto Tarnower aveva segnato la stagione pionieristica delle diete italiche, ma presto si affacciò dai teleschermi una figura assai più rassicurante, che dava consigli ai grassottelli con un amabile accento napoletano, e prometteva agli abitanti della Repubblica soluzioni su misura per le complessioni mediterranee.

La dottoressa Alma Manuela Tirone, brillante scoperta delle televisioni private partenopee, dilagò in tutta Italia grazie alla pubblicità dei suoi libri e alle apparizioni televisive: con la sua figura rassicurante e matronale al tempo stesso, sapeva come bucare lo schermo e far breccia nelle coscienze. Il suo successo, in un Paese sempre desideroso di essere condotto per mano, risiedeva nel proporre tanto un impianto teorico, con le sue uscite editoriali, quanto una linea di prodotti acquistabili in farmacia, da lei stessa consigliati e garantiti mettendoci la faccia in senso letterale, dal momento che le sue sembianze erano effettivamente stampate sulle confezioni. La dieta blocca peso della dottoressa Tirone vendette qualcosa come 300.000 copie, almeno una delle quali finì nelle mani di zia Wanda, che subito gettò alle ortiche la Scarsdale, e cominciò a consumare in grandi quantità anche Tidepura e Tirinnova, le tisane della dottoressa.

Convinta che il metodo Weight Watchers fosse troppo punitivo, e la dieta Messegué troppo snob, la Tirone prese il controllo della coscienza di mia zia, e di parecchie altre compatriote, sino a diventarne lo spirito-guida: “Con Minilinea non rinunci a nulla”, lo slogan pubblicitario d’un’altra dieta tironiana, divenne il suo jingle interiore, che ogni tanto le sfuggiva a fior di labbra. O forse era il mantra che ripeteva dopo aver consumato il suo beverone d’erbe, ché Santa Tirone tenesse lontane le tentazioni di arrosti e paste al ragù.

L’aspetto curioso della faccenda, dal punto di vista di noi minorenni usi a palestre e piscine, era che nessuna pratica sportiva accompagnasse questa ragionierizzazione del cibo: a differenza di noi, molti adulti contatori di calorie non facevano sport neanche a pagarli.

Anziché mortificarsi con costosi alimenti dietetici, non potevano uscire all’aperto e fare un po’ di movimento? Era gratis, fra l’altro, ma forse proprio per questo non sembrava un’attività abbastanza ricercata. Senza contare che, se davvero zia Wanda si fosse messa in forma come Jane Fonda, dopo non avrebbe più avuto bisogno di seguire una dieta, e questo l’avrebbe fatta sentire una persona banale.

Il punto, infatti, non sembrava quello di avere un fisico da Olimpiadi, ma di poter tenere banco in società raccontando che si seguiva una dieta, ammorbando i presenti con le prescrizioni alle quali – il tempo è galantuomo, e l’ha dimostrato – non ci sarebbe attenuti.

In questo, forse, gli italiani della dieta Dukan non sono così diversi dai loro predecessori affidati alla Minilinea della dottoressa Tirone: pur ossessionati dalla chimera della forma, siamo molto timidi rispetto ad altri popoli per quanto riguarda l’educazione fisica, Cenerentola dei programmi scolastici e, troppo a lungo, ritenuta un orpello fascista dagli intellettuali barbuti come lo zio Arminio.

Che preferisse stare seduto a fumare era affar suo, ma la fola che curare il proprio fisico sarebbe stata una pratica di Destra non stava né in cielo né in terra: lo sapevamo persino noi ragazzini che nei Paesi del blocco sovietico lo sport era uno dei cardini dell’educazione pubblica, e gli atleti di punta godevano di privilegi impensabili per il semplice cittadino.

Da noi, invece, i pensatori più impegnati sembravano non avere mai frequentato palestre e spogliatoi, così giudicavano troppo grezzo e popolaresco persino il calcio. Anche quando le foto di Pasolini in tenuta da football avevano ormai sdoganato agli occhi dell’intellighenzia il giuoco nazionale, la resistenza culturale all’indossare una tuta fu enorme: ancor oggi si aggirano per la Repubblica persone intelligentissime (nella lista anche enigmisti di grido, senatori e, naturalmente, mio zio) che non ne avrebbero mai posseduta una.