Nell’autunno del 1993, sulla soglia dei diciannove anni, noialtri veterani dei licei bolognesi ci trovammo proiettati nel mare magnum dell’università.

Per qualcuno sarebbe stata un’esperienza lineare e per altri tormentata; qualcuno avrebbe ripensato a quegli anni come al primo mattone d’una carriera, e altri li avrebbero rimpianti, ma resta il fatto che nei mesi di settembre e ottobre ci ritrovammo, all’improvviso, in compagnia di coetanei provenienti da tutta Italia. Erano i favoleggiati “fuorisede” e, a differenza di noi, la sera non tornavano a casa da mamma. Vivevano altresì, ancora ignari della topografia cittadina, in speciali appartamenti “a misura di giovane” disseminati per il centro storico, la prima periferia e financo i borghi dell’hinterland; chi poteva, pur di vivere a due passi da piazza Verdi, pagava un occhio della testa per una stanza tripla con il bagno in comune, mentre una considerevole minoranza risiedeva in convitti o studentati, e solo i più fortunati potevano godere dell’ospitalità di amici di famiglia o vecchie zie.

Come fossero strutturate le case dei fuorisede, che andavano dal monolocale a vasti appartamenti capaci di accogliere sino a dieci persone in pianta stabile, lo scoprimmo solo facendo amicizia con loro.

Si meravigliavano quasi tutti di conoscere finalmente un bolognese – nel mio corso, dubito raggiungessimo la cifra di dieci iscritti su centocinquanta – e ognuno di loro aveva una storia interessante da raccontare, un accento peculiare e una diversa prospettiva sull’Italia.

Erano incontri capaci di arricchirti, e non solo dal punto di vista dei numeri telefonici in agenda; se pure non avevi un posto tutto tuo, ti si spalancavano per la prima volta le porte di case gestite da ragazzi. Per quanto fossero afflitti da padroni di casa esosi o impiccioni, turni per il lavaggio dei piatti e una preoccupante tendenza degli intonaci a coprirsi di umidità, a quell’età era difficile non invidiarli.

Li sentivamo un passo avanti a noi nella conquista della libertà, e sentivamo di dover recuperare in qualche modo il terreno perduto.

Anche noi, però, avevamo qualcosa da far pesare sulla bilancia della comune convenienza. Se i giovani forestieri avevano una casa a disposizione ma erano persi appena si allontanavano dalla direttrice fra il domicilio e la facoltà, noi aborigeni potevamo prestarci come perfetti conoscitori dell’area urbana e delle sue molteplici risorse.

E poi, argomento non secondario, dominavamo i trasporti: i nostri coetanei forestieri erano giunti appiedati sotto le Due Torri e tipicamente si erano muniti d’una bicicletta di seconda mano al mercato delle bici rubate di piazza Verdi, ignorando che le bici venivano fornite con un tacito contratto di garanzia: erano tutte destinate a essere rubate nuovamente, e rivendute a terzi, dagli stessi tossici che gestivano il mercato. Con questa strana forma di leasing, capitava spesso di sentire imprecare i tuoi nuovi amici, nei diversi dialetti d’Italia, di fronte all’ennesima catena tagliata a metà.

Noi, invece, avevamo Vespe, motociclette e scooter giapponesi, mezzi targati e punzonati sul telaio, più complicati da trattare anche per quei balordi commercianti; le due ruote ci consentivano un comodo arrivo di fronte alle rispettive facoltà e biblioteche, ma quel piccolo piacere si trasformava in lusso al calare delle tenebre: spostarsi nell’arcipelago di bar e locali sparsi per la città era facile, con cinquemila lire di miscela nel serbatoio. Naturalmente si viaggiava senza casco, e potevi trasportare un passeggero anche su un “cinquantino” confidando su una relativa tolleranza delle forze dell’ordine… Sembra di parlare di “magliette a strisce” e “Teddy Boys”, ma era appena vent’anni fa.

Quel posto extra per il passeggero, sempre sul filo dell’illegalità, ci offriva l’opportunità di dare un passaggio agli amici e alle amiche appiedati, chi per scelta, chi perché aveva subito il sesto o settimo furto di biciclette. Rombando sul filo dei quarantacinque orari, potevamo portarli a conoscere angoli della città a loro ignoti, a cominciare dai colli. Per determinate salite occorreva un certo slancio, e le frenate proverbialmente aleatorie della Vespa andavano dosate con cura in fase di discesa, ma di solito ne valeva la pena; si stupivano tutti di ritrovarsi in pochi minuti fra le alture, immersi nel verde, come non avessero mai considerato seriamente il profilo dell’Osservanza, sormontato dalla facciata neoclassica di villa Aldini, o quello del santuario di San Luca.

