C’era una volta una Repubblica
C’era una volta una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e in quella Repubblica si trovava una città – né la più grande, né la più piccola – famosa per la sua università, la buona cucina e la saggia gestione della cosa pubblica.
La città aveva nome Bologna e contava mezzo milione di anime, fra lavoratori di provata fede democratica e loro familiari; il suo santo protettore era Petronio, il partito-guida il PCI e il sindaco si chiamava Zangheri.
Ovunque si citasse la nostra città, fioriva un sorriso al ricordo di soggiorni piacevoli, grandi mangiate o, semplicemente, della dolce giovinezza. Anche gli uomini che avevano fatto la naja a Bologna ne parlavano sempre con piacere, lasciando intendere che si erano assaporati fino in fondo i vent’anni. Lo sapevano persino gli americani, che a Bologna si viveva bene, e per questo i ricconi della costa Est continuavano a spedire i loro rampolli alle filiali cittadine della Brown e della Johns Hopkins; a completare il variopinto quadro del passeggio in piazza Verdi, cuore della zona universitaria, non mancavano spagnoli, tedeschi, greci, magrebini, ebrei d’Israele ed esuli delle dittature sudamericane, cugini meno celebri degli Inti Illimani.
Il costante afflusso di studenti e studentesse rendeva vivace via Zamboni e il reticolo di strade medievali compreso fra le Due Torri, porta San Vitale e porta Mascarella; nel ’77 anche troppo vivace, almeno per gli standard di una famiglia con un bimbo. Non risulta comodo, infatti, organizzare passeggiate fra cortei di autonomi e falangi di celerini nervosi.
In compenso, da quelle parti, le scritte murali offrivano facile terreno d’esercizio per aspiranti lettori. Le vele dei portici e i muri in mattone del XIII secolo facevano da sfondo a pittogrammi dal sapore preistorico: disegni del fulmine attraverso un cerchio e altri ancora, con una rudimentale lettera “A” che debordava da una circonferenza, erano infatti accompagnati da messaggi in stampato maiuscolo. “Pagherete caro, pagherete tutto” fu uno dei primi che gli adulti mi aiutarono a compitare. Per lungo tempo attribuii la scritta ai negozianti della via, che con quelle parole si rivolgevano ai manifestanti, minacciando querele per le vetrine in frantumi, o fors’anche vendette più spicce, a base di sberle e sculacciate.
Appurato che nessuna manifestazione avrebbe turbato l’ordine pubblico, ci si poteva dirigere, per mano a nonna Adele, verso il portico che costeggiava la strada maestra: dicevano che fosse il più lungo del mondo e, in effetti, a forza di soste dal lattaio e al forno Neri, percorrerlo sino in fondo si rivelava un’esperienza tutt’altro che breve. Giunti all’arco Bonaccorsi il riparo del portico terminava, e con lui anche la mia idea di quartiere: adesso toccava traversare il circuito dei viali senza più un riparo sulla testa, facendo attenzione che nessun pirata della strada minacciasse il passaggio pedonale. Si giungeva, all’altro capo dell’attraversamento, al cospetto del cassero di porta Saragozza, vegliato da due leoni gemelli in pietra: l’edificio, sacro dai tempi antichi alla Madonna di San Luca, era divenuto, per sacrilega scelta della Giunta, sede degli attivisti omosessuali («Mai entrare lì dentro», nonna m’indicava il portoncino del locale. «Neanche se ti offrono delle caramelle», ma sarei cresciuto nel quartiere senza che me ne offrissero mai).
