La vita da single
Potevo avere tredici anni. Mio padre, di conseguenza, quarantatré.
Mamma era fuori città per qualche giorno insieme al cadetto, e noi ci due ci trovammo a casa da soli, liberi di fare quella che babbo chiamava “la vita da single”. Rispetto all’esistenza ordinaria, il programma prevedeva variazioni interessanti: non sembrava obbligatorio consumare verdure cotte e ci si potevano concedere porzioni più abbondanti di quelle servite da mamma. Senza contare che eravamo liberi di aggirarci per la casa in mutande, come pescatori di corallo, senza che nessuno s’offendesse; inoltre si poteva ascoltare a tutto volume Uno dei Mods di Ricky Shayne, e il bagno era quasi sempre libero. A questo si aggiunga che l’orario della buonanotte era stato posticipato al fischio finale delle partite di Coppa in tivù, e non si stenterà a capire come mai, per parecchi anni, la vita da single mi sarebbe apparsa l’esistenza ideale.
In quelle stesse sere, la visione di Vado a vivere da solo con Jerry Calà avrebbe corroborato la mia convinzione, solidificandola in fede cieca: anch’io dovevo vivere senza una moglie dentro un appartamento spazioso come un hangar, privo di stupide pareti che lo suddividessero in stanze. Un loft, così si chiamava. Una volta arredato con un congruo numero di flipper, il biliardo, il calcio balilla e i cabinati di PacMan, ci avrei invitato l’intera squadriglia Coguari. Mio cugino Luigi, invece, solo se diventava meno stronzo.
«Dopo dieci anni ho rivisto l’amìììco Bob», si sgolava mio padre, suonando una chitarra immaginaria di fronte al tavolo da lavoro, carico di documenti e libri squadernati. «Con una giacca di cuoio con scritto sùùù... “Giorno per giorno io vivo, io sono Mod”, era firmato da Bob, uno dei Mods!».
«Uno dei Mòòòds!», mi unii al suo coro, saltellando in preda all’esaltazione, e nessuno protestò che sembravamo pazzi.
«A Liverpool c’eran milley dei Mods», riprendeva quota la voce di babbo, simulando un potente accento british. «Il loro cap-po era l’amico Bob. Erano milley ma i Rockers di più. Erano forti, piufforti dei Mods!».
Nella seconda parte il pezzo si faceva più ritmato, e gli strumenti registrati sul 45 giri erano accompagnati da rumori di rissa in sottofondo: grida concitate, bottiglie rotte, sedie che andavano in frantumi. Le parole le conoscevo anch’io – altamente drammatiche – e potevo cantarle insieme a babbo e Ricky Shayne: «Pugni e catenne eran contro di noi! Vidi qualcun-no cadere da eroy! Wo-mini veri lontanni da mè! Venni colpit-to alla testa, Di-oh!».
La forza primordiale del beat si era impadronita di noi: danzavamo come non avevamo mai fatto, sordi alla curiosità dei vicini che andavano affacciandosi alle terrazze, per spiarci dalla finestra del salotto. Personalmente, non mi disturbavano: aspettavo solo che babbo lanciasse in cortile la prima sedia, per fracassare altra mobilia e abbattere insieme i muri.
Invece, non appena la puntina ebbe finito di percorrere il solco, disse: «Ti va di preparare un piatto indiano, stasera?».
«Indiano pellerossa?», domandai speranzoso.
«Indiano indù», rispose. «Ma forse anche pakistano. Riso col pollo al curry. Una ricetta che unisce i popoli e non impegna troppo nel lavaggio dei piatti».
L’ultima volta che l’aveva detto, avevamo preparato le frittelle alla Samarcanda con mela cotogna, miele e cannella, ed eravamo riusciti a sporcare persino i ripiani interni del frigo. «Lavi tu?», indagai.
«D’accordo», mi sorprese. «Io lavo, e tu cucini».
Il toc toc del disco che girava a vuoto m’indusse a ricavare un momento di pausa: tempo di risistemare il braccio sul suo supporto, e avrei dovuto comunicare la mia decisione.
«Ti va se metto su i Beatles?», presi tempo.
«Non le Golden Hits, però. Metti il White Album», dispose babbo. Non avevo fatto in tempo a sfilarlo dalla scansia dei dischi, che aggiunse incalzante: «Allora, cucini o devo uscire a prendere due pizze?».