La maggior parte di loro pensava a Bologna come a una città distesa nella pianura e restavano a bocca aperta se ti spingevi fino a mostrar loro i segnali escursionistici della Via degli Dei, cinque giorni a piedi per arrivare a Firenze in mezzo a colline e montagne via via più spopolate e severe.

A vent’anni, quando si faceva conoscenza, la maschera cadeva in fretta lasciando il posto a una cordialità autentica. Lo spirito curioso, una felice disposizione d’animo e l’abitudine alla condivisione rendevano tutto facile, eppure non perdeva di sacralità il momento in cui i tuoi nuovi amici forestieri aprivano per te le porte dei loro domicili.

Che fossero monolocali da giovani professionisti, la cui pigione pesava poco sul bilancio di famiglie abbienti, o sospirati bugigattoli condivisi da dieci e più giovani – chi in pianta stabile e chi di passaggio – quasi nessuno poteva vantare un regolare contratto di affitto.

Nonostante questa pecca, foriera di malintesi, risoluzioni unilaterali e occultamenti di notevoli cifre al fisco, i ragazzi chiamavano quelle stanze “casa”, e tutti ci tenevano a farti sedere a tavola agli orari più improbabili per provare le specialità del territorio di provenienza: quando ancora non si parlava di Slow Food, i fuorisede, in particolar modo i meridionali, sono stati in prima persona alfieri del cibo lento, trasportando in città, dopo ogni vacanza a casa, chili di salumi, formaggi e delizie sottolio sui convogli a lunga percorrenza. Innocui corrieri della ’nduja e dei peperoni farciti, importatori senza scopo di lucro di specialità degli Abruzzi, della Capitanata e della Terra d’Otranto a nord dell’Appennino, si sono sottoposti a viaggi scomodi, ma è anche grazie a loro se abbiamo conosciuto la ricchezza di sapori regionali che rende unica l’Italia.

La cena dagli amici fuorisede, persa ogni ribalda connotazione della “spaghettata di mezzanotte” tra liceali, si trasformava così in occasione di confronto e socialità: il veneto, il marchigiano e il calabrese erano orgogliosi di farti assaggiare ciascuno il proprio sugo e il proprio vino, ed era un modo facile per parlare di terra, radici e usanze, ma anche di prospettive che si desideravano più ampie, spalancate, globali. Si rideva del piccolo mondo di provincia mentre ci nutrivamo, ammirati, del suo pane e del suo vino.

E, dopo cena, il piccolo brivido di avviare il modem, per spedire via posta elettronica messaggi in inglese a personalità eminenti d’Oltreoceano, si esprimeva con esclamazioni di meraviglia nei nostri accenti marcati, tutti diversi come tessere di un mosaico, e forgiati da padri che non si erano mai conosciuti.

«Maro’, mi ha risposto Steve Albini!», annunciò Tony di Isernia, entrando come una furia al Piccolo. Si baciava i pugni e mandava altri baci all’aria, euforico come un personaggio caffeinomane del primo Banfi. «Steve Albini!», ripeté a beneficio di tutti gli avventori. «Il produttore dei Nirvana!».

Metà dei ragazzi appostati nel bar aveva assunto sostanze che deprimevano il sistema nervoso centrale, e l’altra metà era composta da studenti del Dams troppo snob per mostrare stupore, per cui ci congratulammo solo io e Mario il Sardo.

«Che colpo gobbo!», ammise Mario. Veniva dai dintorni di Sassari, e riusciva a far suonare doppie persino le consonanti a inizio parola.