Si riprendeva a camminare al coperto lungo il tratto di via Saragozza compreso all’interno delle vecchie mura, per una sparata che ti conduceva a traversare via Santa Caterina, via Nosadella, via Senzanome e via del Fossato; all’altezza della scuola per ragionieri il portico s’interrompeva nuovamente, e allora appariva a chiudere l’orizzonte l’alta cinta in mattoni del Collegio di Spagna, dove nobili giovanotti iberici trascorrevano il loro periodo di studio all’Alma Mater. Se ne costeggiava il muro secolare invaso d’edera sino alla chiesa di San Paolo, e a quel punto si era sbucati, al di là di ogni dubbio, in centro: il passeggio elegante di via d’Azeglio, la poderosa basilica di San Petronio e piazza Maggiore erano a un tiro di voce, e già sapevo che avrei trovato sul “crescentone” i venditori di palloncini a forma di coniglio e i crocchi di umarèll, sfaccendati di mezz’età, intenti a berciare in dialetto di politica, dell’ultima partita del Bologna o di un qualsiasi evento che riempisse la loro giornata.
Erano lavoratori democratici in pensione, uno status che pareva raggiungibile solo dagli uomini: le donne, anche se vedove e anziane, continuavano a spignattare, pulire la casa e frequentare il mercato coperto, proprio come facevamo noi. Nonna era stata una ragazza molto bella ed era ancora relativamente giovane, almeno quanto bastava perché un macellaio galante potesse domandarle se per caso era mia madre. Fra i banchi del mercato si incrociavano certe cariatidi storte e rugose, con certi peli in faccia da farti accapponare la pelle: guai a sbagliare nonna nella calca e ritrovarsi per mano a loro!
Che la donna fosse condannata a “brigare” per sempre, sembrava nell’ordine delle cose. Non venivano forse allenate le cugine, dopo pranzo, a spazzare mentre io me ne stavo in panciolle? Un giovane maschio, però, poteva sempre dare una mano.
Ero inoltre orgoglioso di uscire con qualche trofeo dalla bolgia di banchi carichi d’ogni ben di Dio, urti accidentali e frenetici scambi in dialetto: talvolta mi pesava nella destra un sacchetto da un paio d’etti, che racchiudeva il prosciutto o la bistecca di cavallo, prescritta da tutti i pediatri del circondario almeno una volta alla settimana; altre volte mi ritrovavo a brandire uno smisurato grissino o un boccone di crescente al prosciutto, omaggi di qualche commerciante gentile. Mi sembrava di fare la mia parte e, sgranocchiando e compitando scritte a spray, si ripercorreva la strada a ritroso, verso i confini rassicuranti del quartiere.
La casa di nonna era alta di soffitto, umbratile e poco più piccola del labirinto di Creta, ma nessun Minotauro ne infestava le stanze. Dove erano cresciuti mamma e i suoi cinque fratelli – Arminio, Athos, Alba, Alice e Andrea – ora viveva in pianta stabile solo la matriarca, vedova di nonno Umberto e chioccia d’una piccola tribù di nipoti.
Per mia fortuna, a differenza di tanti coetanei, nonna era perfettamente bilingue. Come certe anziane squaw che hanno avuto contatti con l’uomo bianco, parlava speditamente tanto il dialetto ancestrale quanto la lingua italiana e impiegava l’uno o l’altro idioma a seconda delle circostanze: discorreva in bolognese con la vicina del piano di sotto, per esempio, e al telefono con suo fratello, quando lo zio la chiamava per farle gli auguri di buon onomastico il giorno di San Giuseppe. L’italiano, invece, era riservato alle comunicazioni con i più giovani e i rappresentanti d’una qualsivoglia autorità, foss’anche l’azienda del gas.
Alcune aree della casa erano più adatte al vernacolo dei padri – indicatissimo per le vergognose attività che si svolgevano in gabinetto – altre invece all’italiano, mentre lo strategico crocevia della cucina, dominio favorito di nonna, poteva dirsi perfettamente bilingue: si parlava in dialetto quando venivano in visita zia Egle o tornava, carico di regali, don Ermanno, un cugino prete finito chissà come a fare il missionario nella già civile Pennsylvania. Allora era tutt’un fiorire di «Cum stèt?», «Csa vùt c’t al degga!», «Vìn ban què, cinno!» e sospirosi «Oddìo me mama», una frase da pronunziare con l’aria di chi si raccomanda al Cielo per le debolezze dei mortali.