La pizza a casa, novità delle ultimissime stagioni, non mi faceva sfrizzolare il velopendulo. Per quanto potesse essere buona, e arrivare ancora calda, mancava sempre la pizzeria intorno, col suo portato di vita vera, famiglie di ciccioni e famiglie di smilzi, coppie litigiose e altre amorevoli, rappresentanti di commercio ciarlieri e donne sole. «Mi spieghi tu cosa fare, però».
Avevo accettato. Adesso avrei dovuto preparare la cena.
«Bene bene», considerò mio padre. «È ancora lontano il giorno in cui lavorerai per me, ma intanto potrò dire che una cena me l’hai preparata». Diede un sospiro, poi aggrottò le sopracciglia ed entrò in modalità operativa. «Cominciamo da un bel battuto di sedano, carote e cipolle, che non si sbaglia mai. Poi tagli il pollo a tocchetti e lo metti a rosolare. Quindi aggiungi le spezie e un mezzo litro di latte, e lo fai andare a fuoco lento sbriciolando pinoli».
«Stai inventando?».
«Pura ricetta indù-pakistana», garantì. «Loro usano il latte di mucca indiana. Sacro. Ma andrà bene anche il Granarolo».
«Mi metterò un turbante, allora», sospirai, mentre salivano dalle casse dello stereo le prime, supersoniche, note di Back in the U.S.S.R.
«Ma dimmi una cosa», fece, scortandomi in cucina. «Ti va se invitiamo zio Nestore?».
«Le donne sono sempre convinte che da soli saremmo spacciati», osservò babbo facendo saltare il tappo alla seconda birra. «Invece guarda qui. Si sta da papi».
«A me lo dici?», fece Nestore, agitando nella destra la sua bottiglia ormai vuota per metà. Per lui doveva essere la quarta, e non era arrivato che da un’ora. «Con rispetto parlando, prima di mettermi in casa una donna, aspetto di avere sessant’anni», ci informò. «Lei, invece, a quest’ora va ancora all’asilo».
Sedevo con loro, fiero che lo zio mi avesse visto mentre cucinavo con il grembiule e il turbante in testa: mi ero limitato a seguire passo passo le disposizioni di babbo, facendomi aiutare nei passaggi-chiave, ma nessuno avrebbe potuto negare che la cena era, sostanzialmente, opera mia. Zio Nestore aveva dovuto ammettere che gli indù mangiano meglio di quel che non pensasse, e col giro dei bis la pentola era stata ripulita. Adesso, non mi restava che godere del fresco della serata e della compagnia degli adulti, centellinando il mezzo bicchiere di birra che costituiva il mio premio.
«A parte le sboronate, Nestore», premise mio padre, seduto a capotavola, «hai una compagna, in questo periodo?».
Il tono accorato di babbo invitava alla sincerità, e zio, che occupava il posto di fronte di me, assunse un’aria contrita. Persino le estremità dei suoi baffi sembrarono ammosciarsi, depresse da quell’interrogativo. Poi a zio Nestore spuntò in volto un mezzo sorriso, mi strizzò l’occhio e disse: «Quando andrai all’università, mi presenterai tu una brava ragazza, d’accordo?».
«Lui non farà l’università», annunciò babbo a sorpresa, e mandò giù un altro sorso.
Ero in attesa che comunicasse quale sarebbe stato il mio destino, ma la faceva lunga e zio ebbe agio di esclamare: «Non vorrai che si faccia prete, spero!».
«Carriera militare», annunciò babbo. Non era la prima volta che ne sentivo parlare, ma quella sera sembrava più convinto che mai. «Negli Ussari della Morte. Anzi, nei Lancieri di Montebello, che suona meglio».
«Più fichi gli Ussari», commentai. «Ma mica esistono più. Io voglio andare nella Legione Straniera».
«Senti senti», mormorò zio Nestore. «E hai già scelto il tuo nome da legionario?».
«Mica puoi andarci con il tuo vero nome», approvò babbo. «Se si viene a sapere che sei mio figlio, sul lavoro mi mettono ai margini. Mica piacerebbe a tutti, il fatto che ho un figlio legionario».