«E cosa dice il vecchio Steve?», domandai, aggiustandomi addosso l’impermeabile ch’era appartenuto a mio zio Arminio, e forse anche ad Athos. Nessuno dei due, in ogni caso, poteva immaginare la nuova vita del gabardèn, decontestualizzato e ricontestualizzato come s’insegnava a noi studenti di Scienze della Comunicazione. La resurrezione del cappotto aveva avuto inizio mediante l’applicazione di un certo numero di spille sul bavero: spiccavano, fra queste, la regina Elisabetta II con gli occhi cancellati dalla scritta “Sex Pistols”, e il modello sagomato a forma di pistola d’un’oscura etichetta giapponese. Fornito questo preliminare tocco pop, mi ero chiuso in garage con il mio nuovo capo d’abbigliamento preferito e una bomboletta spray di vernice nera. Vergare sul dorso la scritta “white riot” era stato un gioco da ragazzi; erano serviti tre giorni perché la vernice asciugasse, ma non avevo perso tempo, recandomi nel mentre a casa di John, un amico che gestiva un salone abusivo da parrucchiere alternativo. Lì avevo rinfrescato il mio taglio “tuttavanti”, che prevedeva la rasatura dell’intero cranio con l’eccezione della frangia, pensata per scendere sugli occhi nei momenti di riflessione, e per essere partita dietro le orecchie nel caso remoto che ci si cimentasse in una qualche attività fisica. Era un taglio di capelli osceno, ma all’epoca era l’ultimo grido fra noialtri anarco-bohémien di venti e ventun anni, e lo consideravo di gran lunga superiore tanto alla setola cinghialesca di Mario, quanto alla folta chioma riccioluta che Tony abbinava al giubbotto motociclistico in pelle nera. Adesso s’agitava, mobile sulle All Star di pezza, spiegando che Steve, in linea di massima, aveva dato la sua disponibilità per venire in Italia a produrre l’album d’esordio dei Nanga Parbat, la sua band molisana di rock destrutturato.

«Dopo Kurt Cobain, registra te!», esclamò, al colmo dell’ammirazione, Mario il Sardo. «Se la cosa va in porto, c’è di che andarne fieri per tutta la vita!».

Stavo per morire d’invidia in diretta, ma qualcosa dovevo pur dire anch’io. «Sei stato un genio, a scrivergli un’email», ammisi. «Ma secondo me ti chiede un sacco di soldi».

«Steve Albini?», domandò una voce tremolante che proveniva dalle mie spalle. «Quello vi spenna».

«Chi ha parlato?», indagò Tony, reso suscettibile dai troppi distinguo che accoglievano i suoi progetti di gloria.

«Piacere», gracchiò la voce di prima. Era una delle mummie intrespolate sugli sgabelli alti, che si stava riprendendo dal suo viaggio privato e voleva socializzare. «Io mi chiamo Nobody».

Non ritenemmo adatto presentarci, ma il tizio sbadigliò, si grattò la faccia incorniciata da una lurida barba e, controllata l’ora, scese con cautela dallo sgabello per muovere verso di noi.

«Il ritorno dei morti viventi», sibilò Tony.

L’uomo aveva un colorito che dava sui toni del grigio e la stessa postura che la favolistica attribuisce al gobbo di Notre Dame; più che camminare, pattinava con le Adidas sfondate sul pavimento del bar, e nulla faceva più pena dell’idea che, conciato a quel modo, anziché ricoverarsi in casa, avrebbe cominciato un viaggio al rallentatore alle ricerca della dose successiva.

L’infermo franò addosso a Mario, che si ritrasse d’istinto, ma quello riuscì a mantenersi in piedi puntellandosi al tavolo con la mano più gonfia e sporca che avessi mai visto da vicino. La materia radunata sotto le sue unghie sarebbe bastata a scatenare un’epidemia in qualche Paese lontano. «Sono Nobody», ripeté, indicandosi a fatica, gli occhi ridotti a due fessure. «Se trovi scritto su qualche muro “Nobody ti sta cercando”, quel Nobody sono io».

«D’accordo», ammise, condiscendente, Mario il Sardo. «Adesso vai, però».

«Steve Albini», ripeté l’infermo, e ci esortò: «Seguite il mio ragionamento».

«Sentiamo», lo invitò Tony.

«Quelli sono professionisti pieni d’impegni», biascicò Nobody. «Solo un illuso può pensare che vengono a lavorare qui per meno di quel che prenderebbero in America».

Enunciato questo concetto grondante di buon senso, sporse il mento in avanti e iniziò a oscillare il capo guardando il fondatore dei Nanga Parbat, come aspettasse una risposta da lui, ma quello non sapeva cosa dire, e lo allontanò con un gesto di stizza.

Il progetto di chiamare in Italia Steve Albini si rivelò costoso, come previsto dall’infermo Nobody, ma Tony non si arrese.