«Oddìo me mama» era una sorta di ritornello, in bocca a nonna: andava bene per commentare l’annuncio della dipartita d’un vecchio fattore conosciuto mezzo secolo prima, così come per accogliere la notizia che all’asilo ci avevano servito l’odiata zuppa di verdura.
«Oddìo me mama» si prestava a ogni timbro situazionale: gridato, poteva servire ad allontanare il nipotino dalle prese della corrente con le quali si era messo a giocare; più in generale, quelle parole accompagnavano il sorgere d’una meraviglia inattesa, gradita come un regalo o, al contrario, minacciosa al massimo grado. Non dubitavo che nonna, se avesse visto spuntare in cucina un branco di lupi, avrebbe esclamato esattamente quelle sillabe.
Non erano, comunque, le uniche invocazioni in dialetto che mi sentissi rivolgere dalla matriarca: «Fèr brisa l’èsen» era un fermo invito a comportarmi bene, a differenza dell’asino, ritenuto il più testardo degli animali. Esso tornava a venire evocato in tono più grave se non la smettevo di fare il birichino: «Alaura? Et finè, sumarnàz?».
A quel punto era meglio rientrare nei ranghi, altrimenti al birichèin sarebbe arrivato un sonoro smataflone.
Il dialetto, però, serviva anche per le manifestazioni d’affetto più sentite, per esprimere sconfinata ammirazione («S’l’era brèv a zughèr, Bulgarelli!») e, insieme all’italiano standard e al latino, componeva la triade delle lingue sacre. Era infatti possibile, e tutt’altro che infrequente per nonna, pregare in dialetto come aveva imparato a fare da piccola.
Il sabato sera dormivo da lei, e non avrei trovato l’aramaico più indicato per la preghiera della buonanotte, né la lingua d’Oc più dolce alle mie orecchie: «A lèt, a lèt, a voj andèr. Tot i sant a voj ciamèr. Trì da co, e trì da pi, tot i sant i en mi fradì». Era una cantilena potente, che ti dava agio d’immaginare una mezza dozzina di santi del paradiso scendere in terra per piazzarsi intorno al tuo lettino, tre dalla parte della testa e tre dai piedi. Ma i miracoli erano appena cominciati. «Al Sgnaur l’è al mi ban peder, la Madona bona meder, San Zvàn al mi ban paraint». Anche loro, rimasti lassù fra le nubi d’oro, mi guardavano con amore. Adesso ero davvero pronto per chiudere gli occhi. «A spèr d’andèr a lèt sicuramaint. Sicuramaint a j andarò». Versi ridondanti: ero già fra le coltri, tutelato da una presenza amorevole, e attendevo solo il gran finale, la garanzia d’un sonno tranquillo: «Gnent ed brott a m’sugnarò».
Adesso bastavano una carezza di nonna sui capelli e un ultimo bacio sulla fronte, quindi si poteva spegnere la luce senza timori.
Al ritorno dalla spesa, non ci si sentiva a casa finché non si era arrivati in cucina: allora nonna divideva le provviste necessarie per il pranzo da quelle destinate allo stivaggio e, considerando allarmata che erano già le undici passate, si affrettava ad accendere i fornelli. Qualcosa di gustoso e abbondante sarebbe nato dalle sue mani nel giro di un’ora scarsa, e io potevo prendermi l’agio di esplorare le stanze del grande appartamento a labirinto, nel quale mia madre era cresciuta insieme a cinque fratelli: sembravano pochi solo a babbo che, per conto suo, ne aveva uno in più.