«Idee sul nome?», domandai a zio.
Stavolta il più veloce fu babbo. «Jacques Le Goff?», propose.
«Che ne dici di Russ Mayer?», fece Nestore.
Ci pensai su mentre si accendeva una Camel. Per non scontentare nessuno dei due – in fondo suonavano entrambi nomi credibili – valutai brevemente di presentarmi al centro d’arruolamento come Russ Le Goff. Non appena provai a figurarmi la scena, però, mi accorsi che sembrava un nome da finocchio. «Jacques Mayer», annunciai allora. «Detto Jack. Anzi, Jack Mayer».
Quello sì che era un nome da legionario.
Zio Nestore bestemmiò in tono così tenero che babbo non se ne ebbe neppure a male. «Che c’è?», domandò solo.
«Tuo figlio», disse, e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. «Mi sembra ieri che si cagava addosso…».
«Oh, lo fa ancora», stemperò la tensione mio padre.
«Babbo!», protestai.
«Cosa fai, Nestore? Piangi?».
«Oh, mi viene da zigare!», protestò, asciugandosi il naso col dorso della mano. «Per via del tempo che passa. È una puttana balorda, no?».
Mio padre mi guardò turbato. Se zio non si calmava, presto sarei stato spedito in camera mia.
«No, dico», assunse un tono più rilassato. «Guardalo! È qui con noi che beve la birra!».
Per un attimo, mi sentii prezioso come quei ragazzini che, secondo i tibetani, sarebbero la reincarnazione del Budda. A differenza di quanto avrebbero fatto loro, però, diedi una sorsata alla birra per dominare l’emozione.
«Prima non si poteva. Ma non sai quante cose ho da insegnarti», svelò, compiaciuto, zio Nestore.
Sorrisi. Ero ansioso di cominciare le lezioni.
«Dovremmo farle più spesso, queste serate fra uomini», considerò babbo, valutando la pila di stoviglie da lavare.
«Già», approvai. «Magari anche fuori».
Babbo sollevò le sopracciglia. In qualche modo l’avevo irritato. Nestore, invece, allungò un buffetto a suo fratello, soffiò via il fumo e aggiunse: «Fa mica male, ogni tanto, uscire a controllare se c’è ancora della patata in giro».
Mio padre scosse la testa e zio insistette: «Tuo padre ne vede già per lavoro, di pollastre ventenni. Ecco perché fa tanto il santerellino quand’è a casa».
«Nestore!».
«Scherzavo, Madonna buona! Sei permaloso come da piccolo!».
«Tu invece eri più simpatico», ribatté, acido, il padre del legionario Jack Mayer.
Grazie alla mia capacità di indossare un turbante e cucinare piatti speziati, mi avrebbero certamente destinato a una missione nel subcontinente indiano.
«Ti va un nocino?», riprese quota la voce di babbo.
«Massì, che si vive una volta sola», rispose Nestore, nell’atto di spegnere la sigaretta nel posacenere in cristallo a forma di ananas, un regalo di nozze ricevuto tre lustri addietro dai miei, come d’altronde buona parte dell’arredamento che ci circondava. «La prossima volta, però, facciamo come dice il giovane», riprese. «Conosco un posticino dove andiamo a mangiar bene e spendere pochissimo».
«Se è un consiglio di Nestore, stiamo freschi», commentò babbo cercando la mia approvazione.
«Lo sanno tutti che il Lurido è un posto imperdibile!», insistette lo zio.
«Fa proprio venire voglia, con un nome così», lo stuzzicò il fratello.
«Sai cosa ti dico?», replicò Nestore. «Se tu non vuoi venire, ci porto il giovane».
«Posso andarci?», domandai raggiante a mio padre.
Se l’avessi colpito con un manrovescio a tradimento, avrebbe reagito con meno stupore. «Be’», incassò il colpo. «Mi stai chiedendo, praticamente, se ho qualcosa in contrario a che mio figlio esca a cena insieme a mio fratello?». L’aveva presa larga, ma stava arrivando al punto. «Dal Lurido», soggiunse, poi finì la sua birra e diede una scrollata di spalle. «E perché no?», disse poi. Si massaggiò il naso come gli prudesse, e considerò asciutto: «Siete zio e nipote, voialtri».