Il sogno di far produrre i Nanga Parbat dall’uomo che aveva registrato i Nirvana lo avrebbe spinto ad azioni sconsiderate, come la richiesta di patrocinio da parte della Regione Molise, e ad altre invece improntate a una mentalità più pratica: divise le spese in parti uguali fra i tre componenti della band e, poiché il bassista non era dell’avviso di svenarsi per Steve Albini, lo cacciò per sostituirlo con un bassista più facoltoso e disposto a metterci la sua parte. Chiarito che ognuno avrebbe dovuto trovare milleottocento dollari, al cambio due milioni ottocentosettantamila lire, il mio amico realizzò che avrebbe dovuto trovarsi in fretta un lavoro. Nonostante l’attività salariata andasse contro ogni principio degli anarco-bohémien dell’Alma Mater, quegli si rimboccò le maniche e andò a offrire i propri servigi per bar, ristoranti e persino librerie.

Non era facile trovare lavoro, all’epoca, se si portava un codice a barre tatuato sul polso. Quello di Tony, poi, era particolarmente malriuscito: poteva ricordare il disegno d’una saracinesca, o quello d’una gabbia, e finiva per somigliare a un souvenir delle patrie galere.

«Chissà cosa avevo per la testa, quando me lo sono fatto», si rammaricò una sera ch’ero ospite nel monolocale che divideva con Mario. Era ai fornelli per cucinare il piatto più tradizionale dell’appartamento, i bucatini alla Gaetano Bresci. Per un po’, sminuzzando i peperoncini che avrebbero accompagnato nel condimento la panna, il tacchino e l’ananas, si lasciò andare al mugugno contro la mentalità retriva dei compatrioti. «Popolo di sudditi! Ecco cosa siamo! Un servo ostello!», citava a piene mani dai ricordi liceali. Al momento di mescolare il sugo intitolato al regicida, però, un’illuminazione parve coglierlo. «Tatuaggi», sillabò. «Sono loro, a tenermi lontani dal lavoro dipendente, e saranno loro a rendermi autonomo».

«Cos’hai in mente, compare?», domandai, mentre la voce di Mario saliva dalla camera come un mantra. Doveva essere al telefono con i parenti, perché parlava in sardo fitto, e non si capiva un’acca.

«Diventerò tatuatore», sostenne Tony, scuotendo per la soddisfazione la chioma ricciuta. «Non ci vuole niente a imparare e io, modestia a parte, ho sempre avuto fantasia per il disegno».

Non avevo elementi per sottoscrivere la sua affermazione, né per confutarla, così mi limitai a una sorsata di birra Ichnusa, che Mario si procurava a cassette da un grossista d’origine isolana.

«Comincerò da voi», annunciò Tony, senza interpellare nessuno, poi riprese: «Poco alla volta, tatuerò tutto il corso di laurea. Con i soldi farò venire in Italia Steve Albini. E, quando mi sarò guadagnato la mia parte di fama coi Nanga Parbat, aprirò uno studio tutto mio».

Notai che, preso dall’entusiasmo, aveva deciso di arricchire il sugo alla Bresci con uvette e pasta d’acciughe. Lo fermai solo quando vidi che controllava lo stato di decomposizione d’un würstel, annegato da solo in un vasetto dall’aria malsana.

«Scherzi a parte, cumpà», mi fece, «tu non ci andresti a tatuarti da uno che ha fatto un disco con Steve Albini?».

Era una domanda che meritava un attimo di riflessione, ma già Tony incalzava con un secondo interrogativo. «Dici che Mario s’incazza», chiese indicando il sugo, «se ci frullo dentro le sue pabassinas?»

«Mangiamole dopo, quelle», lo invitai alla ragionevolezza. «È già un condimento ricco e non vorrei che i sapori cominciassero a confondersi».

«A proposito», fece Tony, e si mise in ascolto con aria incuriosita. «Sta dicendo la novena al telefono, Nuragheman?».

«È in contatto con l’Isola, non c’è dubbio», diagnosticai. «Quando parla con gli amici sul Continente, una parola d’italiano ogni tanto gli scappa».

Tacemmo mezzo minuto, ma tutto quello che intendemmo nel suo parlare furono i termini “dottore”, “semiotica” e “zio Gavino”.

«Insomma», riprese Tony, «ci andresti o no, da un tatuatore che è anche un musicista di un certo livello?».

«Perché no», gli concessi una possibilità. «Ma io, se impari davvero, ci vengo anche prima che tu diventi famoso».

Mi guardò come l’ultimo vero amico che avrebbe conosciuto prima d’intraprendere la sua rutilante esistenza rock ’n’ roll, sempre in movimento fra convention e clienti illustri. «Sei caro», disse, trasformandosi all’improvviso in una vecchietta sentimentale e, per un attimo, ebbi paura che volesse baciarmi. Era solo commosso, invece, e volle ripetere a mezza voce: «Tatuaggi».