Ero affascinato in modo particolare dalle librerie dei miei zii, che affiancavano inaccessibili testi di patologia medica a murate di “Linus”, “Corto Maltese” e riviste di fotografie piene di donne nude. A quell’età, però, mi affascinava di più l’Atlante del Mondo, con le sue mappe variopinte e la garanzia di completezza delle sue informazioni: la città che avevamo appena traversato a piedi vi appariva non più vistosa d’una macchiolina nell’estensione del territorio regionale e, mentre saliva nell’aria odore di sugo, potevo bearmi a studiare città e contrade che un giorno, si poteva starne certi, avrei visitato nei panni di uomo adulto, libero di andare e venire a piacimento.
Le terre che circondavano la città si dividevano agevolmente in Emilia e Romagna: la Terra della Piada, fantasmagorica e ribalda, si stendeva fuori porta Maggiore nella direzione dell’alba, e conosceva il suo argine solo sulle spiagge della Riviera Adriatica, mentre l’Emilia era la concretissima Terra del Pane, sulla quale il sole andava a tramontare, oltre porta San Felice, in direzione di Modena, Reggio e Parma, dove le crescentine erano chiamate “gnocco fritto”, e si beveva il vino nelle tazze. Quanto agli abitanti del capoluogo, consideravano se stessi i più meridionali fra gli emiliani, ed erano anzi pignoli nell’informare i forestieri che “la Romagna comincia più giù, a Imola”.
Nonostante le differenze dialettali e nella panificazione, ci si percepiva come una regione fortunata: grano, frutta e ortaggi abbondavano dal Piacentino alle immediate vicinanze del litorale, ma quella cornucopia sarebbe apparsa poca cosa senza la rassicurante presenza di sua maestà il Maiale.
Gli allevamenti di suini e l’antica sapienza norcina garantivano per tutto l’arco dell’anno prosciutto di coscia, culatello, gambuccio, mortadella, salami d’ogni forma, coppa d’estate e coppa invernale, pancetta, salsiccia e ciccioli oltre, naturalmente, a una quantità di lardo bastevole per impastare sino alla fine dei tempi gnocchi fritti, tigelle, crescenti e focacce che, preparati in casa o comprati al forno di fiducia, costituivano la base delle merende giovanili.
Bastava voltare pagina dell’atlante, però, per rendersi conto che l’Italia era molto più grande di così, e abitata dalle genti più diverse.
Su ognuna di quelle comunità, benché non ne conoscessi alcun esponente, mi ero fatto un’idea.
A Meridione, oltre le rampe d’Appennino sulle quali erano vissuti i miei avi mangiatori di castagne, viveva il popolo dei toscani: li si riteneva supponenti e cucinavano zuppe spaventose, ma erano anche loro compagni del PCI, quindi bisognava andarci d’accordo. A Nord, invece, oltre la Bassa e il letto del Po, erano stanziate le moltitudini dei lombardi: avevano un dialetto cugino dell’emiliano, ma i provinciali erano mangiatori di verze e formaggi puzzolenti, mentre i milanesi di città si diceva che non mangiassero punto, nutrendosi solo di aperitivi moderatamente alcolici; come i loro vicini piemontesi, poi, sembrava che i lombardi preferissero il riso e la polenta alla pasta all’uovo, biondo fondamento della civiltà emiliana. Quanto agli abitanti del Veneto, che avevano casa oltre le inospitali terre del Delta, li si guardava come i più stravaganti di tutti, in quanto mangiatori di radicchio e baccalà, bevitori smodati e, almeno nel caso dei vicentini, divoratori di gatti.
Li compativo, i poverini nati lontano dalla casa di nonna Adele: dove stavano loro, così lontano dal centro del mondo, forse saliva una zaffa di stoccafisso o un rustico aroma di zuppa di cavoli, non certo il profumino di ragù che andava riempiendo le stanze dell’appartamento a labirinto, e mi sarei sbalordito se mi avessero raccontato che, un giorno, avrei traversato tutta l’Italia a piedi, dalle valli innevate dell’Alto Adige alle infuocate piantagioni di pomodoro della provincia di Siracusa, e ovunque – davanti a una scodella di canederli come agli involtini di pesce spada alla menta – mi sarei sentito a casa come fra quelle mura.