«Sì!», lo incoraggiai, sollevato. «Ciò che ferisce, cura!».

«Era così semplice, cumpà. Come ho fatto a non pensarci prima?».

Quando Mario entrò in cucina, aveva la faccia di un uomo al quale abbiano appena rapito la famiglia, bruciato la casa e rubato il bancomat.

«Che succede?», domandai, offrendogli una bottiglia d’Ichnusa. «È morto il gatto?».

«No, zio Gavino», sillabò.

«Oh, mi spiace», battei in ritirata.

«Ci eri molto legato?», domandò Tony.

Mario si lasciò cadere seduto, bevve dalla sua bottiglia e, quando riaprì bocca, disse in tono affranto: «Adesso cambia tutto». Diede un profondo sospiro, le mani sulla faccia, e, mascherato a quel modo, spiegò: «Mi ha lasciato cento milioni. Ma li posso riscuotere solo se mi laureo in pari con gli esami, altrimenti va tutto ai preti».

«Maledetto sadico», osservò Tony. «A questo modo ti ruba gli anni più belli».

«Ha sempre preferito mio cugino Francesco», gemette Mario. «Lui studia a Sassari e gli mancano solo tre esami».

Dal mio punto di vista, cento milioni rappresentavano la completa autonomia; per Tony qualcosa come trentatré dischi prodotti da Steve Albini, e nessuno dei due era troppo incline a compatire l’ereditiero.

«Che sarà mai, laurearsi, se hai la certezza che nel giro di quattro anni sarai ricco!», osservai. Il cantante dei Nanga Parbat mi diede ragione, e Mario continuò a dolersi inascoltato.

«Eravamo gli unici nipoti, ma a vedere il Cagliari in ritiro ci portava solo lui», borbottava, ancora sotto choc. «Solo a lui ha fatto conoscere Piras e Matteoli, e anche da morto fa due pesi e due misure».

«Non ha ancora capito», fece Tony, brancando a due mani la pentola della pasta. «Ha risolto stasera tutti i suoi problemi, e si lamenta».

Si profilava una serata speciale: chissà che non fossero in agguato novità anche per me.

«Vengono, dopo, le ragazze?», mi informai.

«Meglio», fece lui, avvolto da una nube di vapore come l’oracolo del tempio. «Portano anche due francesine».

«Erasmus?», indagai.

«Belle fiche. Una delle due fa la modella di snowboard».

«Ah sì?».

«Posa per diverse riviste del settore, a quanto ho capito», spiegò Tony. «Anch’io, se fossi una bella ragazza, poserei per chiunque me lo chiede. Cento carte alla volta, mi passerebbe la timidezza in fretta».

Provai a figurarmi che aspetto potesse avere una modella francese di abbigliamento da neve e conclusi che valeva la pena di scoprirlo dal vivo: in fondo bastava restare seduti, rifocillarsi con i bucatini alla Bresci e aspettare che le ragazze si presentassero. «Sentito, Mario?», tentai di ridestare il Sardo. «Le ragazze vengono insieme a qualche damigella d’importazione».

Sembrava sordo a qualsiasi tentativo di riportarlo fra noi. «A lui mancano tre esami, e io ne ho dati quattro in tutto», si lamentava. «Così è un’umiliazione. Uno sparare sulla Croce Rossa».

«Ti mancano venti esami, ma hai quattro anni di tempo», osservò Tony, rovesciando la pasta nella padella del sugo. «Conta che ti pagano venticinque milioni all’anno per laurearti, e smetti di rompere i coglioni».

«Adesso è ufficiale, che lo zio preferiva Francesco», replicò il Sardo, incapace di darsi pace.

I bucatini alla Gaetano Bresci vennero serviti nei nostri piatti di plastica: il sugo che li teneva insieme profumava in maniera discutibile, ma non c’era dubbio che ci avrebbero sfamato.

«Su, mangia», Tony incoraggiò il compagno d’appartamento. «Mangia, ché ti calmi, e dopo sembra meno brutta».

Mario il Sardo lo fissò come non lo riconoscesse, poi sollevò le sopracciglia e disse: «Mi spiace di avervi tediato, ragazzi. Buon appetito».

Sarebbe stata l’ultima volta che Tony e io l’avremmo visto nutrirsi in maniera regolare.

Quella sera, con le ragazze e le loro notevolissime amiche francesi, fu poco socievole, e l’indomani annunciò con aria grave di avere preso una decisione: voleva provare a recuperare il tempo perduto, mettersi in pari con gli esami e laurearsi in tempo utile per riscuotere l’eredità.

«Costi quel che costi», specificò, gli occhi da indemoniato, e sulle prime non valutai cosa comportasse quell’espressione pronunciata da un sardo.

In pochi giorni si procurò con tetragona determinazione gli appunti che gli erano sfuggiti nei dodici mesi precedenti; fissò colloqui con professori ordinari e associati, ricercatori e assistenti; imbastì tesine e organizzò gruppi di studio.

Mario il Sardo non veniva più al Piccolo, così non poté rendersi conto di quanto andava lievitando, in società, il prestigio del suo compagno d’appartamento. I damsiani snob amavano i tribali polinesiani, le scritte sulle nocche e il pupazzetto arcano degli Einstürzende Neubauten; i buoni prezzi applicati da Tony ne avevano convinti parecchi a servirsi da lui, sin dai primi giorni in cui era stato in possesso d’una pistola ad aghi e dei primi flaconi d’inchiostro nero, il tutto ordinato via internet da Detroit, Michigan.

La loro convivenza prese una strana piega: Mario se ne stava chiuso in camera a studiare, mentre Tony tatuava in cucina. I soggetti più strampalati si trattennero nell’appartamento per un tempo bastante a farsi disegnare addosso cani bulldog, velieri e mietitrici incappucciate, ma solo pochi fra loro ebbero l’opportunità d’incrociare il misterioso occupante della camera da letto.

«Sono preoccupato che stia andando fuori di testa», mi confidò un giorno Tony. «Rifiuta il cibo, ora».

«L’eredità l’ha sballato», concessi.

«Ieri sera ho preparato una Bresci da capogiro, e non l’ha neanche toccata», spiegò il mio amico. Sembrava seriamente preoccupato. «Dice che ha deciso di cambiare dieta, altrimenti i grassi animali gli impediscono di concentrarsi».

«Un altro vegetariano?», sospirai.

«Peggio».

«Vegano estremista?».

Tony si torceva le mani in preda all’ansia. «Ha detto che fino alla laurea, costi quel che costi, ingerirà solo agrumi, aspirina e caffè. E lo sai come fa, quando decide una cosa».

«Non può reggere», assicurai.

«Ha cenato con due limoni tagliati a fettine, e stamattina ha fatto colazione a mandarini e aspirina effervescente», assicurò. «Visto con i miei occhi».

Avevo deciso che, di lì a pochi giorni, sarei andato a tatuarmi per la prima volta, così assicurai che ci avrei parlato io, con il nostro amico uscito di senno.

Non servì a niente, invitarlo alla ragionevolezza mentre gli aghi mi mordevano la carne centinaia di volte al minuto: la scritta “Independent” si andava componendo sul mio braccio a caratteri indelebili, e Mario continuava a sproloquiare di come gli agrumi abbiano la proprietà di attivare i neuroni delle nostre cellule cerebrali.

Diventò una persona alienata e noiosa e, alla fine dell’anno, Tony si trasferì a vivere con una ragazza di Bergamo specializzata nell’inserire orecchini dilatatori. Parlavano di aprire uno studio insieme, ma nel giro di poco sparirono dalla circolazione. I soldi che Tony aveva messo da parte per il disco li spese insieme a lei, suppongo, perché quello che fa il vecchio Steve è tenuto d’occhio da troppa gente, e nessuno ha mai letto in giro che abbia lavorato con i Nanga Parbat di Isernia.

Mario, invece, si laureò fra i primi del corso, ma dicono che l’impresa gli sia costata tutti i capelli e l’equilibrio nervoso.

Da quando è tornato in Sardegna a riscuotere l’eredità, nessuno ha più saputo niente di lui. Spero che il lascito di zio Gavino gli sia bastato a godersi un po’ la vita, e che non soffra troppo i postumi della sua particolare, acidissima, “dieta del laureando”.

Quanto a me, un tatuaggio mi ricorderà per sempre la stagione nella quale era facile condividere il destino dei tuoi pari; ho smesso da molti anni di pensare a me stesso come a un anarco-bohémien, ma ancora oggi che quattro ragazzine mi chiamano “babbo”, capita di ritrovarsi soli con i propri ricordi: allora, per non lasciare spazio alla nostalgia, metto su i Pistols, migro asimmetrico verso i fornelli, e preparo una Gaetano Bresci da urlo.